Contratto di locazione stipulato a non domino, validità, inefficacia, inadempimento del locatore (Cass. n. 25911/2013)

Redazione 19/11/13
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Svolgimento del processo

1. Nel 1989 il sig. L.D.V. convenne dinanzi al Tribunale di Verona il sig. R.S. , esponendo che:
(a) nel 1987 aveva stipulato col convenuto un contratto di locazione di un immobile sito a (…), che intendeva destinare a sede della propria attività professionale;
(b) al momento della stipula del contratto il sig. S.R. non era proprietario, né legittimo detentore dell’immobile locato;
(c) l’effettivo proprietario, sig.a C.M. , aveva chiesto ed ottenuto dal conduttore il rilascio dell’immobile.
Sulla base di queste circostanze di fatto il sig. D.V.L. chiese al Tribunale di Verona:
(-) di dichiarare risolto il contratto di locazione per inadempimento del locatore;
(-) di condannare quest’ultimo al risarcimento del danno consistito sia nei costi inutilmente sostenuti per arredare l’immobile ed avviare l’attività professionale poi forzosamente interrotta, sia nella perdita dei lucri che l’esercizio dell’impresa in quella particolare sede gli avrebbe garantito.
1.1. Il Tribunale di Verona nel 1996 accolse la domanda, dichiarò risolto il contratto e condannò il convenuto al risarcimento del danno, liquidato in L. 60.000.000, più gli interessi di mora.
1.2. La sentenza, appellata dal sig. R.S. , venne riformata dalla Corte d’appello di Venezia (sentenza n. 771 del 1999), la quale ritenne che il conduttore sig. L.D.V. , a fronte della richiesta di rilascio formulata dal vero proprietario dell’immobile, avrebbe ben potuto opporgli il proprio titolo ai sensi dell’art. 1606 c.c.: di conseguenza, il rilascio dell’immobile non poteva ritenersi un danno causato dall’inadempimento del locatore.
1.3. La sentenza della Corte d’appello di Venezia venne cassata con rinvio da questa Corte (Sez. 3, Sentenza n. 7189 del 12/05/2003), la quale ritenne erronea l’applicazione dell’art. 1606 c.c., e quindi inopponibile la locazione al vero proprietario dell’immobile, se il locatore, al momento della stipula del contratto, non era titolare del diritto di dare in locazione l’immobile, a nulla rilevando che egli ne avesse il possesso senza titolo.
1.4. La causa venne riassunta dal sig. D.V.L. dinanzi la Corte d’appello di Venezia. Al giudice del rinvio il sig. D.V. chiese:
(a) la riforma della sentenza di primo grado limitatamente ai criteri di computo del danno da mora;
(b) la conferma nel resto della sentenza pronunciata in primo grado dal Tribunale di Verona;
(c) la rifusione delle somme pagate e delle spese sostenute come conseguenza della sentenza d’appello poi cassata dalla Corte di cassazione, ai sensi dell’art. 389 c.p.c..
1.5. La Corte d’appello di Venezia, all’esito del giudizio di rinvio, con sentenza 1.3.2007 n. 252 ritenne che:
(a) al momento della stipula del contratto di locazione, il sig. R..S. non fosse titolare di alcun titolo giuridico per disporre dell’immobile;
(b) egli dunque, doveva ritenersi teoricamente responsabile dei danni patiti dal sig. L.D.V. ;
(c) di tali danni, tuttavia, il danneggiato non aveva provato la derivazione causale dall’inadempimento del locatore;
(d) il conduttore, infine, non aveva provato di avere effettivamente sostenuto le spese, affrontate in conseguenza della sentenza poi cassata, di cui aveva chiesto la rifusione.
Di conseguenza la Corte d’appello rigettò nuovamente tutte le domande del sig. L.D.V. .
1.6. La sentenza appena ricordata è stata impugnata per cassazione dal sig. L.D.V., sulla base di sette motivi.
Il sig. R..S. ha resistito con controricorso.

Motivi della decisione

2. Il primo motivo di ricorso.
2.1. Con il primo motivo di ricorso il sig. D.V.L. lamenta, ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c., la violazione di legge.
Espone che la sentenza d’appello, dopo avere appurato che al momento della stipula il locatore non aveva titolo per disporre dell’immobile, ha ritenuto inesistente il contratto. Di conseguenza, non ha applicato alla fattispecie le previsioni di cui agli artt. 1571, 1575, 1585, 1586 c.c., né l’art. 34 l. 29.7.1978 n. 392.
