Le lesioni preterintenzionali

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La condotta di chi, nell’atto di percuotere una persona, ne cagioni lesioni involontarie: qual è la fattispecie di responsabilità correttamente configurabile?

Fatto

Il Pubblico Ministero presso il Tribunale di Taranto emetteva decreto di citazione a giudizio nel procedimento penale a carico di A e B in relazione al reato di cui agli artt. 110, 582 e 577 c.p., per aver i medesimi, in concorso fra loro, percosso la signora C, ex moglie del primo e cognata del secondo, cagionandole una lesione personale guarita in gg. 25.
All’udienza dibattimentale del 17.05.2012 il P.M. procedeva alla correzione del capo d’imputazione nei seguenti termini: laddove c’era scritto “cognata” doveva leggersi “madre adottiva”.
Il difensore dell’imputato eccepiva la nullità della “correzione” operata dal P.M. in quanto la medesima doveva più correttamente intendersi quale contestazione ex novo di una circostanza aggravante, con la conseguente necessità di sua notifica all’imputato. Nel merito sosteneva la mancanza di nesso di causalità tra la condotta dei propri assistiti e l’evento lesivo verificatosi: la relazione eziologica sarebbe stata interrotta, infatti, quale causa sopravvenuta, dall’intervento della sorella del B che, intromettendosi tra i due litiganti, provocava la caduta a terra della vittima.
Il Tribunale, con la sentenza di primo grado, chiariva preliminarmente come la modifica del capo d’imputazione attuata dal P.M. consistesse in una mera correzione di un errore materiale e non già in una nuova contestazione, non implicante pertanto la rinotifica all’imputato. Richiamava, a tale riguardo, la recente giurisprudenza a mente della quale non costituisce modifica del capo d’imputazione quella non incidente sull’individuazione da parte dell’imputato del fatto per cui è processo e sul conseguente suo diritto di difesa (Cass. Sez. V, n. 48727 del 13/10.2017).
Nel merito, poi, il giudice di primo grado riteneva provata, oltre ogni ragionevole dubbio, la responsabilità dell’imputato B.
Non poteva considerarsi, infatti, causa sopravvenuta da sola sufficiente a produrre l’evento la condotta della sorella dell’imputato giacché priva di alcun aspetto di eccezionalità ed atipicità, siccome invece richiesto dal 41 cpv. c.p.
Considerata tuttavia l’incensuratezza dell’imputato, nonché la non particolare gravità dei fatti contestati, il B veniva ritenuto dal giudice meritevole delle circostanze attenuanti generiche, valutate come prevalenti sulla contestata aggravante; di talché, considerati gli artt. 133 c.p. e 27 Cost., veniva condannato alla pena di due mesi di reclusione, oltre al risarcimento del danno nei confronti della persona offesa costituitasi parte civile.
Proposto appello avverso la sentenza di primo grado da parte del difensore dell’imputato, la Corte, ritenendo tutti i motivi di doglianza infondati, confermava la sentenza appellata; in particolare, considerava inammissibile per carenza d’interesse l’impugnazione dell’imputato volta ad ottenere l’esclusione della circostanza aggravante giacché ritenuta dal giudice di prime cure subvalente rispetto alle riconosciute attenuanti (giurisprudenza richiamata in tal senso: Cass. nn. 2311 e 27101 del 2016).
Avverso la predetta sentenza si ricorreva per cassazione.
Con il primo motivo di impugnazione veniva eccepita l’assenza di un nesso causale tra le lesioni della vittima e la condotta dell’imputato, essendo emersa, dalla stessa ricostruzione dei fatti dei giudici di prime e seconde cure, una causa sopravvenuta interruttiva del predetto nesso (l’intromissione della sorella dell’imputato, intervenuta al fine di separare i due litiganti).
Con il secondo motivo di ricorso si lamentava l’errore di qualificazione giuridica del fatto: quand’anche, invero, le lesioni patite dalla denunciante fossero state conseguenza diretta ed immediata della condotta dell’imputato, esse sarebbero valse – tutt’al più – ad integrare la gradata fattispecie di responsabilità di cui all’art. 83-590 c.p. (Evento-lesioni diverso da quello voluto dall’agente), ovvero 586 c.p. (Lesioni come conseguenza di altro delitto), con conseguente mitigazione del trattamento sanzionatorio.
Con il terzo ed ultimo motivo di doglianza il difensore dell’imputato rappresentava come la mancata notifica all’imputato assente del verbale contenente la modifica del capo d’imputazione violasse il suo diritto di difesa, con conseguente nullità della sentenza in relazione alla contestata circostanza aggravante di cui all’art. 577 c.p.; l’interesse dell’imputato all’impugnazione volta ad ottenere l’esclusione della circostanza aggravante di cui all’art. 577 n. 1 c.p., infatti, ancorché quest’ultima già ritenuta subvalente rispetto alle riconosciute attenuanti, sussisterebbe allo scopo di non incorrere in alcuna causa di revoca per indegnità dell’adottato (art. 306 cod. civ.), indegnità alla successione (art. 463, n. 2, cod. civ.) o revocazione per ingratitudine della donazione (art. 801 cod. civ.).
La Suprema Corte decideva come dalla sentenza annotata.

