Licenziati i lavoratori che inscenano il finto suicidio dell’amministratore delegato

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La condotta travalica la correttezza formale della critica

Appare indubbio che la grossolana ed incredibile rappresentazione di alcuni fatti in modo satirico, generalmente, non ha capacità offensiva, né appare idonea ad offendere la reputazione altrui, tuttavia, la satira non può travalicare i limiti della correttezza formale mediante l’attribuzione di caratteristiche evidentemente disdicevoli, di allusioni sgarbate e offensive tali da provocare denigrazione e scherno.

Nello specifico, la raffigurazione scenografica di un artato suicidio, a mezzo di impiccagione, con tutti gli elementi necessaria alla messinscena, quali il patibolo, il manichino impiccato con la foto dell’amministratore delegato, il testamento e le tute macchiate di vernice rossa atte a rappresentare il sangue, esorbita i limiti della moderazione formale, con l’attribuzione alla “vittima” della satira di qualità moralmente disonorevoli, assoggettandolo al pubblico disprezzo.

L’art. 2 della Costituzione, pur a fronte del diritto di critica e satira, impone nondimeno l’utilizzo di modalità espressive, quand’anche taglienti e ironiche, formalmente corrette e rispettose della democratica convivenza civile.

Il superamento di tali limiti da parte dei lavoratori rappresenta una condotta idonea a rescindere il legame fiduciario che funge da presupposto del rapporto di lavoro.

Questi i principi di diritti contenuti nella sentenza n. 14527, della Corte di Cassazione, Sezione lavoro, relatore dott.ssa E. Boghetic, depositata in data 6 giugno 2018.

La vicenda

La Corte d’appello di Napoli riformava la sentenza di primo grado emessa dal Tribunale di Nola, dichiarando l’illegittimità del licenziamento intimato nei confronti di cinque dipendenti della FCA Italy SpA, con contestuale reintegrazione nel posto di lavoro.

I Giudici di secondo grado ritenevano, infatti, non sussistere la giusta causa del licenziamento in assenza di un grave pregiudizio morale o materiale in danno della società datrice di lavoro.

La macabra rappresentazione, nell’area posta nelle immediate vicinanze dello stabilimento aziendale, afferente il finto suicidio dell’amministratore delegato, rientrava – a dire della Corte territoriale – nel legittimo esercizio del diritto di critica da parte dei dipendenti, anche in considerazione della mancanza di violenza o di frasi offensive e sconvenienti e, comunque, non esorbitanti lo scopo della denuncia intavolata.

Ricorre per cassazione la società datrice di lavoro, affidato a undici motivi, tra cui, la violazione e falsa applicazione dell’art. 2119, 2105, 1175 e 1375 Cc. Resistono con controricorso i lavoratori licenziati.

Decisione della Cassazione

Il Giudice di legittimità evidenzia preliminarmente come nella sentenza impugnata si è dato atto dell’effettivo accadimenti dei fatti che hanno portato al licenziamento dei dipendenti.

Ed in particolare, la condotta tenuta dai lavoratori che hanno posto in essere una cruenta rappresentazione scenica in segno di protesta contro le politiche aziendali.

Annota ancora come il Giudice d’appello abbia <<ritenuto legittimo, per quanto aspro, l’esercizio del diritto di critica manifestato dai lavoratori mediante la rappresentazione scenica dell’impiccagione dell’amministratore delegato della società, del suo testamento e del suo funerale in quanto ha ritenuto rispettati i limiti della continenza sostanziale e formale>>.

Ciò posto, fermo restando il sacrosanto diritto di critica, espressa anche mediante la satira, rileva come lo stesso <<non si sottrae al limite della c.d. continenza formale (cfr. Cass. n. 14485 del 2000, Cass. n. 7091 del 2001), ossia non può essere sganciato da ogni limite di forma espositiva; ciò in quanto in presenza di due interessi collidenti, e cioè l’interesse della persona oggetto della satira – costituzionalmente garantito dall’art. 2 Cost. sulla tutela della persona umana nel suo essere e nel suo manifestarsi – e l’interesse contrapposto di chi ne sia l’autore – anch’esso costituzionalmente garantito dall’art. 21 Cost. sulla libertà di manifestazione del pensiero – occorre trovare un punto di equilibrio che va individuato nel limite in cui il secondo interesse, e quindi anche il diritto di satira, non rechi pregiudizio all’onore, alla reputazione e al decoro di chi ne è oggetto. L’esistenza del pregiudizio, ossia la esposizione della persona al disprezzo e al ludibrio della sua immagine pubblica, si deve verificare alla luce e nel contesto del linguaggio usato dalla satira, il quale, essendo inteso, con accento caricaturale, alla dissacrazione e allo smascheramento di errori e vizi di uno o più persone, è essenzialmente simbolico e paradossale.>>.

Nel caso concreto, se pur <<la plateale inverosimiglianza dei fatti espressi in forma satirica porta, in genere, ad escludere la loro capacità di offendere la reputazione (che viene, invece, più facilmente colpita dall’apparente ed implicita attendibilità dei fatti riferiti in un contesto enunciativo), tuttavia neppure la satira può esorbitare dalla continenza, ossia dai limiti della correttezza formale che le sono imposti, nel caso di attribuzione di qualità apertamente disonorevoli, di riferimenti volgari e infamanti e di deformazioni tali da suscitare il disprezzo e il dileggio.>>.

Ecco che allora la messinscena, con tutti gli elementi costitutivi , quali, <<il patibolo, il manichino impiccato con la foto dell’amministratore delegato, lo scritto affisso al palo a mo’ di testamento, le tute macchiate di vernice rossa a mo’ di sangue) ha esorbitato dai limiti della continenza formale attribuendo all’amministratore delegato qualità riprovevoli e moralmente disonorevoli, esponendo il destinatario al pubblico dileggio, effettuando accostamenti e riferimenti violenti e deprecabili in modo da suscitare sdegno, disistima nonché derisione e irrisione e travalicando, dunque, il limite della tutela della persona umana richiesto dall’art. 2 della Costituzione che impone, anche a fronte dell’esercizio del diritto di critica e di satira, l’adozione di forme espositive seppur incisive e ironiche ma pur sempre misurate tali da evitare di evocare pretese indegnità personali.>>.

Appurato, pertanto, che le modalità con cui la critica è stata posta in essere ha <<travalicato i limiti di rispetto della democratica convivenza civile, mediante offese gratuite, spostando una dialettica sindacale anche aspra ma riconducibile ad una fisiologica contrapposizione tra lavoratori e datori di lavoro, su un piano di non ritorno che evoca uno scontro violento e sanguinario, fine a se stesso>>, tale condotta, esorbitando dalla correttezza formale, appare idonea a <<ledere definitivamente la fiducia che sta alla base del rapporto di lavoro, introducendo in azienda una conflittualità che trascende il regolare svolgimento e la fisiologica dialettica del rapporto di lavoro.>>.

Il ricorso del datore di lavoro viene, pertanto, accolto e la sentenza cassata senza rinvio, di talché, decidendo nel merito, La Suprema Corte rigetta l’impugnativa avverso il licenziamento e, conseguentemente, il provvedimento espulsivo viene definitivamente comminato in danno dei lavoratori.

Sentenza collegata

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Avv. Accoti Paolo

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