Il ricorrente non contesta la valutazione della Corte d’appello circa l’inesistenza del contratto (come si rileva dalla p. 10, II capoverso, del ricorso) ovvero circa la sua “invalidità” (come si rileva dalla p. 11, penultimo capoverso, del ricorso), ma assume che il giudice di merito, una volta accertata tale inesistenza/invalidità, avrebbe dovuto applicare alla fattispecie concreta, per analogia, la disciplina della locazione, ed in particolare la previsione di cui all’art. 34 I. 29.7.1978 n. 392, il quale accorda al conduttore nel caso di scioglimento del contratto una indennità per la perdita dell’avviamento.
2.2. Il primo motivo di ricorso è fondato, per quanto formulato in modo non del tutto corretto: tale menda tuttavia non lo rende inammissibile.
Il ricorrente, come accennato, col primo motivo di ricorso lamenta la violazione dell’art. 12 disp. prel. c.c..
Tale norma sarebbe stata violata perché il giudice di merito, dopo avere sancito l’invalidità del contratto di locazione stipulato dagli odierni litiganti, avrebbe dovuto stabilire le conseguenze dell’invalidità facendo applicazione analogica delle norme che disciplinano il contratto di locazione: ed avrebbe dovuto, in particolare, condannare il locatore al pagamento dell’indennità per la perdita dell’avviamento, ex art. 34 l. 29.7.1978 n. 392. L’indicazione dell’art. 12 disp. prel. c.c. quale norma violata dal giudice di merito è erronea. Infatti la disciplina di cui all’art. 34 l. cit. si sarebbe dovuta applicare in via diretta, e non per analogia, come si dirà tra breve.
Nondimeno, tale errore non rende inammissibile il ricorso.
Se è infatti vero che l’art. 366, comma primo, numero (4), cod. proc. civ., stabilisce che il ricorso deve contenere a pena di inammissibilità i motivi per i quali è chiesta la cassazione, con l’indicazione delle norme di diritto su cui si fondano, è altresì vero che tale disposizione va coordinata con quella per cui il giudice nel pronunciare sulla causa deve applicare le norme di diritto (art. 113, comma primo, cod. proc. civ.): da ciò le Sezioni Unite di questa Corte hanno tratto la conseguenza che il ricorso è ammissibile anche se indica in modo erroneo gli articoli di legge di cui si lamenta la violazione, a condizione che le ragioni esposte dal ricorrente consentano comunque l’identificazione del principio di diritto che si assume violato (Sez. U, Sentenza n. 9652 del 17/07/2001; nello stesso senso, Sez. L, Sentenza n. 16164 del 18/08/2004; Sez. 2, Sentenza n. 12127 del 02/07/2004; Sez. L, Sentenza n. 2404 del 03/03/2000; Sez. 1, Sentenza n. 4567 del 07/05/1999; Sez. L, Sentenza n. 9774 del 08/11/1996). Nel caso di specie il ricorrente, pur malamente invocando l’art. 12 disp. prel. c.c., ha comunque esposto in modo sufficientemente chiaro il vizio che ascrive alla sentenza impugnata: egli si duole, in sostanza, del fatto che la Corte d’appello di Venezia abbia ritenuto il locatore esente dall’obbligo di pagamento dell’indennità di cui all’art. 34 L. 392/78 (cfr. il ricorso, p. 12, secondo capoverso).
Essendo dunque intelligibile l’errore di diritto ascritto alla sentenza impugnata, tanto basta per ritenere ammissibile il motivo in esame.
2.3. Venendo dunque all’esame del merito del primo motivo di ricorso, va rilevato in fatto che il giudice del rinvio, chiamato a stabilire se fosse corretta o meno la sentenza di primo grado che affermò la responsabilità del locatore per inadempimento, condannandolo al risarcimento del danno, ha ritenuto che “la responsabilità [del locatore] non può essere regolata dalla normativa relativa al contratto di locazione, non sussistendo (…) un valido contratto di locazione alla base del rapporto tra le parti”.
Ed un valido contratto di locazione, secondo la Corte d’appello di Venezia, non sarebbe sussistito perché il locatore, al momento della stipula, non aveva alcun valido titolo giuridico per disporre dell’immobile oggetto del contratto.
2.4. Questa affermazione è erronea in iure. Essa, infatti, confonde il piano della validità del contratto con quello della sua efficacia.