Le valutazioni giuridiche formulate dalla Corte di Cassazione: il primo motivo

Ricostruita in sintesi la vicenda processuale, giova ora passare in rassegna i punti più significativi della pronuncia della Cassazione, al fine di individuare possibili questioni controverse o quanto meno aspetti di novità.
Molteplici sono difatti le questioni di diritto toccate dalla sentenza in commento; partendo dal primo motivo di ricorso ritenuto inammissibile, la Cassazione affronta il complesso tema del nesso causale e dell’eventuale sua interruzione.
Nel respingere il suddetto motivo, la Suprema Corte ritiene che la causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l’evento -quale causa invocata dalla difesa nel caso de quo- debba riferirsi non al caso di un processo causale del tutto autonomo dalla condotta del soggetto agente, ma all’ipotesi di una causa completamente atipica, autonoma ed eccezionale, tale da considerare l’evento in concreto verificatosi come assolutamente imprevedibile.
Appare evidente, pertanto, come la Cassazione aderisca all’orientamento maggioritario nella giurisprudenza di legittimità, la quale si è di recente pronunciata facendo chiarezza sull’annoso dibattito relativo all’art. 41 c.2 c.p.
Nonostante l’indiscussa centralità nel nostro ordinamento del concetto di causalità, il legislatore vi ha dedicato due sole diposizioni: l’art 40 c.p., riferito al nesso causale, e l’art. 41 c.p., dedicato al concorso di cause; quest’ultima norma stabilisce al primo comma che, quand’anche indipendenti dalla condotta del reo, le cause preesistenti, simultanee o sopravvenute, non elidono il nesso eziologico tra condotta ed evento. A detta regola, tuttavia, il legislatore ha immediatamente posto un correttivo, prevendendone un’espressa deroga nel secondo comma: esso, difatti, esclusivamente in relazione alle cause sopravvenute, stabilisce che quest’ultime siano idonee ad escludere il rapporto di cui all’art. 40 c.p. quando siano da sole sufficienti a determinare l’evento.
Il tema delle serie causali autonome è stato oggetto di vaglio delle S.U. di Cassazione che, con la pronuncia del 24 aprile 2014 (Espenhahn, Rv. 261103), hanno dettato il principio di diritto secondo il quale ad interrompere, o meglio separare, le sfere di responsabilità di due condotte è la diversità dei rischi. Un comportamento cioè sarebbe interruttivo non perché eccezionale ma in quanto eccentrico rispetto al rischio che il soggetto agente è chiamato a governare; ciò significa che la causa sopravvenuta interruttiva di cui all’art. 41 c.2 c.p. sarebbe tale solo se riferita ad una circostanza idonea ad introdurre un rischio del tutto nuovo o comunque radicalmente esorbitante rispetto a quello ingenerato dalla prima condotta.
In conseguenza della teoria del rischio coniata dalle S.U. del 2014, la quale ha dunque segnato il passaggio dal tradizionale criterio dell’eccezionalità a quello dell’eccentricità, può osservarsi allora che ogniqualvolta l’intervento di un terzo non abbia soppiantato il rischio originariamente creato dal soggetto agente è a quest’ultimo che sarà imputato l’evento lesivo.
Giova da ultimo soffermarsi brevemente sulle ragioni del suddetto passaggio, al fine di comprendere cosa abbia determinato questo mutamento di giurisprudenza. Ebbene, la ricerca di una risposta a detto quesito non è poi attività così complessa se solo si considera come la vecchia applicazione dell’art. 41 c.2 c.p. portasse ad un’interpretatio abrogans della medesima norma: difatti nessuna condotta sopravvenutapuò realmente considerarsi completamente avulsa dalla precedente, di talché una lettura rigorosa e restrittiva della norma finiva per rendere il più delle volte inapplicabile l’eccezione alla regola di cui al capoverso del 41 c.p.

