Azione risarcitoria in materia di appalti pubblici

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Uno degli elementi costitutivi della fattispecie risarcitoria ex art. 2043 c.c. (norma alla quale deve essere ricondotta, secondo la dominante giurisprudenza, l’azione risarcitoria promossa nei confronti della P.A. quale conseguenza dell’illegittimo svolgimento della sua attività amministrativa), è rappresentato dalla titolarità, in capo al reclamante il risarcimento, di una situazione di vantaggio, atta ad assicurare giuridica protezione e rilevanza all’interesse del medesimo al conseguimento (o alla conservazione) di un determinato bene della vita: situazione di vantaggio alla quale sia impedito di trovare piena esplicazione, mediante il definitivo soddisfacimento dell’interesse che ne costituisce il sostrato sostanziale, dalla condotta illecita della P.A., avente il suo nucleo costitutivo nell’adozione di un provvedimento illegittimo.

La lesione della situazione di vantaggio, che conferisce concretezza al requisito oggettivo della fattispecie aquiliana rappresentato dalla “ingiustizia” del danno lamentato, è suscettibile di apprezzamento, nella sede giurisdizionale, in termini di certezza o seria probabilità, a seconda che, sulla base delle allegazioni delle parti e del materiale istruttorio acquisito in giudizio, anche in relazione alla tipologia di situazione soggettiva dedotta ad oggetto della domanda risarcitoria ed alla natura (discrezionale o vincolata) del potere spettante alla P.A., possa dirsi che l’azione illegittima di quest’ultima ha inciso negativamente sulla spettanza all’interessato del bene della vita di cui si discute o sulla mera chance di conseguirlo (o conservarlo).

L’indagine del giudice in ordine al profilo della concretezza della fattispecie risarcitoria, oltre ad essere imprescindibile, in quanto  alla compiuta ricostruzione dell’illecito aquiliano, non è impedito dal fatto che né l’Amministrazione in sede di autotutela, né il giudice amministrativo in sede di esame dell’eventuale ricorso incidentale che avrebbe potuto essere proposto dall’ATI originariamente aggiudicataria, ha portato il suo esame sugli ipotetici vizi inficianti il progetto presentato dalla società appellata.

Quanto al primo aspetto trattandosi di verificare, ai fini della compiuta formulazione del giudizio di “spettanza”, se l’impresa agente con azione risarcitoria avesse effettivamente titolo all’aggiudicazione, il sindacato del giudice amministrativo non si sovrappone ad alcuna determinazione assunta sul punto dall’Amministrazione (bisognevole in quanto tale di essere preliminarmente rimossa dalla medesima in via di autotutela), ma ha la funzione di ricostruire, quoad iudicium, il tratto di azione amministrativa non realizzatosi sul versante sostanziale (per effetto del superamento, determinato dalla progressione procedimentale verificatasi nelle more del giudizio cassatorio del giudice amministrativo e culminata con l’esecuzione dei lavori così come progettati dal raggruppamento originariamente aggiudicatario, dell’esigenza rinnovatoria astrattamente scaturente da una precedente sentenza di appello).

Ai sensi dell’art. 30, comma 3, secondo periodo, c.p.a., “nel determinare il risarcimento il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti”. Tuttavia, l’omessa coltivazione ad opera della ricorrente della domanda cautelare non costituisce un elemento a disfavore della pronuncia risarcitoria.

La norma suindicata presuppone, a tal fine, il compimento da parte del giudice di un giudizio di cd. prognosi postuma, inteso a verificare quali, dei danni lamentati, non si sarebbero realizzati qualora il soggetto leso avesse adoperato la normale diligenza nell’attivazione degli strumenti di tutela previsti dall’ordinamento: strumenti, quindi, di cui occorre accertare ex post la praticabilità ed il prevedibile esito.

Deve osservarsi, in via preliminare, che la norma è chiara nell’attribuire al giudice il potere di “escludere il risarcimento dei danni” evitabili, sì che è difficilmente conciliabile con il disposto normativo un criterio decisorio non operante in chiave escludente, ma riduttivo del quantum del risarcimento, sulla scorta di una percentuale calibrata sulla possibilità di successo del rimedio non utilizzato.

La norma, così impostata, rispecchia l’omologa disposizione vigente iure privatorum (art. 1227, comma 2, c.c.), a mente della quale “il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza”, la quale a sua volta si differenzia, sotto il profilo esaminato, dal comma 1 che, nel disporre che “se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l’entità delle conseguenze che ne sono derivate”, ammette la graduazione percentualistica della responsabilità, in funzione del parametro indicato.

