Controversie sull’attuazione del pluralismo religioso: la competenza è del giudice amministrativo (Cass. n. 16305/2013)

Redazione 28/06/13
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Svolgimento del processo

1) Dal 1995 l’Unione degli Atei e degli ********************** (UAAR), associazione non riconosciuta costituita il 13 marzo 1991, che aggrega gli atei e gli agnostici italiani, ha ripetutamente chiesto al Governo italiano l’apertura delle trattative per la stipula di un’intesa, ai sensi dell’art. 8, terzo comma, della Costituzione.
Dopo l’annullamento per incompetenza di un primo atto di diniego espresso con provvedimento del Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, l’Associazione ha rinnovato l’istanza, respinta il 27 novembre 2003 dal Consiglio dei Ministri. Tale atto ha negato la natura confessionale dell’UAAR e dei convincimenti professati dall’ateismo organizzato, dovendo intendersi per confessione religiosa “un fatto di fede rivolto al divino e vissuto in comune tra più persone”.
Il Tar del Lazio con sentenza 31 dicembre 2008 ha dichiarato inammissibile il relativo ricorso. Ha accolto l’eccezione di difetto assoluto di giurisdizione sollevata dall’Amministrazione, che ha opposto la natura di atto politico del provvedimento impugnato, ritenuto insindacabile.
Il 18 novembre 2011 il Consiglio di stato ha accolto il gravame interposto dall’UAAR e ha annullato con rinvio la pronuncia di primo grado. Il Consiglio dei Ministri e il suo Presidente, rappresentati dall’avvocatura dello Stato, hanno proposto tempestivo ricorso per cassazione, sostenendo l’inammissibilità dell’originario ricorso.
UAAR ha resistito con controricorso.
In vista dell’udienza le parti hanno depositato memoria.