Il secondo motivo: il caso delle lesioni “preterintenzionali”

Passando al secondo motivo di ricorso dalla Cassazione ritenuto infondato, si rammenta come lo stesso verta su altro articolato ediscussotema, quale quello concernente la configurabilità della fattispecie di cui all’art. 586 c.p. nel caso in cui si verifichino lesioni personali come conseguenza, involontaria, del delitto di percosse.
L’art. 586 c.p., rubricato “Morte o lesioni come conseguenza di altro delitto”, prevede che, qualora da quest’ultimo – quale fattispecie necessariamente dolosa – derivino come effetto non voluto dal reo gli anzidetti eventi lesivi di morte o lesioni, dovrà ritenersi applicabile l’art. 83 c.p. Tale norma reca la disciplina da attuare nel caso in cui si verifichi un evento diverso da quello voluto dall’agente, prevedendo che questi ne risponda a titolo di colpa qualora il medesimo sia previsto dalla legge come delitto colposo. L’art. 586 c.p., tuttavia, in vista della maggiore gravità degli eventi prodotti e dell’importanza del bene tutelato, prevede, oltre all’espresso rinvio all’art. 83 c.p., che le pene stabilite negli artt. 589 e 590 c.p. siano aumentate.
Pacifico è ormai l’assunto per cui la fattispecie incriminatrice in commento non costituisca un’autonoma figura di reato bensì una speciale applicazione di aberratio delicti; entrambe le fattispecie difatti, oltre a presentare analogie sul piano testuale, sono accomunate anche sotto il diverso profilo della struttura, essendo parimenti richiesta nell’art. 586 c.p. come anche nell’art. 83 c.p. la commissione di un’attività a sfondo doloso – anche solo tentata – e il successivo verificarsi di un evento non voluto, ergo cagionato per colpa.
Prima dell’intervento delle S.U. del 2009 i rapporti tra le suddette norme incriminatrici erano alquanto controversi; ad una parte della giurisprudenza (cfr. Cass. 16 luglio 1989 n. 7089) che, aderendo alla dottrina maggioritaria, sosteneva la specialità dell’art. 586 c.p. rispetto all’art. 83 c.p., si contrapponeva altro orientamento giurisprudenziale (cfr. Cass. 2 febbraio 1995 n. 1129) che, invece, ravvisava profonde differenze: l’art. 586 c.p. in primis non richiederebbe l’eventuale errore nei mezzi di esecuzione bensì la sola condotta esecutiva di un delitto doloso, seguita da un evento non voluto ma, sul piano eziologico, ad esso collegato poiché non interrotto da fattori eccezionali non imputabili all’agente o da questi dominabili.
Chiarificatore è stato dunque l’intervento della Cassazione che, con la pronuncia 22 maggio 2009 n. 22676, sebbene abbia escluso un preciso rapporto di genus at species, ha condiviso l’orientamento alla stregua del quale l’art. 586 c.p. sarebbe norma speciale rispetto all’art. 83 c.p. presentando come elementi specializzanti sia la natura del reato base – necessariamente un delitto – che la natura dell’offesa non voluta, specificando all’uopo che debba trattarsi di morte o lesioni.
Fatta questa premessa, è possibile analizzare funditus la questione di maggiore rilevanza toccata dalla Suprema Corte nella sentenza in commento, al fine di comprendere la linea di demarcazione tra il reato di lesioni volontarie e la fattispecie di cui all’art. 586 c.p.
Nell’escludere detta norma la Cassazione ha innanzitutto evidenziato come l’attività dolosa di base di cui all’art. 586 c.p. non possa essere rivolta alla lesione del bene incolumità personale; di talché la condotta di chi, volendo solo percuotere, cagioni lesioni personali andrebbe incriminata ai sensi dell’art. 582 c.p. e non come lesioni conseguenti ad altro delitto, ledendo entrambe – percosse e lesioni – il medesimo bene, quand’anche con un diverso grado di offesa (in tal senso Cass., sez. V, 29.3.1984, n. 3483, Goller, Rv. 163729; Cass. 23.3.1990 n. 6403; Cass. Pen., Sez. I, sentenza n. 21039 del 6 giugno 2005).