Ciò premesso, deve in primo luogo escludersi che alla rinuncia alla decisione cautelare in occasione della relativa camera di consiglio, possa attribuirsi una (qualunque) valenza causale in ordine alla produzione del danno lamentato.

Il T.A.R., per giungere all’opposta conclusione (e quindi ridurre del 10% il risarcimento del danno), salvo poi essere censurato dal Consiglio di Stato, aveva attribuito decisivo rilievo a considerazioni attinenti al fumus boni iuris, rilevando da un lato che “la presentazione della richiesta cautelare nel giudizio di primo grado presumibilmente non sarebbe stata accolta, visto l’esito di tale giudizio, conclusosi con sentenza di reiezione”, dall’altro lato che “la presentazione della domanda di sospensiva innanzi al Consiglio di Stato (o l’impugnazione della possibile pronuncia cautelare avversa del TAR) avrebbe avuto probabilmente esito favorevole alla ricorrente, alla luce delle puntuali argomentazioni espresse nella sentenza finale del giudice d’appello, senza però che di ciò possa esservi una ragionevole certezza…”.

In primo luogo, era (ed in parte è tuttora) consolidato l’orientamento pretorio, in una fase storico-evolutiva della tutela cautelare in cui questa non si era del tutto emancipata dalla tipicità meramente sospensiva delle misure adottabili, in base al quale l’avvenuta esecuzione del provvedimento lesivo non lasciava spazio alla tutela interinale, non configurandosi in concreto, appunto, il requisito del periculum in mora: ciò in quanto la reversibilità degli effetti materiali del provvedimento, ormai portato ad integrale esecuzione, si sarebbe potuta ottenere solo in sede di decisione di merito del ricorso, in virtù dell’efficacia ripristinatoria della sentenza di accoglimento.

Tale lettura era del resto conforme alla formulazione, allora vigente, della norma in tema di tutela cautelare (art. 21, comma 7, l. n. 1034/1971), secondo la quale “se il ricorrente, allegando danni gravi e irreparabili derivanti dall’esecuzione dell’atto, ne chiede la sospensione, sull’istanza il tribunale amministrativo regionale pronuncia con ordinanza motivata emessa in camera di consiglio”: essa infatti aveva riguardo ai danni “derivanti dall’esecuzione dell’atto”, prevenibili mediante la sospensione dei relativi effetti, risultando quindi inidonea ad apprestare alcuna forma di tutela nei riguardi dei danni già verificatisi per effetto della intervenuta esecuzione del provvedimento lesivo.

Applicando le suindicate coordinate interpretative alla fattispecie oggetto di giudizio, la fattispecie di affidamento de quasi caratterizza per l’esecuzione anticipata della prestazione progettuale, acquisita dalla P.A. mediante il provvedimento di aggiudicazione, cui si correla la nascita, in capo alla medesima Amministrazione, dell’obbligo di corrispondere il prezzo indicato nell’offerta economica, il cui assolvimento esaurisce anche l’esecutività del medesimo provvedimento.

Dal momento che l’interesse principale che la società ricorrente avrebbe potuto perseguire, anche sul piano cautelare, era di carattere economico e connesso al conseguimento del corrispettivo previsto a fronte della (già eseguita) prestazione progettuale, è evidente che l’avvenuto adempimento dell’obbligo di pagamento nascente dal provvedimento di aggiudicazione precludeva, secondo i suindicati canoni giurisprudenziali, la somministrazione della tutela cautelare: trovando ragionevole e plausibile giustificazione, da questo punto di vista, la rinuncia alla relativa istanza dichiarata in camera di consiglio dalla società ***.

Da questo punto di vista, la sentenza appellata ha meritato riforma laddove sottolinea che “un’eventuale sospensione degli effetti dell’aggiudicazione avrebbe comportato l’inefficacia del titolo della avvenuta erogazione del compenso allo *** e la conseguente legittimazione della stazione appaltante alla ripetizione dell’indebito”: essa infatti non considera che la necessaria mediazione di attività ulteriori e complesse, come quelle intese alla restituzione del corrispettivo già percepito dallo ***, sarebbero state incompatibili con l’immediatezza che deve caratterizzare la realizzazione dell’interesse riconosciuto meritevole di tutela sul piano cautelare.

Sentenza collegata

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Avv. Biamonte Alessandro

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