Consiglio di Stato sez. VI 7/5/2010 n. 2665

Redazione 07/05/10
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Svolgimento del processo

Con due distinti ricorsi (n.8344 e n.8345 del 1998) l’agente della polizia di Stato G.F. adiva il T.a.r. del Lazio per chiedere l’annullamento dei provvedimenti con cui il Capo della polizia – Direttore generale della P.S. del Ministero dell’interno – aveva inflitto nei suoi confronti due sanzioni di destituzione dal servizio in relazione a due distinte infrazioni disciplinari.
A sostegno del primo gravame (che riguardava la sanzione per mancata riassunzione del servizio, senza giustificato motivo), il ricorrente deduceva, con due motivi, censure di violazione e falsa applicazione degli artt. 6,7 e 12 del D.P.R. n.737/1981, in relazione agli artt. 3, 24 e 30, e di eccesso di potere sotto vari profili nonché di violazione dell’art.9 della legge 7.2.1990 n.19.
Rilevava, in particolare, l’interessato che il Capo dell’ufficio, nel segnalare la presunta infrazione che lo riguardava, aveva proposto il tipo di sanzione da irrogare in modo illegittimo ed, inoltre, che l’Amministrazione non aveva compiuto un’attente valutazione del tipo di sanzione da infliggere, a fronte di un comportamento che poteva essere sanzionato anche con la sospensione dal servizio. Osservava, peraltro, l’istante che il provvedimento impugnato sarebbe stato viziato da eccesso di potere per difetto di motivazione e di istruttoria.
Nel secondo ricorso, riguardante l’altro provvedimento di destituzione – con cui era stato sanzionato l’uso, a scopo non terapeutico, di sostanze stupefacenti, il ricorrente deduceva, nella sostanza, gli stessi rilevi mossi nel precedente gravame.
Nel giudizio si costituiva l’Amministrazione intimata che concludeva per la reiezioni dei gravami in quanto infondati.
Con la sentenza in epigrafe specificata, l’adito T.a.r. respingeva, previa loro riunione, entrambi i ricorsi, compensando, tra le parti, le spese di giudizio.
Avverso tale sentenza è stato interposto l’odierno appello, affidato a motivi in gran parte analoghi a quelli dedotti nel giudizio di primo grado.
Queste, comunque, le censure specificamente formulate nell’appello in esame:
a) error in judicando – violazione e falsa applicazione artt. 6 – 7 – 12 e 19 D.P.R. 737/1981 – contraddittorietà;
b) error in judicando – violazione e falsa applicazione artt. 6 – 7 – 12 e 19 D.P.R. n.737/1981 – contraddittorietà – omessa a valutazione di un punto decisivo della controversia;
c).error in judicando – violazione e falsa applicazione artt. 6 – 7- 12 e 19 D.P.R. n.737/1981 – contraddittorietà.
Ricostituitosi il contraddittorio nell’attuale fase processuale, l’Amministrazione dell’interno ha depositato documenti e una memoria nella quale ha ribadito le deduzioni già svolte nel giudizio di primo grado, concludendo per la reiezione dell’appello.
Con memoria deposita in prossimità dell’udienza, l’appellante ha ulteriormente illustrato le proprie tesi e conclusioni, insistendo per l’accoglimento del ricorso.
La causa, infine, è stata ritenuta per la decisione nella pubblica udienza del 29 gennaio 2010.