Difatti, a parere della Suprema Corte, integrerebbe il reato di cui all’art. 582 c.p. e non quello di cui all’art. 586 c.p. la volontaria applicazione di violenza fisica alla persona, indipendentemente dalla forma in cui è esercitata, ogniqualvolta produca l’effetto di cagionare una lesione, essendo altresì sufficiente, sotto il profilo psicologico, ad integrare il dolo eventuale del delitto di lesioni volontarie la semplice accettazione del rischio che la manomissione fisica possa dar luogo ad effetti lesivi.
A ciò potrebbe tuttavia essere opposto in senso critico che il motivo per cui pacificamente si esclude, nell’ipotesi in cui si verifichi l’evento morte, che il reato presupposto possa essere quello di percosse o lesioni è solo (ed esclusivamente) quello per cui esiste nel codice penale il delitto di omicidio preterintenzionale ex art. 584 c.p.
Cosicché se un soggetto pone in essere una condotta di percosse o lesioni e, non volutamente, uccide c’è preterintenzione e non il reato di cui all’art. 586 c.p.
Ma un’analoga previsione non sussiste in relazione alle lesioni personali, ove il legislatore non ha previsto il delitto di lesioni preterintenzionali; ergo, non c’è ragione per escludere che in relazione a chi ponga in essere delle percosse e, non volutamente, provochi lesioni, debba applicarsi l’art. 586 c.p.
Non può revocarsi in dubbio, del resto, come l’unica espressa previsione fatta dal legislatore nell’articolo in commento sia quella per cui il reato base presupposto debba essere un delitto e non una contravvenzione e che esso sia doloso e non colposo. Stando perciò ad un’interpretazione letterale della norma non potrebbe che concludersi per l’applicazione della medesima anche in caso di percosse come delitto base, posto che ubi lex voluit dixit, ubi colui tacuit.
Trattasi di questione giuridica delicata ed, a parere degli scriventi, superficialmente vagliata dalla Suprema Corte: stabilire se le percosse (art. 581 c.p.) possano assumere rilevanza ai sensi dell’art. 586, quale “fatto preveduto come delitto doloso”, quando si cagionino al soggetto passivo lesioni involontarie.
La sentenza in commento, ponendosi nel solco di un consolidato orientamento giurisprudenziale, lo esclude.
Il relativo argomentare poggia sulle stesse ragioni già contenute nella Relazione ministeriale , che espressamente escludeva l’applicabilità dell’art. 586 c.p. quando l’omicidio o le lesioni “siano conseguenze non volute di altri delitti compresi in questo Capo” (delitti contro la vita e l’incolumità individuale), in considerazione del fatto che “anche rispetto a tali delitti, la morte o la lesione si presenta come un evento ulteriore, diverso da quello voluto dal colpevole. Tuttavia – soggiunge la Relazione – ho preferito prevedere tali eventi non come reati distinti, ma come elementi costitutivi di un reato complesso unico, poiché ho considerato che, in tali casi, così gli eventi voluti come quelli non voluti rappresentano la violazione di uno stesso bene giuridico protetto: la vita o l’incolumità personale”.
In dottrina è stato esattamente osservato che questa conclusione non trova sostegno nella lettera dell’art. 586, che non pone, sotto tale aspetto, alcuna limitazione : la formulazione letterale dell’art. 586, in altri termini, non fa riferimento alcuno all’esclusione di detta norma quando la lesione sia la conseguenza non voluta di fatti preveduti come delitti dolosi contro la vita o l’incolumità individuale.