2.4.1. Nel caso di specie la Corte d’appello era chiamata a stabilire quale dovesse essere la sorte di un contratto di locazione stipulato da un locatore che non era né proprietario dell’immobile locato, né titolare di altri diritti reali, né titolare di diritti personali di godimento su esso (c.d. locazione a non domino), e che di conseguenza non aveva potuto garantire al conduttore il pacifico godimento della cosa.
Per stabilire se un simile negozio sia invalido occorre muovere dal rilievo che il contratto valido è quello conforme alle prescrizioni dettate per esso dalla legge; il contratto efficace è invece quello idoneo a produrre effetti.
L’eterogeneità dei due concetti comporta la possibilità che un contratto sia valido, ma inefficace (ad es., il contratto sottoposto a condizione sospensiva), ovvero invalido, ma efficace (ad es., il contratto affetto da un vizio che ne comporti l’annullabilità).
Tra le principali cause di inefficacia del contratto la dottrina unanime annovera la mancanza di legittimazione in capo allo stipulante.
La legittimazione è tradizionalmente intesa come il potere di un soggetto di disporre dell’oggetto del contratto. La mancanza di essa non comporta l’invalidità del contratto, perché quest’ultimo non può ritenersi difforme dallo schema legale sol perché stipulato da persona non legittimata. La mancanza di legittimazione in capo allo stipulante comporta dunque soltanto l’inefficacia del contratto, cioè l’inidoneità a produrre gli effetti suoi propri.
I principi appena esposti sono del tutto pacifici in dottrina, da quasi un secolo: il primo contributo monografico dedicato ai negozi sul patrimonio altrui risale al 1936, ed i principi ivi esposti sono rimasti sostanzialmente condivisi sino ad oggi.
2.4.2. Alla luce di queste osservazioni è agevole stabilire se il contratto di locazione stipulato a non domino sia, nei rapporti tra locatore e conduttore, invalido od inefficace.
La locazione è definita dall’art. 1571 c.c. il contratto “col quale una parte si obbliga a far godere all’altra una cosa mobile o immobile per un dato tempo, verso un determinato corrispettivo”.
Il contratto di locazione non ha natura reale: da esso infatti non scaturisce quale effetto immediato, in capo al conduttore, l’acquisto di un diritto rei inhaerens. Da un lato, infatti, il diritto del conduttore non può essere fatto valere erga omnes; dall’altro esso necessita della collaborazione del locatore per essere soddisfatto (come si desume dal testo dell’art. 1575 c.c.). Ci troviamo, dunque, al cospetto di un tipico diritto di credito.
La locazione stipulata a non domino non è dunque un contratto invalido: esso infatti non confligge con alcuna prescrizione imperativa, né l’art. 1571 c.c. include, tra i requisiti di validità del contratto, la proprietà o la disponibilità dell’oggetto da parte del locatore.
L’indisponibilità (sia giuridica che di fatto) dell’immobile da parte del locatore costituisce dunque un tipico caso di difetto di legittimazione a stipulare, dal quale consegue non l’invalidità, ma l’inefficacia del contratto.
Va da sé che, ove il locatore di cosa altrui non sia in grado di garantire al conduttore il pacifico godimento della cosa, egli si rende inadempiente alle obbligazioni assunte con la stipula del contratto, ed in particolare a quelle di cui all’art. 1575 c.c..
2.4.3. Le conclusioni appena raggiunte sono corroborate da principi ripetutamente affermati da questa Corte.
Si è infatti più volte stabilita la validità del contratto di locazione stipulato da chiunque avesse la disponibilità (anche soltanto) di fatto di un bene (ex plurimis, Sez. 3, Sentenza n. 15443 del 14/07/2011; Sez. 3, Sentenza n. 9493 del 20/04/2007; Sez. 3, Sentenza n. 8411 del 11/04/2006; Sez. 3, Sentenza n. 4764 del 04/03/2005; Sez. 3, Sentenza n. 470 del 17/01/1997; Sez. L, Sentenza n. 640 del 11/02/1978; la sentenza capostipite in tal senso è rappresentata da Sez. 3, Sentenza n. 306 del 30/01/1968).
Unica eccezione a tale principio è rappresentata dall’ipotesi in cui la detenzione da parte del locatore sia stata acquisita vi aut clam, o comunque in violazione di norme di ordine pubblico (come nel caso dell’usurpatore): ma in tali casi l’invalidità del contratto deriverebbe dall’illiceità del suo oggetto, non certo dal difetto di legittimazione del locatore (ex multis, Sez. 2, Sentenza n. 4119 del 13/07/1984).
