Libertà di cura, chi decide se il paziente non è cosciente?

Redazione 13/07/17
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L’amministratore di sostegno può chiedere l’autorizzazione a negare delle specifiche cure mediche per conto del malato incosciente o incapace di intendere. Il rifiuto delle cure è una decisione che rientra tra i diritti del paziente, che può essere ufficializzata per iscritto quando questi è ancora cosciente e che non può essere rigettata dal tribunale competente. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con la recente sentenza del 7 giugno 2017, n. 14158.

Vediamo allora in quali casi l’amministratore di sostegno può agire per conto del malato e negare il consenso a specifici trattamenti medici.

 

Cassazione: possibile negare il consenso alle cure

La Cassazione ha ribadito il principio secondo il quale il malato può negare il proprio consenso a determinate cure e trattamenti terapeutici. Il diritto all’autodeterminazione nelle scelte sanitarie è infatti sancito dall’art. 32 della Costituzione: l’art. 19 garantisce poi il rispetto delle convinzioni religiose di tutti i cittadini, anche quando queste siano relative all’accettazione o al rifiuto di specifiche pratiche terapeutiche.

Questo principio vale anche nel caso in cui il paziente, ormai non più cosciente e quindi incapace di intendere, abbia precedentemente provveduto a nominare un amministratore di sostegno e a consegnare a questi specifiche istruzioni riguardo il proprio trattamento ospedaliero.

 

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Il rifiuto della trasfusione per i testimoni di Geova

Nel caso di specie, la Cassazione si è espressa sulla vicenda di un paziente testimone di Geova che, prima della sopraggiunta incapacità, aveva nominato sua moglie amministratrice di sostegno. In ossequio ai principi della sua religione, il malato aveva consegnato alla moglie un documento intitolato “Direttive anticipate relative alle cure mediche con contestuale designazione dell’amministratore di sostegno”, nel quale negava il consenso alla trasfusione di sangue.

La moglie aveva quindi chiesto al Giudice tutelare, dopo la perdita di coscienza del marito, l’autorizzazione a negare la trasfusione: il Giudice ha però rifiutato l’istanza. L’amministratrice era quindi ricorsa alla Corte d’Appello, ma questa aveva dichiarato il reclamo inammissibile perché il provvedimento del Giudice tutelare era inerente alla sola “fase gestionale” dell’amministrazione di sostegno. La donna ha infine fatto ricorso per Cassazione, ma nel frattempo il marito era deceduto.

Il ricorso dell’amministratrice deve essere accettato in appello

Nonostante il ricorso fosse diventato ovviamente inammissibile per la sopravvenuta morte del beneficiario, la Corte di Cassazione ha comunque ritenuto di dover emettere una pronuncia d’ufficio per chiarezza e nell’interesse della legge.

Ebbene, la Suprema Corte ha sentenziato che il ricorso dell’amministratrice di sostegno doveva essere accolto dalla Corte d’Appello, che era competente in quanto la questione relativa alla negazione del consenso a specifici trattamenti “ha natura decisoria” e non meramente gestionale. Non solo: il responso della Corte d’Appello doveva essere favorevole alla ricorrente proprio in base al principio della libertà di cura.

Libertà di cura e autodeterminazione individuale

Il diritto alla libertà di cura e il principio dell’autodeterminazione individuale sono garantiti non solo dall’art. 32 della Costituzione, ma anche dalla legge europea e internazionale. Gli artt. 8 e 9 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, in particolare, tutelano il diritto al rispetto della vita privata e familiare e la libertà di pensiero e di religione. Gli artt. 5 e 9 della Convenzione di Oviedo sui diritti umani e la biomedicina, inoltre, stabiliscono che i trattamenti medici possono essere effettuati solo sul presupposto del consenso libero e informato del paziente.

Per la Corte di Cassazione non ci sono dunque dubbi: nel caso di specie, e per tutti i casi simili in materia di libertà di cura, è il paziente a poter scegliere quali trattamenti sanitari accettare o rifiutare.

Sentenza collegata

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