Il problema, che è squisitamente interpretativo, va risolto quindi considerando l’art. 586 c.p. nel sistema dei delitti contro l’incolumità individuale (interpretazione sistematica). Ed in questa prospettiva si deve rilevare come l’orientamento prevalente in giurisprudenza ed espresso dalla sentenza in commento (Ai fini della sussistenza del delitto previsto dall’articolo 586 c.p., nel caso di lesioni personali il reato è configurabile soltanto quando le lesioni stesse siano derivate, quale conseguenza non voluta dal colpevole, da un fatto previsto come delitto doloso diverso da quelli contro l’incolumità individuale. Integra il reato di cui all’art. 582 c.p. e non quello di cui all’art. 586 c.p. la volontaria applicazione di violenza fisica alla persona, indipendentemente dalla forma in cui essa è esercitata, ogniqualvolta produca l’effetto di cagionare una lesione.) parte dall’equiparazione del dolo di percosse a quello di lesioni e finisce per determinare la qualificazione giuridica della condotta esclusivamente in base al risultato – oggettivo – dell’azione (sussistenza o meno di una “malattia”), utilizzando lo schema del cosiddetto “dolo indeterminato”.
E’ vero: il legislatore penale del 1930, operando una scelta criticata in dottrina come di dubbia opportunità, non ha previsto nel codice una disposizione del tipo di quella contenuta nell’art. 374 del codice Zanardelli (“Quando, nei casi preveduti negli articoli precedenti, il fatto ecceda nelle conseguenze il fine propostosi dal colpevole, le pene ivi stabilite sono diminuite da un terzo alla metà”), che prevedeva l’ipotesi della lesione preterintenzionale.
Tuttavia, se di ciò l’interprete deve tenere indubbiamente conto, sarebbe irragionevole qualificare solo per questo dolosa la lesione anche quando essa costituisca il risultato non voluto di una condotta di percosse.
Né, a sostegno dell’opinione contraria, varrebbe obiettare che secondo l’art. 581 c.p. le percosse si configurano solo quando “dal fatto non derivi una malattia nel corpo o nella mente”. Come è stato rilevato, infatti, ciò comporta l’inapplicabilità dell’art. 581 c.p. quando dalla percossa derivi una lesione, ma non significa che in questi casi automaticamente si configuri l’art. 582 c.p. .
In sostanza l’orientamento prevalente in giurisprudenza parte dall’assunto che, scomparsa la previsione delle lesioni preterintenzionali dal codice vigente, il legislatore abbia inteso equiparare alle lesioni volontarie quelle che si verificano oltre l’intenzione.
Tale conclusione, tuttavia, appare innanzitutto in contrasto con i principi fondamentali che regolano la responsabilità penale ed, in particolare, quello di “soggettività” (id est, necessaria ricerca dell’elemento soggettivo del reato con riguardo a ciascuno degli elementi costitutivi di quest’ultimo) enucleato dalla Corte Costituzionale, ex pluribus, con la nota sentenza 364/1988.
Essa, inoltre, esorbitando in malam partem dall’interpretazione letterale dell’art. 586 c.p., configura anche una violazione degli artt. 12 e 14 Prel.
Conduce, infine, ad esiti irragionevoli nella dosimetria della pena, sanzionando più gravemente condotte (lesioni involontarie come conseguenza di percosse) espressive di minore disvalore penale: la stessa giurisprudenza di legittimità, infatti, da un lato esclude l’applicabilità dell’art. 586 c.p. (e, di conseguenza, la mitigazione del trattamento sanzionatorio rispetto a quello previsto dall’art. 582 c.p.) quando le lesioni siano derivate, quale conseguenza non voluta dal colpevole, da un fatto previsto come delitto doloso contro l’incolumità individuale(percosse), dall’altro ritiene “applicabile l’art. 586 nel caso in cui l’agente, nonostante sia a conoscenza dei disturbi cardiaci della sua vittima di violenza carnale (presunta) ne continui ad approfittare carnalmente rendendola in stato di gravidanza” (Cass., 9.2.1961, Ventro, in CPMA 61, 537).