2.4.4. È bene precisare che l’orientamento appena ricordato è unanime e niente affatto contrastato, come potrebbe apparire da un esame dei precedenti di legittimità limitato alle massime, e non esteso alle motivazioni. È vero, infatti, che in diverse occasioni questa Corte ha pronunciato decisioni che, per come massimate, parrebbero escludere la legittimazione ad assumere la veste di locatore in capo a chi non vanti un legittimo titolo giuridico di disponibilità della cosa locata (la sentenza capostipite in tal senso è rappresentata da Sez. 3, Sentenza n. 4714 del 25/08/1982; in seguito, nello stesso senso, Sez. 2, Sentenza n. 9491 del 11/11/1994; Sez. 3, Sentenza n. 9793 del 02/10/1998; Sez. 3, Sentenza n. 23086 del 10/12/2004).
E tuttavia:
(a) da un lato, le decisioni appena ricordate hanno escluso la legittimazione alla stipula del non dominus, ma non hanno affatto affrontato il diverso problema della responsabilità per inadempimento del locatore non legittimato, problema che va risolto alla stregua dei principi esposti supra, p.2.4.2);
(b) dall’altro, le decisioni che hanno ritenuto privo di legittimazione il locatore sprovvisto di un valido titolo giuridico per disporre del bene riguardavano fattispecie aventi ad oggetto non gli effetti della risoluzione per inadempimento del contratto di locazione, ma il diverso problema dell’opponibilità della locazione stipulata a non domino al vero titolare del potere di disporre della cosa (come nel caso deciso da Sez. 3, Sentenza n. 23086 del 10/12/2004).
Questa distinzione è ben colta nella motivazione di Sez. 3, Sentenza n. 8411 del 11/04/2006, ove si afferma che il possesso da parte del locatore di un titolo giuridico per disporre del bene è necessaria “solo per negare la possibilità di opporre, al terzo proprietario, il contratto locativo stipulato dal detentore senza titolo, non anche per riconoscere l’inefficacia del contratto nel rapporto interno tra il locatore che abbia ceduto in locazione il bene senza titolo detenuto ed il conduttore che, in forza del contratto, abbia di fatto utilizzato l’immobile locato” (Cass. 8411/06, cit., p.2.2. dei “Motivi della decisione”).
L’affermazione non potrebbe essere più chiara nel senso che il difetto di potere dispositivo in capo al locatore non è di per sé sufficiente per ritenere il contratto stipulato a non domino non vincolante per le parti. Nel rapporto tra il locatore ed il conduttore, pertanto, il contratto stipulato dal detentore di fatto è valido e vincolante, salva l’ipotesi estrema già ricordata in cui la detenzione sia stata acquistata illecitamente.
2.5. Alla luce di quanto esposto sin qui deve concludersi che il contratto di locazione stipulato a non domino è sempre valido, ma inefficace se il locatore non abbia la disponibilità giuridica o di fatto della cosa locata. In tal caso, egli si rende inadempiente alle obbligazioni assunte ove non faccia acquisire al conduttore il godimento di quella. Applicando questi principi al caso di specie, ne discende che:
(a) il contratto di locazione oggetto del giudizio fu validamente stipulato;
(b) il locatore non adempì la propria obbligazione di garantire il pacifico godimento della cosa locata;
(c) ergo, le conseguenze dell’inadempimento del locatore dovevano essere disciplinate dalle norme generali (artt. 1453, 1455, 1458 c.c.) e speciali (art. 34 l. 29.7.1978 n. 392) dettate per l’ipotesi di inadempimento da parte del locatore di immobile destinato ad uso non abitativo alle proprie obbligazioni. La sentenza impugnata non è pertanto conforme a diritto, e va cassata, nella parte in cui ha ritenuto invalido il contratto stipulato tra le parti, e di conseguenza escluso le conseguenze legali della risoluzione per inadempimento di esso.
Spetterà ovviamente al giudice del rinvio accertare la sussistenza dei presupposti di fatto per l’applicabilità delle suddette previsioni.
3. Il secondo, terzo e quinto motivo di ricorso.
3.1. Il secondo, terzo e quinto motivo di ricorso possono essere esaminati congiuntamente.
Tutti e tre lamentano di un vizio di motivazione.
Col secondo motivo di ricorso, il sig. L.D.V. lamenta che la sentenza impugnata sarebbe sorretta da una motivazione “carente e contraddittoria” nella parte in cui ha escluso l’esistenza d’un valido nesso causale tra l’inadempimento del locatore ed i danni lamentati dal conduttore.
