Decesso prima del tempo, responsabili i sanitari per omessa diagnosi

Redazione 04/07/18
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Determina l’esistenza di un danno risarcibile alla persona, l’omissione della diagnosi di un processo morboso terminale, ove risulti che, per effetto dell’omissione medesima, il paziente abbia perduto la possibilità di sopravvivenza per alcune settimane o alcuni mesi, o comunque per un periodo limitato, in più rispetto al tempo effettivamente vissuto.

E’ il principio enunciato dalla Corte di Cassazione, terza sezione civile, con sentenza n. 16919 del 27 giugno 2018, accogliendo il ricorso di alcuni soggetti, volto alla condanna della struttura sanitaria e del medico curante per il decesso del loro congiunto. Esponevano in particolare i ricorrenti, che il paziente – poi deceduto – si era recato presso il pronto soccorso dell’Ospedale per dei violenti dolori, ove il medico convenuto gli aveva diagnosticato una semplice nevralgia con rinvio a casa. Solo il mattino seguente, tuttavia, a seguito di elettrocardiogramma con diagnosi di infarto acuto e prescrizione di ricovero d’urgenza, il paziente decedeva.

La domanda degli attori di condanna al risarcimento del danno, veniva dapprima rigettata dalla Corte d’Appello, la quale, pur dando atto della negligenza ed imperizia del sanitario nel non disporre immediatamente il ricovero d’urgenza, dava altresì rilevanza alle gravissime condizioni del paziente, la cui prospettiva di vita, in termini di altissima probabilità statistica, non poteva superare alcuni mesi (12 mesi secondo la tesi più favorevole, 3 mesi in base a quella meno favorevole). Per cui, anche qualora la patologia in essere fosse stata immediatamente riconosciuta e fronteggiata dal sanitario, alla luce degli accertamenti peritali, vi sarebbe stata comunque un’alta probabilità di evento fatale intra- ricovero.

Perdita della possibilità di vivere più a lungo, anche se di poco

La Cassazione, tuttavia, non condivide tale assunto, ma ravvisa un’ipotesi di danno risarcibile da parte dei sanitari, per aver gli stessi omesso di diagnosticare un processo morboso, sebbene allo stato terminale. Per effetto di tale omissione, il paziente ha perduto la chance di vivere anche solo per alcune settimane o alcuni mesi in più rispetto a quanto effettivamente vissuto.

La chance in tal caso non rileva come danno-conseguenza ex art. 1223 c.c., bensì come danno evento. Il punto di riferimento della causalità materiale è proprio l’evento perdita di chance in termini di perdita della possibilità di una vita più lunga da parte del paziente. Il nesso di causalità materiale fra la condotta colposa e l’evento, va quindi posto in relazione non con l’evento morte sic et simpliciter, ma con la perdita di detto limitato periodo di sopravvivenza. Sulla scorta di tali argomentazioni, la Suprema Corte cassa la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’appello, che nel decidere, dovrà attenersi ai sopra enunciati principi.

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