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Applicabilità dell’art. 586 c.p.: indagine sull’imputazione soggettiva

A ben vedere e volendo ripercorrere le motivazioni esposte nella pronuncia commentata, la S.C. ha palesato due ordini di ragioni a fondamento del decisum: in primis ha ritenuto che l’articolo 586 c.p., ai fini della sua configurabilità, richieda che il reato base di natura dolosa da cui derivino morte o lesioni sia fattispecie, diversa da quelle poste a presidio della incolumità individuale; in secondo luogo ha preteso che l’evento lesivo non voluto non sia imputabile al soggetto agente nemmeno a titolo di dolo indiretto o eventuale.
Detto altrimenti, non dovrebbe sussistere, ai fini dell’applicabilità dell’art. 586 c.p., né prevedibilità né accettazione del rischio in ordine alle ulteriori conseguenze della condotta posta in essere, configurandosi in caso contrario al più un concorso di reati tra il delitto voluto e quello in concreto realizzato.
In altri termini, la Suprema Corte ha ritenuto che l’evento non voluto menzionato dall’art. 586 c.p. non debba esserlo neppure in via indiretta; in caso contrario, anche l’evento realizzato in conseguenza dovrà considerarsi voluto dal soggetto agente, quanto meno a titolo di dolo eventuale, essendosi egli rappresentato la concreta possibilità del suo verificarsi e avendo deciso di agire comunque accettandone il rischio.
Anche il tema concernente l’imputazione soggettiva nel reato de quo è questione tutt’altro che pacifica; da sempre, difatti, la natura del suo elemento psicologico costituisce oggetto di acceso dibattito sia in dottrina che in giurisprudenza, come confermano le diverse tesi avanzate al riguardo.
Un primo e tradizionale orientamento ha sostenuto la sufficienza del nesso causale, ritenendo che l’evento soggettivo sia da valutare solo ed esclusivamente il relazione al delitto base; i successivi eventi di morte o lesioni personali sarebbero pertanto imputati a titolo di semplice causalità materiale, palesandosi una tipica ipotesi di responsabilità oggettiva, riconducibile al dettato di cui all’art. 42 c. 3 c.p., che non renderebbe necessaria l’indagine circa gli elementi del dolo e della colpa.
Una diversa tesi ha invece sostenuto la necessità – quantomeno – della previsione dell’evento non voluto in concreto verificatosi a seguito della condotta dolosa, di talché ai fini della configurabilità della fattispecie di cui all’art. 586 c.p. sarebbe necessaria un’imputazione almeno a titolo di colpa.
In netto contrasto con la precedente tesi e soprattutto in ossequio al principio di colpevolezza ex art. 27 Cost., tale orientamento sostiene che l’affermazione di responsabilità per morte o lesioni come conseguenza di altro delitto si leghi ad un coefficiente di prevedibilità tale per cui l’agente risponderà di detti eventi lesivi, quand’anche non voluti, avendo potuto prevederli in concreto. Non si discosta da detta tesi ma ne costituisce una specificazione il terzo orientamento, a mente del quale, in virtù dell’espresso rinvio operato dall’art. 586 c.p. all’art. 83 c.p., trattasi sicuramente di una responsabilità a titolo di colpa e, nel dettaglio, di una colpa non generica ma specifica.
