Coordinare un gruppo di lavoro non è sufficiente per essere considerato un dirigente (Cass. n. 20600/2013)

Redazione 09/09/13
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Svolgimento del processo

Con sentenza n. 641/2009 del 23 febbraio 2010 la Corte di appello, giudice del lavoro, di Brescia, a parziale modifica della decisione del Tribunale di Crema, riteneva sussistente il diritto fatto valere da M.T..B. nei confronti della Impresa Costruzioni Bonetti S.p.A. solo limitatamente alle pretese relative alla spettanza del compenso per l’opera di amministratrice ed escludeva quelle afferenti al riconoscimento del diritto alla qualifica dirigenziale per le mansioni svolte dal 1 ottobre 1983 al 1 ottobre 1991 (data nella quale detto inquadramento le era stato formalmente riconosciuto) nonché l’accertamento della immutata natura di rapporto di lavoro subordinato di tipo dirigenziale anche per il periodo successivo al 31 luglio 1998 (data delle formali dimissioni) e fino al giugno del 2002. Riteneva la Corte territoriale che, nella specie, con riguardo al periodo fino 1 ottobre 1991, fosse mancata la prova dell’elevato grado di professionalità, autonomia e potere decisionale caratterizzanti la qualifica dirigenziale e che le decisioni assunte dalla B. insieme con i fratelli inerissero piuttosto al ruolo di amministratore delegato dalla stessa rivestito. Riteneva, altresì, che fosse del tutto mancata la prova della prosecuzione del rapporto di lavoro nel periodo tra il 31 luglio 1998 ed il 30 giugno 2002. Riconosceva, infine, in favore della B. , a titolo di compenso ai sensi dell’art. 2389 cod. civ., la somma di Euro 48.540,95, equitativamente determinata.
Per la cassazione di tale sentenza ricorre B.M.T. , affidandosi a tre motivi illustrati da memoria ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ..
Resiste con controricorso la Impresa Costruzioni Bonetti S.p.A..

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia: “Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa fatti controversi e decisivi per il giudizio – Il capo della sentenza relativo alla domanda di pagamento di differenze retributive per l’avvenuto svolgimento di fatto di mansioni di tipo dirigenziale tra l’ottobre 1983 e il settembre 1991 (art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ.)”. Si duole del fatto che la Corte territoriale, ai fini dell’esclusione del riconoscimento del rivendicato ruolo dirigenziale, avrebbe solo preso in considerazione l’attività di “stipulazione dei contratti” svolta dalla B. e ritenuto tale attività rientrante nelle attribuzioni di amministratore delegato della ricorrente. Si duole, altresì, della mancata differenziazione delle determinazioni assunte dalla B. quale amministratore delegato e di quelle invece riconducibili all’esercizio dell’elevato potere decisionale tipico del ruolo dirigenziale. Censura, infine, la sentenza impugnata per l’omessa rilevanza attribuita al fatto che le mansioni svolte dal 1983 al 1991 erano state le stesse attribuite alla ricorrente dall’ottobre del 1991, quando la qualifica dirigenziale le era stata riconosciuta.
2. Il motivo non è fondato.
La ricorrente sviluppa censure di merito che tendono ad una rivalutazione del “fatto”, non consentita in questa sede.
Sul punto deve ribadirsi l’indirizzo consolidato in base al quale la valutazione delle risultanze probatorie e la scelta, tra queste, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la decisione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, con la conseguenza che il controllo di legittimità da parte della Corte di cassazione non può riguardare il convincimento del giudice di merito sulla rilevanza probatoria degli elementi considerati, ma solo la sua congruenza dal punto di vista dei principi di diritto che regolano la prova, non essendo conferito alla S.C. il potere di riesaminare e valutare autonomamente il merito della causa, bensì solo quello di controllare, sotto il profilo logico e formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione compiuti dal giudice del merito, cui è, appunto, riservato l’apprezzamento dei fatti (cfr. ex plurimis Cass. n. 6288 del 18/03/2011, id. n. 27162 del 23/12/2009 e n. 17477 del 9/08/2007). Ond’è che risulta inidoneo allo scopo il far valere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito all’opinione che di essi abbia la parte e, in particolare, il prospettare un soggettivo preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi dell’iter formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ.. Diversamente, si risolverebbe il motivo di ricorso per cassazione in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni effettuate e, in base ad esse, delle conclusioni raggiunte dal giudice del merito; cui, per le medesime considerazioni, neppure può imputarsi di aver omesso l’esplicita confutazione delle tesi non accolte e/o la particolareggiata disamina degli elementi di giudizio ritenuti non significativi, giacché né l’una né l’altra gli sono richieste, mentre soddisfa l’esigenza di adeguata motivazione che il raggiunto convincimento risulti da un esame logico e coerente di quelle, tra le prospettazioni delle parti e le emergenze istruttorie, che siano state ritenute di per sé sole idonee e sufficienti a giustificarlo (in tali termini, cfr. Cass. 23 maggio 2007 n. 120520).
