Le insistenti richieste di effettuazione di diagnosi prenatali sono indice della volontà abortiva della madre per il caso di malformazioni del feto

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Riferimenti normativi: art. 115 c.p.c.; art. 2697 c.c.; art. 1218 c.c.; art. 2043 cod. civ.
Precedenti giurisprudenziali: Cass. Sez. U. 25767/2015; Cass. Sez. terza n. 24220 del 27/11/2025; Cass. Sez. U n. 26972/2008; Cass. N. 235/2014, Cass. Sez. terza, n. 901/2018; Cass. Sez. terza, n. 7513/2018;

Fatto

La madre di una bambina affetta dalla sindrome di Down si era rivolta al giudice di primo grado al fine di vedere condannare il medico specialista in ginecologia che l’aveva assistita durante la gravidanza nonché la struttura sanitaria dove egli prestava servizio, al risarcimento del danno patrimoniale, morale e biologico subito dalla madre a causa della nascita non desiderata di una bambina down.
Il Giudice di primo grado si esprimeva favorevolmente nei confronti della domanda attrice, giudicando il medico curante della gestante, in solido con la struttura sanitaria in cui lavorava come ginecologo, responsabile per il danno morale, biologico e patrimoniale subito dalla madre, e dovuto, appunto, dalla nascita non voluta di una bambina affetta da sindrome di Down.
Secondo il Tribunale la responsabilità del medico si ravvisava nel suo rifiuto di svolgere esami e test prenatali sulla gestante a causa del cerchiaggio praticato sulla stessa, a causa del quale il medico aveva sconsigliato ogni pratica invasiva sul feto.
Sia il medico che la struttura sanitaria soccombenti in primo grado proponevano appello alla sentenza a loro sfavorevole. Ma anche in questo grado di giudizio gli appellanti ne uscivano soccombenti. La Cote d’Appello aveva confermato la sentenza del Tribunale sul convincimento che le insistenti richieste di effettuare test clinici sul nascituro da parte della madre, e rivolte al medico ginecologo, fossero sufficientemente sintomatiche dell’intento di abortire nel caso in cui fosse stata riscontrata una grave anomalia nel feto. Allo stesso tempo i Giudici di secondo grado avevano, però, accertato in misura minore il danno biologico e patrimoniale conseguente alla omessa effettuazione dei test diagnostici richiesti dalla gestante durante la gravidanza, negando per giunta la sussistenza del danno morale (riconosciuto invece come ulteriore voce di danno alla persona dal Tribunale) intendendolo assorbito nel danno biologico di tipo psichico e permanente nella misura del 20% alla madre.
Di fronte ad una tale decisione la madre decideva di adire la Corte di Cassazione per vedere riformata la sentenza di appello, presentando quattro motivi di doglianza. In via incidentale adiva i Giudici di legittimità anche il medico ginecologo il quale, per quanto qui di interesse, si doleva del fatto che i Giudici di Appello non avevano considerato che l’onere della prova dell’intento abortivo gravava sulla madre, e tale prova non era da questa stata data..

La decisione della Corte

I Giudici della Corte di Cassazione esaminati i singoli motivi di ricorso si sono espressi accogliendo il ricorso presentato dalla madre limitatamente a due motivi di doglianza, rigettando i restanti.
In riferimento al motivo di ricorso incidentale avanzato dal medico, i Giudici della Corte di Cassazione si sono espressi sfavorevolmente, ritenendolo infondato. Gli Ermellini richiamando una precedente pronuncia delle Sezioni Unite in tema di responsabilità medica da nascita indesiderata, hanno ribadito che il genitore che agisce per il risarcimento del danno ha l’onere di provare la volontà della madre di interrompere la gravidanza ove questa fosse stata tempestivamente informata sull’anomalia del feto, attraverso, ad esempio, la dimostrazione di aver chiesto consulti per conoscere lo stato di salute del nascituro, dalle precarie condizioni psico-fisiche della gestante, o dalle pregresse manifestazioni del pensiero abortivo, gravando, invece, sul medico la prova contraria. Nel caso di specie, i Giudici hanno rilevato che non esiste una violazione degli oneri probatori da parte della ricorrente avendo la stessa dimostrato la volontà abortiva. La volontà in tal senso da parte della gestante era desumibile sia dalle insistenti richieste di effettuazione di diagnosi prenatali – rifiutate dal medico- sia dalle statistiche sul ricorso all’interruzione della gravidanza in caso di feti malformati che mostrano un’alta percentuale di richieste di interruzione della gravidanza in caso di preventiva conoscenza di malformazioni derivanti dalla sindrome di down.
Con riguardo ai motivi di ricorso avanzati dalla parte attrice, e in particolare per quanto qui di interesse, al mancato riconoscimento della sussistenza del danno morale, poiché ritenuto assorbito dal danno biologico, la Suprema Corte si è espressa ritenendo corretta la valutazione operata dalla Corte d’Appello. Questa infatti, secondo il giudizio della Cassazione ha correttamente applicato i principi contenuti in precedenti giurisprudenziali in tema di risarcimento del danno non patrimoniale conseguente alla lesione di interessi costituzionalmente protetti, valutando sul piano probatorio tanto l’aspetto interiore del danno quanto il suo impatto modificativo in peggio con la vita quotidiana. Secondo l’orientamento della corte di legittimità la sofferenza umana può dar vita a danni diversi e autonomamente risarcibili, solo se provati caso per caso con tutti i mezzi di prova normativamente previsti, e non costituisce duplicazione la congiunta attribuzione del danno biologico e di una ulteriore somma a titolo di risarcimento dei pregiudizi che non hanno fondamento medico-legale, estranei al grado di percentuale di invalidità permanente, ad esempio il dolore dell’animo, la vergogna, la paura, la disperazione. Viceversa costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione del danno biologico e del danno dinamico-relazionale quando il pregiudizio lamentato è già espressione percentuale per invalidità permanente.
In riferimento al secondo motivo relativo alla riduzione del danno biologico ad 1/3 del danno accertato nella misura del 20% con punto di invalidità permanente valutato secondo le tabelle milanesi, i Giudici della Cassazione hanno evidenziato che nel danno biologico quando vi è una minima incertezza sull’eventuale contributo che un fattore naturale può avere sul verificarsi del danno non è possibile affidarsi ad un ragionamento probatorio semplificato tale da condurre ad un frazionamento della responsabilità in via equitativa con relativo ridimensionamento del quantum risarcitorio. Ai fini della configurabilità del nesso causale tra un fatto illecito ed un danno di natura psichica non è necessario che quest’ultimo si prospetti come conseguenza certa e in equivoca dell’evento traumatico, ma è sufficiente che la derivazione causale possa affermarsi in base ad un criterio di elevata probabilità e che non sia stato provato l’intervento di un fattore successivo tale da disconnettere la sequenza causale così accertata. Nel caso di specie la Cassazione ha ritenuto che la quantificazione del danno subito dalla ricorrente era la misura del suo danno alla persona eziologicamente collegato all’evento lesivo a cui la Corte d’Appello avrebbe dovuto attenersi senza operare operazioni di scomposizione matematica.

Sentenza collegata

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Avv. Muia’ Pier Paolo

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