Gli effetti ultra partes della sentenza di annullamento di una norma regolamentare in materia di dottorato di ricerca

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Con questa recente sentenza pubblicata il 14 febbraio 2022 il Consiglio di Stato, nel definire un contenzioso relativo ad una ipotesi di contemporanea iscrizione all’Università, conferma un interessante e consolidato principio in tema di annullamento giudiziale di un atto generale a contenuto normativo.

Indice:

Il caso

Con ricorso in primo grado al Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio veniva contestata la mancata ammissione della ricorrente alla frequenza congiunta, presso il medesimo Ateneo, di un corso di dottorato di ricerca e di una scuola di specializzazione medica.

Il diniego opposto dall’Università si giustificava, secondo l’Amministrazione resistente, con l’applicazione del disposto contenuto nell’art. 7 del D.M. n. 45/2013 (a sua volta recepito dal regolamento di Ateneo in materia di dottorato di ricerca), a norma del quale la contemporanea frequenza di tali corsi è possibile soltanto nell’ipotesi in cui il candidato ammesso al dottorato sia iscritto all’ultimo anno di corso della scuola di specializzazione, ipotesi che non si configurava nel caso di specie.

Contro tale diniego parte attrice – invocando l’intervenuto annullamento della norma sopra ricordata per effetto della sentenza n. 3923/2014 del T.A.R. Lazio, Sezione Terza Bis, passata in giudicato – ricorreva dunque al giudice di primo grado che a sua volta, con la sentenza n. 14372 del 22 dicembre 2015, accoglieva il ricorso nel merito riconoscendo la legittimità della pretesa attorea così come formulata.

Avverso la sentenza propongono appello al Consiglio di Stato il Ministero dell’Università e l’Ateneo soccombente, asserendo l’erroneità della decisione del T.A.R. in quanto il richiamato annullamento dell’art. 7 del D.M. n. 45/2013 disposto con la sentenza n. 3923/2014 esplicherebbe i suoi effetti soltanto tra le parti in causa.

La decisione del Consiglio di Stato

Il motivo di gravame proposto dal Ministero e dall’Ateneo non è condiviso dal Consiglio di Stato, che – facendo riferimento anche a proprie precedenti decisioni, nonché a principi desumibili dalla sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 11 del 2017 – rigetta l’appello.

Il Collegio motiva la propria decisione innanzitutto richiamando i rapporti tra legge e decreto ministeriale e rilevando come, ai fini della pronuncia sul caso in questione, sia determinante circoscrivere l’oggetto e i limiti della delega all’atto di natura regolamentare contenuti nella legge stessa.

In primo luogo i giudici rilevano che la possibilità della frequenza congiunta dei due corsi universitari in esame è prevista dall’art. 19, comma 1, lettera c) della legge n. 240 del 2010[1]: tale disposizione, infatti, ha aggiunto il comma 6 bis all’art. 4 della legge n. 210 del 1998[2], disponendo testualmente che «è consentita la frequenza congiunta del corso di specializzazione medica e del corso di dottorato di ricerca. In caso di frequenza congiunta, la durata del corso di dottorato è ridotta ad un minimo di due anni».

Il successivo comma 2 del medesimo articolo rinvia ad un decreto ministeriale, «di natura regolamentare», il compito di definire le modalità di accreditamento delle sedi e dei corsi di dottorato, nonché “i criteri e i parametri sulla base dei quali i soggetti accreditati disciplinano, con proprio regolamento, l’istituzione dei corsi di dottorato, le modalità di accesso e di conseguimento del titolo, gli obiettivi formativi e il relativo programma di studi, la durata il contributo per l’accesso e la frequenza, il numero, le modalità di conferimento e l’importo delle borse di studio (…)”.

Tale regolamento[3] è stato quindi emanato con il Decreto Ministeriale n. 45 dell’8 febbraio 2013 – adottato ai sensi dell’art. 17, comma 3 della legge n. 400/1988 – che all’art. 7, rubricato “Raccordo tra i corsi di dottorato e le scuole di specializzazione mediche”, indica le condizioni al cui verificarsi sia possibile la frequenza contemporanea di un corso di dottorato e di un corso di specializzazione medica: i due corsi devono avere sede presso la stessa Università, lo specializzando deve essere iscritto all’ultimo anno della scuola di specializzazione e deve aver ottenuto specifico nulla osta rilasciato dal consiglio della scuola medesima, nel corso dell’anno di frequenza congiunta lo specializzando non può percepire la borsa di studio di dottorato.