Allega, in particolare, che la Corte d’appello di Venezia avrebbe omesso di valutare il documento allegato sub 9 al fascicolo di primo grado, il quale ad avviso del ricorrente dimostrerebbe come al sig. L.D.V. , che intendeva svolgere nell’immobile locato l’attività di procacciatore d’affari, fosse stato revocato il mandato dalla società preponente proprio a causa dell’indisponibilità dell’immobile.
Col terzo motivo di ricorso il sig. L.D.V. lamenta che la sentenza impugnata sarebbe sorretta da una motivazione “insufficiente e contraddittoria” nella parte in cui ha ritenuto che il conduttore, una volta perduta la disponibilità dell’immobile oggetto del contratto, avrebbe comunque ben potuto svolgere altrove la propria attività. Anche a sostegno di questo motivo allega la mancata valutazione, da parte della Corte d’appello, della prova documentale appena ricordata.
Col quinto motivo di ricorso il sig. L.D.V. lamenta ancora che la sentenza impugnata sarebbe sorretta da una motivazione “insufficiente”, nella parte in cui ha omesso di valutare le prove documentali e testimoniali a suo avviso dimostrative dell’esistenza e dell’entità dei danni consistiti nelle spese inutilmente sostenute per l’avvio dell’attività commerciale, forzosamente interrotta a causa dell’inadempimento del locatore.
3.2. Tutti e tre i motivi sono fondati.
La Corte d’appello di Venezia ha ritenuto che dall’inadempimento del locatore non fossero derivati danni per il conduttore.
Ha motivato questa conclusione con due affermazioni.
La prima è che il Tribunale di Verona, nell’accogliere la domanda di risarcimento del danno, “non ha spiegato in alcun modo tale nesso causale [tra inadempimento e danno], che doveva essere (…) accertato” (cfr. la sentenza impugnata, pag. 11, capoverso 2).
La seconda affermazione sulla quale la Corte d’appello ha fondato la propria decisione è “non vi è alcuna traccia di motivazione (…) nella sentenza” di primo grado delle ragioni per le quali il conduttore, pur avendo perso la disponibilità dell’immobile locatogli dal sig. R..S. , non avrebbe potuto svolgere la propria attività in altro immobile limitrofo.
3.3. Tale motivazione è inidonea a sorreggere la pronuncia di rigetto della domanda di risarcimento del danno, per tre ragioni.
3.3.1. La prima ragione è che la Corte d’appello, una volta ritenuta insufficiente la motivazione adottata dal giudice di primo grado, avrebbe dovuto essa stessa provvedere ad integrarla o correggerla, e non già limitarsi a rilevare tale vizio per rigettare la domanda di risarcimento.
Infatti, per quanto il giudizio di appello abbia visto attenuarsi nel corso degli anni la sua caratteristica di novum judicium, esso costituisce pur sempre un giudizio di merito e non di legittimità. Pertanto il giudice d’appello, ove riscontri un deficit nella motivazione che sorregge la sentenza di primo grado, non può limitarsi ad accogliere per questa sola ragione il gravame contro di essa proposto, ma deve decidere la causa nel merito, provvedendo a redigere lui quella motivazione che il giudice di primo grado non seppe fornire (così Sez. 1, Sentenza n. 28838 del 05/12/2008; Sez. 3, Sentenza n. 6243 del 25/05/1992; cfr. altresì Sez. L, Sentenza n. 19026 del 11/09/2007, la quale ha escluso che la sentenza di primo grado possa essere appellata invocando solo il vizio di motivazione, e non anche ragioni di merito, così indirettamente confermando che il riesame richiesto al giudice d’appello non può mai limitarsi al mero riscontro della esistenza d’una sufficiente motivazione nella sentenza impugnata).
La motivazione adottata dalla Corte d’appello di Venezia è, pertanto, carente, in quanto si è limitata a rigettare la domanda di risarcimento del danno proposta dal conduttore sol perché il giudice di primo grado, accogliendola, non aveva motivato adeguatamente la propria decisione. Si consideri del resto che, se così non fosse, anche la parte che ha offerto prove valide e significative in primo grado, vedendosi accogliere la domanda, si vedrebbe soccombente in appello, se il giudice di primo grado non seppe motivare la propria decisione. In tal modo però si farebbe ricadere sulla parte incolpevole l’insipienza del giudice: e l’evidente reductio ad absurdum svela l’insostenibilità della premessa, ovvero che il giudice d’appello possa limitarsi a riformare la sentenza di primo grado solo perché non adeguatamente motivata, senza esaminare il merito del gravame.