In aderenza alla suddetta regola di diritto, rileva questa Corte che non si evince dall’iter argomentativo della sentenza impugnata alcuna aporia logica o contraddizione.
La Corte territoriale, infatti, è pervenuta alla conclusione che le mansioni espletate dalla B. , come emerse dall’istruttoria svolta nel corso del giudizio di primo grado, non fossero caratterizzare da quell’elevato grado di professionalità, autonomia e potere decisionale previsto dall’art. 1 del c.c.n.l. dei dirigenti aziende industriali né fossero significative della esplicazione di funzioni al fine di promuovere, coordinare e gestire la realizzazione degli obiettivi dell’impresa.
Ciò ha fatto esaminando i compiti della B. presso l’ufficio amministrativo ove ella prestava la propria attività e considerando che esulasse dalle sue attribuzioni la responsabilità degli atti più importanti dell’ufficio (bilancio, dichiarazione Irpeg, dichiarazione annuale ***) rispetto ai quali la predetta si limitava ad adempimenti meramente preparatori ovvero all’invio di corrispondenza. Inoltre ha ritenuto che non potessero essere considerate, ai fini dell’accertamento delle superiori mansioni rivendicate, incombenze quali, ad esempio, la stipulazione dei contratti, riconducibili all’incarico di amministratore delegato rivestito dalla B. .
Con la suddetta argomentazione la Corte territoriale ha mostrato di aver chiaramente identificato i requisiti tipici della categoria dirigenziale reclamata nell’elevato grado di professionalità, nell’autonomia e nel potere decisionale ed in modo coerente ha escluso che, nella fattispecie, vi fosse il riscontro di un’attività di alto livello professionale tale che, attraverso l’adozione di scelte e decisioni indipendenti, imprimesse al settore (amministrativo e giuridico – fiscale) di competenza un indirizzo autonomo, nonché un’ampiezza delle funzioni, tali da influire sulla conduzione dell’intera azienda non circoscritte ad un ramo o ufficio della stessa. Si ricorda, al riguardo, che come da questa Corte ripetutamente precisato, la qualifica di dirigente spetta al prestatore di lavoro che, come alter ego dell’imprenditore, sia preposto alla direzione dell’intera organizzazione aziendale, o di una branca o settore autonomo di essa, e sia in concreto investito di attribuzioni che, per la loro ampiezza e per i poteri di iniziativa e di discrezionalità che comportano, gli consentano, sia pure nell’osservanza delle direttive programmatiche del datore di lavoro, di imprimere un indirizzo e un orientamento, con le corrispondenti responsabilità ad elevato livello, al governo complessivo dell’azienda e alla scelta dei mezzi produttivi di essa, così differenziandosi dall’impiegato con funzioni direttive, che è colui che è preposto a un singolo, subordinato ramo di servizio, ufficio o reparto, e svolge la sua attività sotto il controllo dell’imprenditore o di un dirigente, sicché la sua posizione gerarchica, i suoi poteri di iniziativa e le sue responsabilità sono corrispondentemente circoscritti e di più modesto e limitato rilievo sia all’interno dell’impresa e sia nei confronti dei terzi (cfr. in tal senso Cass. 9 settembre 2003, n. 13191; id. 30 agosto 2004, n. 17344; 19 settembre 2005, n. 18482; 22 dicembre 2006, n. 27464). Non è, dunque, di per sé il coordinamento di un gruppo di impiegati addetti ad un ufficio ad integrare una funzione dirigenziale né lo svolgimento di compiti, pur caratterizzati da autonomia, ma con poteri di iniziativa circoscritti ad un singolo servizio, ufficio o reparto e sotto il controllo dell’imprenditore, e con corrispondente limitazione di responsabilità. Del pari irrilevante è l’attribuzione formale della qualifica dirigenziale da una certa data in poi per dedurne, sul presupposto che le mansioni siano rimaste immutate, un diritto al medesimo inquadramento per il periodo pregresso. Nulla