Motivi della decisione

2) Nei precedenti gradi di giudizio sono rimaste contumaci le confessioni religiose intimate, alle quali il ricorso è stato notificato. In relazione alla sopravvenuta definizione di nuove intese ex art. 8 Cost, non v’è materia per integrare il contraddittorio, non sussistendo ipotesi di litisconsorzio necessario.
Dalla materia del contendere, che attiene alla fase preliminare di futura intesa dello Stato con UAAR, non discende alcun interesse attuale delle confessioni religiose a interloquire in questo giudizio.
3) Il ricorso dell’avvocatura erariale denuncia il difetto assoluto di giurisdizione e lamenta violazione e/o falsa applicazione dell’art. 31 r.d. n. 1054/24 (ora art. 7, co. 1, ultimo periodo d.lgs. n. 104/2010), che reca: “Non sono impugnabili gli atti o provvedimenti emanati dal Governo nell’esercizio del potere politico”.
Il Governo insiste nel definire atto politico insindacabile il rifiuto di avviare le trattative per la conclusione dell’intesa.
Considerato indiscusso il requisito soggettivo dell’atto, in quanto proveniente dal Consiglio dei Ministri, il ricorso desume la sussistenza del requisito “oggettivo” dalla circostanza che l’art. 8 Cost. (“Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge. Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano. I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze”) è, al c. 3, norma sulla produzione giuridica.
Le intese sarebbero pertanto una “condizione di legittimità costituzionale”, finalizzata all’emanazione di una legge, e non “negozi” valutabili “sotto il profilo della conformità a preesistenti regole giuridiche”.
La confessione religiosa acattolica che miri ad un’intesa sarebbe portatrice di un’aspirazione di mero fatto, rifiutabile con atto estraneo alla funzione amministrativa, espressione della funzione di indirizzo politico riconosciuto al governo in materia religiosa.
3.1)Parte ricorrente afferma che, anche dopo la stipula di un’intesa, il Governo è libero di non darvi ulteriore corso in sede legislativa e ne inferisce la insussistenza di un obbligo di avviare le trattative.
Aggiunge che, a prescindere dalle intese, le confessioni religiose sono libere di organizzarsi, sicché la mancanza dell’intesa non compromette la garanzia di eguale libertà.
4) Il ricorso non merita accoglimento.
Il nucleo della controversia è costituito dalla qualificazione come atto politico del provvedimento che nega l’inizio della trattativa, a cagione della non qualificabilità dell’associazione istante come confessione religiosa. La nozione di atto politico, atto costituzionale di cui in passato la dottrina ha indagato approfonditamente gli aspetti teorici, viene attualmente interpretata in senso molto restrittivo.
4.1) La Corte costituzionale, riprendendo significativi spunti contenuti nella sentenza n. 103/93, ha avuto modo di recente di precisare che l’esistenza di aree sottratte al sindacato giurisdizionale, pur essendo innegabile, va confinata entro limiti rigorosi. Ha affermato che: “gli spazi della discrezionalità politica trovano i loro confini nei principi di natura giuridica posti dall’ordinamento, tanto a livello costituzionale quanto a livello legislativo; e quando il legislatore predetermina canoni di legalità, ad essi la politica deve attenersi, in ossequio ai fondamentali principi dello Stato di diritto. Nella misura in cui l’ambito di estensione del potere discrezionale, anche quello amplissimo che connota un’azione di governo, è circoscritto da vincoli posti da norme giuridiche che ne segnano i confini o ne indirizzano l’esercizio, il rispetto di tali vincoli costituisce un requisito di legittimità e di validità dell’atto, sindacabile nelle sedi appropriate (Corte Cost. 5 aprile 2012 n. 81)”.
Giunge in tal modo a compimento, e ci si limita ad un cenno (sul diritto alla tutela giurisdizionale come “supremo principio dell’ordinamento costituzionale” va ricordata la fondamentale C. Cost. n. 18/1982), una traiettoria di comprensione del combinato disposto degli artt. 24 e 113 Cost., norma secondo la quale la tutela giurisdizionale contro gli atti della pubblica amministrazione non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti.
4.2) È stato notato che il Consiglio di Stato (C.S. n.4502/11; 2718/11) ha distinto gli atti politici quale espressione della libertà (politica) riconosciuta dalla Costituzione ai supremi organi decisionali dello Stato per la soddisfazione di esigenze unitarie ed indivisibili ad esso inerenti e, quindi, liberi nella scelta dei fini, dagli atti di alta amministrazione che, seppure espressione di ampia discrezionalità, sono comunque soggetti, ex art. 113 cost., al sindacato giurisdizionale. Ha in tal modo marcato la residuante dell’atto (costituzionale) politico.
La Corte Costituzionale, pur consapevole della possibilità che talora la divergenza tra atti di diversi organi statuali possa trovare soluzione solo in sede di conflitto di attribuzione, ha però, come si è visto, in sostanza avallato la rilevanza del parametro giuridico come strumento di individuazione degli atti sindacabili giurisdizionalmente.
4.3) Anche la giurisprudenza delle Sezioni Unite (cfr SU n. 11263/06; 1170/00; 21581/11) ha confinato in margini esigui l’area della immunità giurisdizionale, da escludere allorquando l’atto sia vincolato ad un fine desumibile dal sistema normativo, anche se si tratti di atto emesso nell’esercizio di ampia discrezionalità.
