Divieto di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni dei difensori, a cosa si riferisce?

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Il divieto di intercettazioni relative a conversazioni o comunicazioni dei difensori, non riguarda indiscriminatamente tutte le conversazioni di chi riveste tale qualifica, e per il solo fatto di possederla, ma solo le conversazioni che attengono alla funzione esercitata, in quanto la “ratio” della regola posta dall’art. 103 cod. proc. pen., va rinvenuta nella tutela del diritto di difesa.

(Ricorso dichiarato inammissibile)

(Normativa di riferimento: C.p.p. art. 103)

Il fatto

La Corte di appello di Milano confermava la responsabilità dei ricorrenti per il reato di estorsione, rideterminando la pena inflitta in primo grado tenuto conto dell’estinzione per decorso del termine di prescrizione di alcuni reati satellite.

Motivi addotti nel ricorso per Cassazione

Avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione il difensore degli imputati che deduceva: a) vizio di legge: si deduceva l’inutilizzabilità dei contenuti della intercettazione intercorsa con l’avv. B.; secondo il legale, tale conversazione, contrariamente a quanto ritenuto dai giudici di merito, non avrebbe contenuto amicale, ma professionale, non rilevando il fatto che il mandato defensionale non fosse stato conferito e che l’imputato non fosse all’epoca iscritto nel registro degli indagati; b) vizio di legge e di motivazione: si deduceva che il fatto contestato era stato erroneamente qualificato come estorsione, laddove in ragione dell’esistenza di un credito esigibile vantato da uno degli imputati nei confronti della persona offesa e delle modalità delle minacce avrebbe dovuto essere inquadrato nella fattispecie prevista dall’art. 393 cod. pen..

Valutazioni giuridiche della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione dichiarava inammissibile il suddetto ricorso alla stregua delle seguenti considerazioni.

In ordine al primo motivo di ricorso, il collegio ribadiva che il divieto di intercettazioni relative a conversazioni o comunicazioni dei difensori, non riguarda indiscriminatamente tutte le conversazioni di chi riveste tale qualifica, e per il solo fatto di possederla, ma solo le conversazioni che attengono alla funzione esercitata, in quanto la “ratio” della regola posta dall’art. 103 cod. proc. pen., va rinvenuta nella tutela del diritto di difesa e, con specifico riguardo alla intercettazione di un colloquio tra l’indagato ed un avvocato, legati da uno stretto rapporto di amicizia, per la cui utilizzabilità la Corte riteneva all’uopo necessario che il giudice del merito dovesse valutare: a) se quanto detto dall’indagato fosse finalizzato ad ottenere consigli difensivi professionali o non costituisse piuttosto una mera confidenza fatta all’amico; b) se quanto detto dall’avvocato avesse natura professionale oppure consolatoria ed amicale a fronte delle confidenze ricevute (Cass. sez. 2, n. 26323 del 29/05/2014 – dep. 18/06/2014, omissis, Rv. 259585).

Nel caso di specie si faceva presente come i giudici di merito di entrambi i gradi di giudizio avessero valutato la conversazione censurata di natura non professionale ma amicale.

Tra l’altro, evidenziava altresì la Corte, la valutazione conforme di merito espressa sul punto dai giudici di entrambi i gradi di giudizio non risultava scalfita dalle doglianze difensive orientate a qualificare il contenuto della conversazione come professionale nonostante la stessa si era risolta per stessa ammissione difensiva nella apprensione del problema e nella indicazione di un professionista competente per gestire la situazione processuale dell’appellante.

In riferimento al secondo motivo di ricorso, gli ermellini osservavano come detta doglianza fosse manifestamente infondato in quanto, alla luce della consolidata giurisprudenza che definisce i confini delle fattispecie previste dall’art. 629 e 393 cod. pen., è configurabile il delitto di estorsione, e non quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone, in presenza di una delle seguenti condizioni relative alla condotta di esazione violenta o minacciosa di un credito: a) la sussistenza di una finalità costrittiva dell’agente, volta non già a persuadere ma a costringere la vittima, annullandone le capacità volitive; b) l’estraneità al rapporto contrattuale di colui che esige il credito, il quale agisca anche solo al fine di confermare ed accrescere il proprio prestigio criminale attraverso l’esazione con violenza e minaccia del credito altrui; c) la condotta minacciosa e violenta finalizzata al recupero del credito sia diretta nei confronti non soltanto del debitore ma anche di persone estranee al sinallagma contrattuale (Cass. sez. 2 n. 11453 del 17/02/2016, Rv. 267123; Cass. Sez. 2 n. 5092 del 20/12/2017dep. 2018, Rv. 272017).

Dopo aver citato questo orientamento nomofilattico, i giudici di Piazza Cavour mettevano in evidenza come nel caso di specie le modalità dell’azione ricostruite dalle due sentenze conformi di merito fossero all’evidenza “costrittive“, cioè mirate all’annichilimento delle capacità di reazione della persona offesa la cui volontà risulta annientata, e di fatto eterodiretta, dalla violenza esercitata dall’agente.

Ebbene, ad avviso della Corte, tale caratteristica dell’azione era immediatamente riconducibile alla fattispecie prevista dall’art. 629 cod. pen. la cui condotta-tipo era decritta proprio dal verbo “costringere“.

Oltre a ciò, si evidenziava sotto il profilo probatorio che, per un verso, uno degli imputati non risultava titolare di alcun credito tutelabile in sede giudiziaria, per altro verso, la circostanza che sempre questo imputato, per porre in essere l’azione intimidatoria, avesse fatto ricorso ad un pregiudicato, ovvero ad una persona estranea al rapporto contrattuale e che risolveva in modo professionale questioni di questo genere.

La sussistenza di tali elementi, pertanto, secondo i giudici di legittimità ordinaria, ostava alla qualificazione del fatto contestato nella più lieve fattispecie prevista dall’art. 393 cod. pen..

Conclusioni

La sentenza in argomento è condivisibile in quanto in essa si fa un buon governo dei criteri ermeneutici che la stessa Cassazione ha elaborato, da un lato, per quel che riguarda quanto previsto dall’art. 103 c.p.p., dall’altro, per quel che riguarda la distinzione tra estorsione ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone.

Infatti, nell’affermare che il divieto di intercettazioni relative a conversazioni o comunicazioni dei difensori, non riguarda indiscriminatamente tutte le conversazioni di chi riveste tale qualifica, e per il solo fatto di possederla, ma solo le conversazioni che attengono alla funzione esercitata, si pone lungo il solco di un pregresso orientamento nomofilattico in cui si è addivenuti alla medesima affermazione giuridica.

Lo stesso dicasi per quella parte di questa decisione in cui è stato postulato che è configurabile il delitto di estorsione, e non quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone, in presenza di una delle seguenti condizioni relative alla condotta di esazione violenta o minacciosa di un credito: a) la sussistenza di una finalità costrittiva dell’agente, volta non già a persuadere ma a costringere la vittima, annullandone le capacità volitive; b) l’estraneità al rapporto contrattuale di colui che esige il credito, il quale agisca anche solo al fine di confermare ed accrescere il proprio prestigio criminale attraverso l’esazione con violenza e minaccia del credito altrui; c) la condotta minacciosa e violenta finalizzata al recupero del credito sia diretta nei confronti non soltanto del debitore ma anche di persone estranee al sinallagma contrattuale; difatti, quanto appena esposto era stato già enunciato in sede di legittimità nel passato.

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Sentenza collegata

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