vieta, infatti, che il datore di lavoro riconosca al lavoratore l’inquadramento in una categoria o in una qualifica superiori, a titolo meramente convenzionale, ovvero per riconoscergli – ferma l’adibizione a mansioni diverse (ed inferiori rispetto al livello di inquadramento) – un più favorevole trattamento normativo ed economico. Tale attribuzione, infatti, non può ritenersi in contrasto con norme imperative o con l’ordine pubblico. Il principio fondamentale desumibile dall’art. 2103 cod. civ., secondo cui la qualifica deve corrispondere alle mansioni per le quali il lavoratore è stato assunto, infatti, essendo stabilito a tutela dei diritti del lavoratore, può essere derogato in suo favore, in quanto la deroga costituisce legittima espressione di autonomia negoziale se risponde ad un apprezzabile interesse delle parti e non ha finalità elusive di norme imperative (cfr. Cass. 12 settembre 2002, n. 13326 e, per la legittimità dell’attribuzione convenzionale, quale trattamento di favore, della qualifica di dirigente a soggetto svolgente mansioni inferiori, si veda Cass. 5 febbraio 1997, n. 1068 ed in senso conforme Cass. 22 febbraio 2006, n. 3859).
Inoltre la Corte territoriale ha tenuto bene presente che qualora il soggetto che rivendichi il riconoscimento di rapporto di lavoro subordinato di tipo dirigenziale risulti anche partecipe della gestione della società in ragione del rapporto di immedesimazione organica, è evidentemente necessario, al fine di distinguere i due ruoli, un quid pluris (leggasi: caratterizzazione delle mansioni, pur in un contesto di ampi poteri di iniziativa e di discrezionalità; assoggettamento, ancorché in forma attenuata, a direttive, ordini e controlli datoriali; coordinamento dell’attività lavorativa all’assetto organizzativo del datore di lavoro). Ed è tale quid pluris che la Corte ha escluso ritenendo, con motivazione congrua e logica, di imputare compiti asseritamente riconducibili alla figura del dirigente (dei quali solo in via esemplificativa ha indicato la stipulazione dei contratti) alla diversa funzione di componente del consiglio di amministrazione.
Trattasi di un accertamento di fatto in questa sede non censurabile.
3. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia: “Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa fatti controversi e decisivi per il giudizio – Il capo della sentenza relativo alla domanda di accertamento della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato dal 1 luglio 1998 al 30 giugno 2002 – (art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ.) nonché violazione e falsa applicazione dell’art. 2094 cod. civ. (art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.)”. Si duole del mancato riconoscimento della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra le parti nel periodo dal 1 luglio 1998 al 30 giugno 2002 e della classificazione dello stesso come “autonomo” sulla sola base della saltuarietà dell’attività svolta dalla B. pur in presenza di risultanze istruttorie deponenti nel senso contrario. Si duole altresì del valore confessorio attribuito dalla Corte territoriale al contenuto della lettera del 16 maggio 2001 a firma della B. .
4. Il motivo, per la parte in cui è denunciato un vizio motivazionale, è infondato per le stesse ragioni evidenziate al punto che precede.
Anche con riguardo a questo motivo va, infatti, rammentato che il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione, in realtà, non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe sostanzialmente in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità; ne consegue che risulta del tutto estranea all’ambito del vizio di motivazione ogni possibilità per la Corte di cassazione di procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso l’autonoma, propria valutazione delle risultanze degli atti di causa.