Orbene, rammentando le ragioni esposte dalla Cassazione nel rigettare il secondo motivo di ricorso proposto dalla difesa, si evince che la stessa nel caso de quo ha ritenuto sussistente in capo all’imputato il dolo eventuale del delitto di lesioni personali, piuttosto che la colpa con previsione la quale, stando al secondo orientamento suesposto, spianerebbe invero la strada ad un rimprovero di colpa ai sensi dell’art. 586 c.p.
Giova allora ripercorrere i più recenti sviluppi dottrinali e giurisprudenziali in relazione al tema della linea di confine tra dolo eventuale e colpa cosciente.
Senza voler passare in rassegna le diverse teorie che nel tempo si sono susseguite in ordine al discrimen tra dolo eventuale e colpa cosciente, appare comunque opportuno evidenziare, per ciò che in tal sede interessa porre in rilievo, il superamento del criterio dell’accettazione del rischio, invece ancora richiamato dalla Cassazione in commento.
Disatteso da tempo, difatti, l’assunto per cui la dicotomia tra i due elementi psicologici risiederebbe nella rappresentazione dell’evento, posto che la previsione del fatto tipico come probabile o come possibile è elemento comune ad entrambi i profili soggettivi, il dolo eventuale sarebbe perciò ravvisabile in luogo della colpa solo qualora il rischio oggetto di rappresentazione sia accettato a seguito di una deliberazione con cui il soggetto agente subordina un determinato bene ad una altro (in tal senso Cass. Pen., Sez. I, 15 marzo 2011, n. 10411).
In altri termini, l’indagine del giudice sul predetto discrimen dovrebbe essere volta a verificare se il reo, avendo previsto come sicuro il verificarsi di un dato evento lesivo, si sia consapevolmente determinato ad agire comunque a seguito di una debita ponderazione, ossia di un bilanciamento tra gli interessi in gioco; ovvero abbia confidato nelle proprie capacità di evitare la produzione dell’evento.
In tali termini, d’altronde, si sono espresse nel 2014 le Sezioni Unite della Cassazione nella famosa sentenza sul caso Thyssenkroup: nel rivisitare funditus il tema del confine tra dolo eventuale e colpa cosciente, la S.C. ritenne che ai fini del dolo eventuale si debba scorgere nell’agente una consapevole presa di posizione di adesione all’evento, che consenta di ravvisarvi un atteggiamento ragionevolmente analogo alla volontà; la scelta fatta dall’imputato dovrebbe cioè essere tale da privilegiare il raggiungimento dei propri scopi egoistici, accettando l’evento come contropartita rispetto all’obiettivo dallo stesso inizialmente perseguito.
Ne consegue che tale, preteso, bilanciamento dovrebbe escludersi in casi – come quello di specie deciso dalla Cassazione – in cui la notevole rapidità degli avvenimenti è logicamente inconciliabile con una consapevole deliberazione, ovvero con una scelta razionale dell’agente il più possibile assimilabile alla volontà.

 

a cura di Giulia Verzillo e Francesco Paolo Garzone

Sentenza collegata

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Avv. Garzone Francesco Paolo

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