3.3.2. Oltre che carente, la motivazione della sentenza impugnata è anche illogica.
La Corte d’appello, come accennato al p.3.2, ha rigettato la domanda di risarcimento del danno da inadempimento contrattuale osservando che nel giudizio di primo grado non era stata “chiarita la funzione strategica dell’immobile per l’attività lavorativa svolta dal conduttore”. In buona sostanza, la Corte d’appello ha quindi ritenuto che il danno da perdita della disponibilità dell’immobile promesso dal locatore non sia risarcibile, se il conduttore non provi di non averne potuto reperire un altro.
Tale statuizione capovolge il tradizionale rapporto logico tra fatto costitutivo della pretesa e fatto costitutivo dell’eccezione.
Nella aestimatio del danno, tanto contrattuale quanto aquiliano, al giudice di merito è affidato il compito di:
(a) in primo luogo, accertare se l’inadempimento o l’illecito abbiano effettivamente causato una perdita o impedito un lucro;
(b) in secondo luogo, accertare se alla produzione della perdita o all’impedimento del lucro abbia concorso la condotta della vittima (art. 1227, comma 1, c.c.);
(c) in terzo luogo, e soltanto ove debitamente eccepito dal danneggiante, accertare se la vittima con l’uso dell’ordinaria diligenza avrebbe potuto ridurre od eliminare il danno già verificatosi (art. 1227, comma 2, c.c.).
La liquidazione del danno avverrà quindi per sottrazione, riducendo il sottraendo (a) dei sottrattori (b) e (c).
Pertanto il giudice chiamato alla liquidazione del danno, ove ritenga che la vittima abbia concorso alla sua produzione od al suo aggravamento, dovrà preliminarmente quantificare il danno concreto ed oggettivo, prescindendo da qualsiasi considerazione sulla condotta della vittima; quindi, una volta accertato tale importo, provvedere alla sua diminuzione ove siano stati correttamente allegati e provati i fatti indicati dai due commi dell’art. 1227 c.c..
Si applichino ora tali precetti al caso di specie.
La circostanza che il conduttore evitto potesse, per limitare i danni causatigli dalla perdita dell’immobile, locarne un altro con le stesse caratteristiche, e non l’abbia fatto, costituisce sub specie iuris un aggravamento colposo del danno da parte della vittima, ai sensi dell’art. 1227, comma 2, c.c.: dunque un fatto modificativo della domanda di risarcimento del danno.
Pertanto il giudice di merito avrebbe dovuto dapprima accertare l’esistenza e l’ammontare del danno lamentato dall’attore, adeguatamente motivando sulla sua esistenza od inesistenza.
Solo nel caso in cui tale danno fosse stato ritenuto sussistente, il giudice di merito sarebbe potuto passare all’accertamento d’un eventuale concorso colposo della vittima nell’aggravamento di esso: ed in tal caso avrebbe dovuto indicare da quali fonti di prova abbia desunto l’esistenza della colpa della vittima; in cosa essa sia consistita; che rilievo economico abbia avuto, e finalmente in che misura assoluta o percentuale il danno causato dall’inadempimento sia stato ridotto dal concorso di colpa della vittima. Tale iter logico nel caso di specie è mancato: la Corte d’appello infatti, oltre ad addossare alla vittima la prova di non aver potuto evitare il danno, capovolgendo il relativo onere – vizio che, tuttavia, in questa sede non viene in rilievo, per non essere stato invocato dal ricorrente – ha ritenuto comunque che tale (presunto) concorso colposo della vittima fosse di per sé sufficiente ad elidere il diritto al risarcimento, senza minimamente indicare quale fosse l’ammontare del danno primario, né per quale ragione il supposto concorso colposo della vittima sia stato tale da assorbirlo per intero.