In concreto è la materia delle relazioni internazionali quella in cui si esprime “una funzione politica”, attribuita ad un organo costituzionale, che per sua natura è “tale da non potersi configurare, in rapporto ad essa, una situazione di interesse protetto a che gli atti in cui si manifesta assumano o non assumano un determinato contenuto” (così SU 8157/02).
Se è vero che questo indirizzo è stato sorretto dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, (sez. grande chambre, 14/12/2006, n. 1398, fattispecie relativa alla guerra del Kosovo), va tuttavia evidenziato non solo che questa pronuncia è stata corredata da opinioni dissenzienti, ma anche che la – pur dubbia – politicità estrema della casistica in materia bellica funge da chiave di lettura in senso riduttivo degli ambiti sottratti alla giurisdizione.
4.3.1) Questa considerazione vale a mettere in maggiore evidenza che la materia religiosa, per il suo essere tradizionale terreno di azioni antiumanitarie, è tra quelle in cui più sensibile è la tensione opposta, che induce a consentire l’accesso alla tutela giurisdizionale in funzione antidiscriminatoria.
Da più sentenze, ha notato la relazione dell’ufficio del Massimario, con osservazione che merita di essere ripresa, si evince che “la Corte Europea dei diritti dell’uomo riconosce ad ogni confessione un interesse giuridicamente qualificato per l’accesso agli status promozionali, anche su base pattizia;
impone alle autorità nazionali di predisporre criteri di accesso non discriminatori e di adottare congrue motivazioni d’esercizio; ammette il sindacato giurisdizionale sulla ragionevolezza dei criteri predisposti e sull’idoneità delle motivazioni adottate, in funzione di tutela della posizione soggettiva incisa” (CEDU, 31 luglio 2008, n. 40825/98; 19 marzo 2009, n. 28648/03; 30 giugno 2011, n. 8916/05; 9 dicembre 2010, n. 7798/08; 6 novembre 2008, n. 58911/00).
5) In questo quadro, e soprattutto alla luce di queste ultime considerazioni, diviene più agevole l’esame dei profili di ricorso.
L’iniziativa dell’UAAR ha fatto venire all’attenzione della dottrina il tema dei rimedi giuridici contro il diniego di intesa con le confessioni religiose, questione che impone di sgomberare preliminarmente il campo da due suggestioni, utilizzate da parte ricorrente in memoria.
In primo luogo va detto che non è particolarmente significativo il disposto dell’art. 2 comma 3 lett. L) della legge n.400/88, laddove elenca tra gli atti sottoposti alla deliberazione del Consiglio dei Ministri gli atti concernenti i rapporti previsti dall’art. 8 della Costituzione.
La provenienza dell’atto impugnato dal Governo non implica che esso sia da iscrivere tra gli atti politici insindacabili, poiché si è già detto che occorre indispensabilmente indagare il requisito oggettivo dell’atto politico, cioè, specularmente, la (non) sussistenza in capo al richiedente l’intesa di un interesse protetto giustiziabile.
5.1) In secondo luogo va escluso che abbia portata decisiva un passaggio della. sentenza 346/2002 della Corte costituzionale, con la quale, sulla scia di Corte Cost. 195/93, fu dichiarata incostituzionale una normativa regionale nella parte in cui condizionava l’erogazione dei contributi a favore delle confessioni religiose al requisito dell’avere queste stipulato un’intesa con lo stato, ai sensi dell’art. 8, 3 comma, cost..
La Corte costituzionale in quella sede rilevò che nella stipulazione delle intese il governo “non è vincolato oggi a norme specifiche per quanto riguarda l’obbligo, su richiesta della confessione, di negoziare e di stipulare l’intesa”. Su questa constatazione non vi può essere dubbio, giacché manca, tuttora, la sede propria di queste norme, cioè una legge generale sul fenomeno religioso.
È opinione diffusa che se una legislazione siffatta esistesse, il sistema delle garanzie generali ne uscirebbe rafforzato, poiché essa riguarderebbe ogni manifestazione collettiva del sentimento religioso e farebbe affievolire il tentativo (o il pericolo) di conquista, tramite le intese, di discipline privilegiate.
Nondimeno, l’assenza di normazione specifica non è di per sé un impedimento a contrastare in sede giurisdizionale il rifiuto di intesa che sia fondato sul mancato riconoscimento, in capo al richiedente, della natura di confessione religiosa.
È stato autorevolmente osservato che risponde a un’illusione positivistico – legalistica pretendere in ogni caso l’intervento legislativo: vi sono infatti principi fondamentali che sono immanenti nell’ordinamento senza essere stati posti espressamente; esistono inoltre – e sono rilevanti in sede giurisdizionale – principi costituzionali che informano le singole discipline e danno sostanza a diritti e interessi.
6) Si intuisce per questa via la correttezza di fondo della soluzione prescelta dal Consiglio di Stato nella sentenza 6083/11.
Il principio di laicità dello Stato, “che è uno dei profili della forma di Stato delineata nella Carta costituzionale della repubblica” (Corte Cost. 203/1989) implica che in un regime di pluralismo confessionale e culturale sia assicurata l’eguale libertà delle confessioni religiose.
Al tempo stesso i rapporti tra Stato e confessione religiosa sono regolati secondo un principio pattizio, con la stipula delle intese.
Anche se l’assenza di una intesa con lo Stato non impedisce di professare liberamente il credo religioso, è in funzione dell’attuazione della eguale libertà religiosa che la Costituzione prevede che normalmente laicità e pluralismo siano realizzati e contemperati anche tramite il sistema delle intese stipulate con le rappresentanze delle confessioni religiose.