Sulla legittimità della seconda di tali condizioni (possibilità di disporre la frequenza congiunta soltanto durante l’ultimo anno della scuola di specializzazione) si è espresso il T.A.R. Lazio che con la sentenza n. 3923 del 10 aprile 2014 l’ha annullata, rilevando sostanzialmente come il D.M. n. 45/2013, nel fissare questa limitazione, sia andato ben al di là della delega contenuta nella legge n. 240 del 2010.

I giudici, infatti, hanno osservato in tale sentenza che «se al regolamento (…) era senz’altro attribuito il potere di dettare criteri relativi alle modalità di accesso al dottorato di ricerca, non era invece consentito di introdurre (peraltro con tratto di innovatività rispetto alla disciplina fino a quel momento vigente) veri e propri requisiti di accesso alla frequenza congiunta, laddove le prime attengono ad un profilo organizzativo delle posizioni soggettive scolpite dalla norma primaria, nel mentre i secondi introducono veri e propri impedimenti all’esercizio delle stesse. Tanto più che (…) la frequenza congiunta del corso di specializzazione medica e del dottorato di ricerca era esplicitamente consentita dalla medesima legge senza alcuna condizione».

Pertanto, introducendo «inammissibilmente» un vero e proprio nuovo requisito di accesso ai corsi di dottorato di ricerca, il D.M. n. 45/2013 – secondo i giudici del T.A.R. Lazio – ha violato l’art. 4 della legge n. 210/1998 che consente, invece, la contemporanea frequenza senza alcuna condizione.

Prendendo le mosse dall’annullamento disposto con tale sentenza, nella pronuncia in esame il Consiglio di Stato si sofferma sugli effetti ultra partes da esso discendenti.

Secondo il Collegio, infatti, il sopravvenuto annullamento giurisdizionale di un atto generale – qual è il provvedimento ministeriale contenente il regolamento – non si limita a “fare stato” soltanto tra le parti del contenzioso deciso con la sentenza, ma svolge effetti erga omnes, in quanto trattasi di un «atto a contenuto generale sostanzialmente e strutturalmente unitario, il quale non può sussistere per taluni e non esistere per altri».

Quindi, non potendosi individuare a priori i singoli destinatari della disposizione contenuta nell’art. 7 del D.M. n. 45/2013 ed annullata dal giudice, il giudicato amministrativo in una simile ipotesi non conosce (eccezionalmente) limitazioni soggettive, con la conseguenza che il Consiglio di Stato non può fare altro che rigettare l’appello, confermando integralmente la sentenza di primo grado.

In conclusione, è opportuno rilevare che proprio di recente il Ministero ha integralmente sostituito il regolamento contenuto nel D.M. n. 45/2013 con il regolamento emanato con il D.M. n. 226 del 14 dicembre 2021, che non comprende più la condizione/limitazione contestata.

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[1] La legge 30 dicembre2010, n. 240 (cosiddetta “riforma Gelmini”) ha introdotto “Norme in materia di organizzazione delle università, di personale accademico e reclutamento, nonché delega al Governo per incentivare la qualità e l’efficienza del sistema universitario”. L’art. 19 della legge contiene appunto disposizioni in materia di dottorato di ricerca.

[2] La legge 3 luglio 1998, n. 210 reca “Norme per il reclutamento dei ricercatori e dei professori universitari di ruolo” e dedica un articolo specifico (il numero 4) alla disciplina proprio del Dottorato di Ricerca.

[3]Regolamento recante modalità di accreditamento delle sedi e dei corsi di dottorato e criteri per la istituzione dei corsi di dottorato da parte degli enti accreditati” le cui disposizioni hanno cessato di avere efficacia alla data di entrata in vigore del D.M. n. 226/2021.

Sentenza collegata

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Maria Cristina Cefaratti

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