3.3.3. Infine, la motivazione con la quale la Corte d’appello di Venezia ha ritenuto indimostrata l’esistenza del danno lamentato dal sig. L.D.V. è carente, sotto due aspetti:
(a) sia nella parte in cui ha completamente trascurato di prendere in esame (vuoi per confutarli, vuoi per condividerli) gli elementi di prova documentale e testimoniale indicati e debitamente trascritti alle pp. 15 e 22 del ricorso. È infatti noto che l’omesso esame di specifici elementi probatori potenzialmente idonei a determinare una diversa decisione della causa da parte del giudice di merito costituisce un vizio di motivazione su un punto decisivo della domanda (ex permultis, Sez. L, Sentenza n. 11603 del 19/05/2009; Sez. L, Sentenza n. 6023 del 12/03/2009; Sez. 3, Sentenza n. 18506 del 25/08/2006; Sez. 1, Sentenza n. 4405 del 28/02/2006);
(b) sia nella parte in cui ha completamente omesso di dar conto del principio, ripetutamente affermato da questa Corte, secondo cui l’indennità per la perdita dell’avviamento commerciale, prevista dall’art. 34 legge 27 luglio 1978, n. 392, è dovuta al conduttore uscente a prescindere da qualsiasi accertamento circa la relativa perdita ed il danno che il conduttore stesso abbia subito in concreto in conseguenza del rilascio, con la conseguenza che “essa spetta anche se egli continui ad esercitare la medesima attività in altro locale dello stesso immobile o in diverso immobile situato nelle vicinanze” (Sez. 3, Sentenza n. 7992 del 02/04/2009; nello stesso senso, Sez. 3, Sentenza n. 11596 del 31/05/2005).
4. Il quarto motivo di ricorso.
4.1. Col quarto motivo di ricorso il sig. D.V.L. lamenta che la sentenza d’appello sia affetto dal vizio di violazione di legge (art. 360, n. 3, c.p.c.), nella parte in cui avrebbe subordinato l’affermazione della responsabilità del locatore, per violazione dell’obbligo di garantire al conduttore il pacifico godimento della cosa, al positivo accertamento che l’immobile avesse una “funzione strategica” per l’attività commerciale del conduttore, per cui, mancando quest’ultima, non potrebbe affermarsi quella responsabilità.
Il motivo è inammissibile perché non pertinente rispetto alla ratio decidendi della sentenza impugnata, con la conseguenza che non pertinente è altresì il quesito di diritto formulato ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c..
La sentenza impugnata infatti non ha affatto affermato che l’obbligo del locatore di garantire al conduttore il pacifico godimento della cosa sorga solo se l’immobile sia essenziale per l’attività commerciale ivi svolta dal conduttore. La sentenza d’appello ha effettivamente accertato l’esistenza d’una responsabilità del sig. R.S. (sia pur qualificandola extracontrattuale), ed ha attribuito rilievo alla possibilità per il conduttore di reperire altri immobili per escludere l’esistenza del danno, non della colpa del locatore.
5. Il sesto (indicato nel ricorso col n. 7) motivo di ricorso.
5.1. Con il sesto motivo di ricorso il sig. D.V.L. lamenta il difetto di motivazione della sentenza impugnata (art. 360, n. 5, c.p.c.), nella parte in cui ha rigettato la sua domanda di rifusione delle spese che aveva sostenuto in conseguenza della pronuncia della prima sentenza d’appello pronunciata in questo giudizio, poi cassata da questa Corte.
Espone che, dopo la sentenza di primo grado, aveva sostenuto tre gruppi di spese:
(a) le spese per il promovimento di un giudizio di esecuzione nei confronti della controparte, fondato sul titolo rappresentato dalla sentenza di primo grado, come si è detto riformata da quella d’appello successivamente a sua volta cassata;
(b) le spese di soccombenza cui era stato condannato all’esito del giudizio di opposizione a precetto promosso dal sig. S.R. , in seguito alla pubblicazione della prima sentenza d’appello;
(c) le spese di soccombenza cui era stato condannato all’esito del primo giudizio di appello.
Soggiunge che tali spese dovevano essergli rifuse dopo la cassazione della prima sentenza d’appello, e che aveva formulato la relativa domanda nel giudizio di rinvio, allegando i relativi documenti: la Corte d’appello di Venezia, tuttavia, aveva ritenuto non provati i relativi esborsi.
5.2. Prima dell’esame nel merito del sesto motivo di ricorso, è doveroso rilevare d’ufficio, e risolvere negativamente, il problema della sua inammissibilità in quanto deduttivo di un errore revocatorio, ai sensi dell’art. 395, n. 4, c.p.c..
