Corruzione in atti giudiziari: false attestazioni di incompatibilità dello stato di salute del detenuto con il regime carcerario (Cass. pen. n. 38475/2012)

Redazione 03/10/12
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Fatto

1.- Con sentenza del 27 aprile 2011 la Corte d’appello di Napoli confermava la condanna inflitta in primo grado a Na.F. per i reati:
a.- di cui agli artt. 110, 81 cpv., 319 ter e 374 bis c.p., comma 2, aggravati ex L. n. 203 del 1991, art. 7, contestati ai capi o) (319 ter), p) dell’imputazione, per avere in concorso con altri, chiesto e ottenuto, dietro esborso di denaro, da No.V., perito del GIP di Napoli, una relazione tecnica compiacente che ne attestava uno stato di salute mentale incompatibile con la detenzione intramuraria, si da fargli ottenere gli arresti domiciliari e conseguentemente favorire un componente apicale del clan camorristico Be., egemone nel territorio di Marcianise;
b.- di cui agli artt. 110, 81 cpv. e 374 bis c.p., comma 2, aggravato ex L. n. 203 del 1991, art. 7, contestati ai capi o) (319 ter), p) dell’imputazione, per avere chiesto e ottenuto da Di. Ma. G., medico psichiatra presso l’Unità operativa di salute mentale dell’ASL CE 1, relazioni sanitarie false e compiacenti, grazie alle quali conseguiva benefici penitenziari ed la sostituzione della custodia carceraria con gli arresti domiciliari.
2.- Avverso la sentenza il Na. propone ricorso per cassazione e deduce violazione di legge e vizio di motivazione in ordine:
a.- alla valutazione di attendibilità delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia ****** e della di lui moglie Ru. M.G., operata prescindendo dalla considerazione della grave inimicizia esistente fra il Fr. e il ricorrente, accusato dell’omicidio di suo fratello R., dalla già acclarata inaffidabilità di esso dichiarante e dalle sospette modalità progressive del narrato, e non tenendosi conto che il collaboratore e sua moglie sono entrambi testi “de relato”, per avere appreso i fatti dallo zio Fr. Ma., che ha smentito, e hanno reso versioni incompatibili con altre risultanze;
b.- alla ipervalorizzazione della consulenza del P.M., che si esprime invece in modo dubbioso ed è da ritenere poi superata dall’accertamento tecnico (non considerato dalla Corte di merito) del dott. D’A., secondo il quale il quadro clinico psicopatologico riscontrato al Na. appare congruo con le conclusioni diagnostiche e la valutazione medico-legale del dr. No., che trovano altresì rispondenza nella precedente storia clinica del soggetto;
c.- alla sostanziale assenza di riscontri alle due chiamate “de relato”;
d.- all’assunto che l’affermazione di determinate condizioni di salute rientri nel novero delle attestazioni, laddove, mentre l’attestazione dei sintomi o dei dati risultanti da indagini strumentali dev’essere necessariamente veritiera, la diagnosi, essendo un atto intellettivo, e dunque un giudizio, può essere errata ma non falsa, e tale è il caso degli addebiti rivolti alla consulenza del dr. No., riguardanti appunto le conclusioni diagnostiche, con le quali il consulente svolge valutazioni e formula giudizi sulla base di premesse oggettivamente vere, e anche all’operato del dott. Di. Ma.
2.1.- Con altro motivo il ricorrente contesta la ritenuta sussistenza dell’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7, posto che l’attività spiegata a suo favore interessava evidentemente il Na. solo sotto il profilo dell’agevolazione personale di rendere meno gravoso il suo stato di detenzione, sicché l’aggravante in esame non può a lui essere attribuita.

Diritto

Il ricorso è infondato.
Col motivo di ricorso di cui sopra sub 2.a., invero, il ricorrente deduce censure sostanzialmente valutative e riferite in larga parte a segmenti circoscritti del narrato dei collaboranti, che perdono rilievo a fronte della generale ricostruzione della vicenda operata dai giudici di merito, che, senza incorrere in vizi rilevanti in questa sede, hanno persuasivamente argomentato, alla stregua del complesso delle prove acquisite, in ordine alla credibilità degli accusatori (nonostante il riconosciuto rapporti di inimicizia tra Fr.M. e il Na.) e alla attendibilità delle loro accuse, chiarendo altresì specificamente, sull’eccezione che si tratterebbe di accuse indirette, da un lato, che i fatti riferiti dalla Ru. erano in gran parte caduti sotto la sua personale percezione, in quanto la stessa era stata presente a uno degli incontri dello zio Fr.Ma. e di ********, moglie del Na., con il dr. No., e, dall’altro, che il Fr. aveva avuto notizia dell’intervento richiesto dalla moglie del Na. direttamente nel colloquio in carcere coni congiunti (lo zio e la moglie), ai quali aveva dato il proprio consenso al riguardo.
Relativamente alle doglianze di cui sopra sub 2.b. e 2.c, deve osservarsi che l’impugnata sentenza ha esaminato in modo puntuale e non illogico la documentazione in atti e gli accertamenti peritali eseguiti (ivi compreso quello del dott. D’A.), pervenendo alla motivata conclusione della piena attendibilità della relazione a firma dei dottori Pa. e Ru., coerentemente ritenuta (in una alla documentazione suddetta) decisivo riscontro alle accuse dei collaboranti. Né è, evidentemente, proponibile in questa sede una diversa rilettura di merito dei documenti e dei rilievi tecnici in atti.
Quanto all’assunto, di cui sopra sub 2.d., dell’inconfigurabilità del reato ex art. 374 bis c.p. in presenza di mere valutazioni e conclusioni diagnostiche, rilevasi che dalle caratteristiche oggettive della condotta tipica della fattispecie in esame (che punisce la dichiarazione o falsa attestazione in certificati o atti destinati ad essere prodotti all’autorità giudiziaria di condizioni, qualità personali o trattamenti terapeutici relativi all’imputato, al condannato o a persona sottoposta a procedimento di prevenzione) si deduce che soggetti attivi dell’illecito penale perseguito possono essere anche periti e consulenti tecnici, qualora a seguito e in relazione alla perizia o consulenza tecnica eseguite attestino o certifichino condizioni o qualità personali diverse o inesistenti ovvero trattamenti terapeutici non eseguiti o di cui non è necessaria l’esecuzione (Cass., Sez. 6^, 6 ottobre 1995 n. 3446, ric. P.M. in proc. *******). Ora, se è indubbiamente vero che in linea generale tale falsificazione non può riguardare l’essenza del giudizio diagnostico, eminentemente intellettivo-valutativa, ciò non può valere nell’ipotesi – ricorrente nel caso di specie – in cui la conclusione diagnostica sia solo in apparenza frutto di un processo valutativo ma costituisca in realtà una concordata e deliberata alterazione dell’oggettività clinica, diretta a rappresentare la falsa esistenza degli estremi di una condizione personale utile a ottenere indebiti benefici dall’Autorità giudiziaria.
Infondato, infine, è anche il motivo di ricorso di cui sopra sub 2.d. l’aggravante di cui all’art. 7 del D.L. 13 maggio 1991, n. 152, conv. in L. 12 luglio 1991, n. 203, è stata, infatti, correttamente ritenuta dalla Corte di merito in base al non illogico rilievo dello spessore del Na. nell’ambito del clan camorristico Be. e del diretto interessamento del clan per la sua scarcerazione attraverso l’ausilio del “canale psichiatrico”, in un contesto che vedeva i medici coinvolti ben consapevoli della realtà criminale della zona.

 

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Cosi deciso in Roma il 16 maggio 2012.

Redazione