Il concetto è gravido di significati: come è stato insegnato da attenti studi, si devono garantire contemporaneamente, di regola tramite le intese: l’indipendenza delle confessioni nel loro ambito, nell’accezione più estesa; il loro diritto di essere ugualmente libere davanti alla legge; il diritto di diversificarsi l’una dall’altra; ma anche la garanzia per lo Stato – ecco il senso della regolamentazione dei rapporti – che l’esercizio dei diritti di libertà religiosa non entri in collisione, per quanto è possibile, con le sfere in cui si manifesta l’esercizio dei diritti civili e del principio solidaristico cui ogni cittadino è tenuto.
6.1) In questa ottica, stabilire la qualificazione di confessione religiosa è una premessa basilare per la salvaguardia dai valori di cui si discute.
La Corte costituzionale ha già detto (v. ancora Cost. 346/02) che all’assenza, nell’ordinamento, di criteri legali precisi che definiscano le “confessioni religiose” si può sopperire con i “diversi criteri, non vincolati alla semplice autoqualificazione (cfr. sentenza n. 467 del 1992), che nell’esperienza giuridica vengono utilizzati per distinguere le confessioni religiose da altre organizzazioni sociali”. E ancor prima (C. Cost. 195/93) aveva ritenuto che la natura di confessione può risultare “anche da precedenti riconoscimenti pubblici, dallo statuto che ne esprima chiaramente i caratteri, o comunque dalla comune considerazione”.
È nel giusto quindi la sentenza impugnata quando sostiene che rientra tutt’al più nell’ambito della discrezionalità tecnica l’accertamento preliminare relativo alla qualificazione dell’istante come confessione religiosa.
6.2) Posto ciò, è da credere che sia errato il ricorso laddove pretende che la caratteristica di legge rinforzata che è propria del procedimento di approvazione legislativa dell’intesa sia indice di potestà insindacabile.
È vero il contrario.
Il procedimento di cui all’art. 8 è in funzione, come ha sottolineato il – procuratore generale in udienza, della difesa delle confessioni religiose dalla lesione discriminatoria che si potrebbe consumare con una immotivata e incontrollata selezione degli interlocutori confessionali; è in funzione anche della migliore realizzazione di quell’equilibrio di valori che si è prima tentato di tratteggiare.
7) La posizione del richiedente l’intesa mira dunque a ottenere che il potere di avviare la trattativa sia esercitato in conformità alle regole che l’ordinamento impone in materia, che attengono in primo luogo all’uso di canoni obbiettivi e verificabili per la individuazione delle confessioni religiose legittimate.
Il fondamento dell’interesse fatto valere riposa direttamente sui precetti costituzionali che fondano i diritti di libertà religiosa.
L’attitudine di un culto a stipulare le intese con lo Stato non può quindi essere rimessa alla assoluta discrezionalità del potere dell’esecutivo, che è incompatibile con la garanzia di eguale libertà di cui all’art. 8 c. 1.
Né lo Stato può trincerarsi dietro la difficoltà di elaborazione della definizione di religione. Se dalla nozione convenzionale di religione discendono conseguenze giuridiche, è inevitabile e doveroso che gli organi deputati se ne facciano carico, restando altrimenti affidato al loro arbitrio il riconoscimento di diritti e facoltà connesse alla qualificazione.
8) Va ancora data risposta alla tesi che nega la giustiziabilità del diniego di avvio delle trattative in relazione al possibile mancato esito di esse, qualora il Governo, o per inconciliabilità di proposte, o per volontà politica, non concludesse la trattativa o rifiutasse di dare impulso legislativo alla intesa raggiunta.
Questa prospettiva non è decisiva per precludere la pretesa all’apertura della trattativa e all’implicito riconoscimento della qualità di confessione religiosa del soggetto istante, pretesa costituzionalmente presidiata.
Non è inutile ricordare che di fatto le intese si stanno atteggiando, nel tempo, in guisa di normative “per adesione”, innaturalmente uniformandosi a modelli standardizzati.
Al di là di questa circostanza, pure non priva di riflessi, va ribadita la distinzione: l’apertura della trattativa è dovuta in relazione alla possibile intesa, disciplinata, nel procedimento, secondo i canoni dell’attività amministrativa; la legge di approvazione segue le regole e le possibili vicende, ordinarie o conflittuali, proprie degli atti di normazione.
La Corte di Cassazione non deve e non vuole pronunciarsi sulla esistenza di un diritto alla chiusura della trattativa o all’esercizio dell’azione legislativa: esula dall’ambito decisionale che è qui configurato.
Per la decisione della causa è sufficiente stabilire che le variabili fattuali della seconda fase non incidono sulla natura della situazione giuridica che sta alla base della bilateralità pattizia voluta dal costituente. Negare la sindacabilità del diniego di apertura della trattativa per il fatto che questa è inserita nel procedimento legislativo significa privare il soggetto istante di tutela e aprire la strada, come ha indicato il CdS, a una discrezionalità foriera di discriminazioni.
Discende da quanto esposto il rigetto del ricorso.
Le spese di lite devono essere compensate, attesa la eccezionale novità del caso.

P.Q.M.

La Corte, a Sezioni Unite, rigetta il ricorso. Spese compensate.

Redazione