Per il resto va osservato che la Corte territoriale non è incorsa in alcuna violazione dell’art. 2094 cod. civ.. Se è vero, infatti, che il vincolo della subordinazione non ha tra i suoi tratti caratteristici indefettibili la permanenza nel tempo dell’obbligo del lavoratore di tenersi a disposizione del datore di lavoro con la conseguenza che la scarsità e saltuarietà delle prestazioni rese non integrano elementi idonei a qualificare come autonomo il rapporto di lavoro intercorso tra le parti (così Cass. 7 gennaio 2009, n. 58; id. 10 luglio 1999, n. 7304), tuttavia detta mancanza di continuità può, insieme con altri elementi, portare a tale configurazione. Nella specie la Corte territoriale, lungi dal porre a fondamento del decisum solo la rilevata saltuarietà, ha tratto ulteriore significativo argomento dal contenuto della lettera del 16 maggio 2001, a firma della B. , nella quale la stessa qualificata l’attività svolta dal settembre 1998 come di “collaborazione consulenziale”.
Per quanto attiene, poi, all’asserita rilevanza attribuita dalla Corte territoriale soltanto ad una parte del contenuto della lettera del 16 maggio 2001, la ricorrente oppone una sua ricostruzione del tenore della lettera e del riferimento ivi operato alla “collaborazione consulenziale”, senza peraltro denunciare specifiche incoerenze ermeneutiche o violazione dei canoni legali di interpretazione da parte del giudice del gravame.
5. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia: “Omessa o insufficiente motivazione circa il criterio adottato per la liquidazione in via equitativa del compenso riconosciuto per l’attività di amministratore prestata tra l’agosto 1998 e il giugno 2002 (art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ.)”. Si duole della quantificazione del compenso per l’attività di amministratore operata dalla Corte territoriale rilevando che quest’ultima ha scelto di utilizzare solo le dichiarazioni provenienti dalla parte convenuta pur in presenza di altri elementi di prova disponibili circa la qualità e quantità dell’opera prestata dalla B. .
6. Anche tale motivo è infondato.
L’art. 432 cod. proc. civ. che consente al giudice di procedere alla liquidazione equitativa, pur non derogando al principio dell’onere della prova sancito dall’art. 2967 cod. civ., trova applicazione allorché il diritto sia certo ma sia impossibile oppure oggettivamente difficile la determinazione della somma dovuta alla stregua degli elementi acquisiti al processo. Il giudice è tenuto a dare congrua ragione del processo logico attraverso il quale perviene sia alla liquidazione equitativa che alla determinazione del quantum debeatur, indicando i criteri assunti alla base della decisione.
Nella specie, non è denunciata alcuna specifica violazione di legge e, quanto alle censura afferenti il vizio motivazionale, va osservato che la Corte territoriale è pervenuta alla decisione impugnata attraverso un percorso argomentativo coerente, immuni da vizi ed adeguatamente motivato, idoneo a dare contezza di quelle che, tra le prospettazioni delle parti e le emergenze istruttorie, sono state ritenute sufficienti a giustificarlo, onde le censure della ricorrente sono prive di fondamento.
7. Sulla base delle esposte considerazioni, nelle quali tutte le altre eccezioni o obiezioni devono considerarsi assorbite, in conclusione, il ricorso va rigettato.
8. Per il criterio legale della soccombenza la ricorrente va condannata al pagamento, in favore della società controricorrente, delle spese processuali, liquidate come in dispositivo tenendo conto del nuovo sistema di liquidazione dei compensi agli avvocati di cui al D.M. 20 luglio 2012, n. 140 (che, all’art. 41 stabilisce che le disposizioni regolamentari introdotte si applicano alle liquidazioni successive all’entrata in vigore del Decreto stesso, avvenuta il 23 agosto 2012) ed avuto riguardo allo scaglione di riferimento della causa; considerati i parametri generali indicati nell’art. 4 del D.M. e delle tre fasi previste per il giudizio di cassazione (fase di studio, fase introduttiva e fase decisoria) nella allegata Tabella A.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento, in favore della società controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in Euro 50,00 per esborsi ed Euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre accessori di legge.

Redazione