È infatti orientamento ultraquarantennale di questa Corte quello secondo cui l’omesso esame di un documento che dia la prova del diritto azionato, ritenuta invece carente dal giudice del merito, non da luogo ad un travisamento del fatto impugnabile con istanza di revocazione, bensì ad un vizio della motivazione denunciabile ai sensi dell’art. 360, n. 5 c.p.c. (Sez. 2, Sentenza n. 9637 del 19/04/2013; Sez. 3, Sentenza n. 12362 del 24/05/2006; Sez. 3, Sentenza n. 4015 del 23/02/2006; Sez. U, Sentenza n. 15979 del 18/12/2001; Sez. L, Sentenza n. 8118 del 28/08/1997; Sez. L, Sentenza n. 7506 del 08/07/1995; Sez. 2, Sentenza n. 1803 del 18/02/1995; Sez. L, Sentenza n. 6148 del 02/06/1993; Sez. L, Sentenza n. 2394 del 26/02/1992; Sez. 1, Sentenza n. 5463 del 20/10/1982; Sez. 2, Sentenza n. 433 del 22/01/1982; Sez. 1, Sentenza n. 280 del 20/01/1977; Sez. 2, Sentenza n. 1902 del 05/07/1973; Sez. 3, Sentenza n. 1660 del 08/06/1973; Sez. 1, Sentenza n. 1308 del 12/05/1973; Sez. 1, Sentenza n. 1967 del 22/06/1971; Sez. 1, Sentenza n. 1273 del 23/04/1969; Sez. 2, Sentenza n. 1981 del 19/07/1963).
5.3. Nel merito, il motivo è fondato.
La Corte d’appello di Venezia ha rigettato la domanda di rifusione delle spese consequenziali alla prima sentenza d’appello, successivamente cassata, formulata dal sig. L.D.V. ai sensi dell’art. 389 c.p.c, sul presupposto che essa fosse sfornita di “idonea prova”. Tuttavia la Corte d’appello non ha indicato per quale motivo fosse “inidonea” sia la prova documentale allegata sub nn. 5-21 al fascicolo del giudizio di rinvio, debitamente indicati nel ricorso per cassazione, sia la prova testimoniale anch’essa richiesta con l’atto di riassunzione introduttivo del giudizio di rinvio.
6. Il settimo (indicato nel ricorso col n. 8) motivo di ricorso.
6.1. Con il settimo motivo di ricorso il sig. D.V.L. lamenta la violazione di legge da parte della sentenza impugnata (art. 360, n. 3, c.p.c.), nella parte in cui ha rigettato la sua domanda di rifusione delle spese che aveva sostenuto in conseguenza della pronuncia della prima sentenza d’appello pronunciata in questo giudizio, poi cassata da questa Corte.
Espone che la Corte d’appello avrebbe violato gli artt. 115 e 116 c.p.c. in due modi: sia ritenendo non provate spese che invece erano documentalmente dimostrate; sia rigettando la richiesta di prova per testi che la parte aveva comunque formulato per dimostrare la sussistenza degli esborsi.
6.2. Il motivo resta assorbito dall’accoglimento del sesto motivo di ricorso.
7. La cassazione della sentenza impugnata.
7.1. In conclusione, la sentenza della Corte d’appello di Venezia deve essere cassata, e la causa rinviata ad altro giudice di merito affinché provveda:
(a) sul presupposto che tra le parti sia stato concluso un valido contratto di locazione, al quale il locatore si è reso inadempiente, ad accertare in facto, dandone adeguata motivazione, se e quali conseguenze dannose per il conduttore siano derivate da tale inadempimento, alla luce degli artt. 1218, 1453 c.c. e 34 l. 392/78;
(b) esaminare le prove offerte o richieste dall’originario attore a fondamento della domanda di rifusione delle spese sostenute in conseguenza della cassazione della prima sentenza d’appello, stabilendo in facto, con adeguata motivazione, se esse siano rilevanti e sufficienti per l’accoglimento di essa.
2 Indicato nel ricorso col n. 8.
7.2. I molteplici e reiterati errori in cui è incorsa nel presente giudizio la Corte d’appello di Venezia consigliano di indicare, quale giudice di rinvio, la Corte d’appello di Brescia.
8. Le spese.
Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza, e vanno poste a carico del controricorrente, ai sensi dell’art. 385, comma 3, primo periodo, c.p.c..

P.Q.M.

la Corte di cassazione, visto l’art. 383, comma primo, c.p.c.:
-) accoglie il ricorso;
-) cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d’appello di Brescia;
-) condanna il sig. R..S. alla rifusione nei confronti del sig. L.D.V. delle spese del presente grado di giudizio, che si liquidano in Euro 4.500 (quattromilacinquecento), di cui 200 per spese.

Redazione