Motivi della decisione

1. Il ricorso in appello non è meritevole di accoglimento.
2. Con i primi due motivi, che possono essere congiuntamente esaminati, l’appellante, in sintesi, sostiene, da una parte, che spetta unicamente al Questore il compito di valutare se la mancanza accertata sia in astratto punibile con una sanzione "maggiore della deplorazione", e non, come erroneamente ritenuto dai primi giudici, al superiore gerarchico, il quale, proprio al fine di garantire un’istruttoria imparziale e incondizionata, è tenuto, a norma dell’art.12 del D.P.R. n.737/1981, esclusivamente ad indicare, chiaramente e concisamente, tutti gli elementi utili a configurare l’infrazione; dall’altra, sostiene anche che, sulla base dell’art.12 cit. – secondo cui il rapporto non deve contenere alcuna proposta relativa alla specie e all’entità della medesima – era evidente che, in sede di rilevazione dell’infrazione, anche la mera esclusione della sanzione della deplorazione costituiva ex se una proposta relativa alla specie e all’entità della misura da applicare.
Tali censure non possono essere positivamente valutate.
Nel caso in esame, infatti, il dirigente del I reparto mobile non ha proposto, in data 3.7.1997, l’applicazione di una sanzione nei confronti dell’odierno appellante; e ciò in quanto, nel dare avvio al procedimento egli si è limitato a dare giustificazione della scelta di impostarlo secondo lo schema di cui all’art.19 del D.P.R. n.737/1981, specificamente richiamato nella "proposta di attivazione dell’inchiesta disciplinare" e non secondo quello di cui all’art.18 "procedura per l’irrogazione della deplorazione" o ad altre norme.
Come questo Consiglio di Stato ha avuto già occasione di rilevare (cfr., in particolare, Sezione VI 19.10.2007 n.5461), la differenza fra i due schemi procedimentali è data dal fatto che solo quello disciplinato dall’art. 19 cit. può portare all’adozione delle sanzioni più gravi; dal che consegue che il dirigente in questione ha correttamente giustificato la scelta, riguardo alla quale era competente, sull’impostazione del procedimento, evidenziando che in base alla prima valutazione, di sua competenza appunto, non poteva essere esclusa la necessità di concludere il procedimento, ove il dipendente fosse risultato responsabile, con una sanzione anche della massima gravità, tenuto anche conto che all’interessato era stata già inflitta, in data 3.2.1997, dal Consiglio provinciale di disciplina la sanzione disciplinare della deplorazione.
Non può ritenersi quindi affetto da illegittimità, diversamente da quanto assunto dall’appellante nei motivi in esame, il comportamento del dirigente suddetto che ha dato giustificazioni della scelta di impostare il procedimento da avviare nei confronti dell’interessato secondo lo schema di cui all’art. 19, D.P.R. n. 737/1981, anziché in quello di cui all’art. 18, essendo data, la differenza fra i due schemi procedimentali, dal fatto che solo quello disciplinato dall’art. 19 può portare all’adozione di sanzioni più gravi; e, ciò in quanto, così agendo il dirigente stesso non ha proposto l’applicazione di una sanzione, nei confronti del dipendente, ma ha giustificato una scelta, riguardo alla quale è competente, sull’impostazione del procedimento, evidenziando che, in base alla prima valutazione (di sua competenza), non si poteva escludere la necessità di concludere il procedimento, ove il dipendente fosse risultato responsabile, con una sanzione anche della massima gravità.
3. Con il terzo motivo, infine, l’appellante sostiene, essenzialmente, che nell’adottare i provvedimenti impugnati in prime cure l’Amministrazione avrebbe applicato la "misura estrema" in assenza di una adeguata motivazione, giacché le infrazioni contestate (assenza di un periodo superiore a cinque giorni e uso non terapeutico di sostanza stupefacente) configurano delle fattispecie sanzionate anche con la misura della sospensione dal servizio ex art.6 D.P.R. n.737/1981 (oltreché con la più grave misura della destituzione di cui al successivo art.7).
Anche tale doglianza non può essere condivisa.
Ed invero, posto che il giudizio di tenuità di una sanzione disciplinare è direttamente correlato alla qualità dell’interessato, non può essere connotato da minore gravità il comportamento di un agente di polizia, istituzionalmente preposto alla tutela dell’ordine, il quale (avuto riguardo in particolare alla seconda delle due destituzioni oggetto di esame), faccia uso, in contrasto con i doveri di lealtà e correttezza assunti con il giuramento, di sostanze stupefacenti, a seguito, evidentemente, di contatti, a tal fine, con soggetti (fornitori dello stupefacente utilizzato) inseriti in contesti criminali.
Quanto alla valutazione della gravità di un tale comportamento ai fini disciplinari e alla proporzione tra la sanzione disciplinare irrogata e la gravità dei fatti contestati, si tratta, in ogni caso, di attività che costituisce manifestazione della valutazione dell’Amministrazione, suscettibile di sindacato di legittimità per vizi logici o inattendibilità che nella specie non sussistono.
Ed invero, la vicenda di cui l’agente di P.S. F. si è reso protagonista dimostra non soltanto la mancanza del senso dell’onore e del senso morale, ma anche la dolosa violazione dei doveri istituzionali, con grave pregiudizio all’Amministrazione di appartenenza.
La riscontrata mancanza di affidamento sulle doti morali e caratteriali dell’agente, che sostanzialmente sono alla base della destituzione, presuppone, del resto, un apprezzamento di natura tecnico discrezionale da parte dell’Amministrazione, che nel caso in esame non appare censurabile.
Ove poi si consideri che il ricorrente non era nuovo ad episodi del genere, in quanto, già con atto del 30.4.1997 era sta punito con la più lieve sanzione della deplorazione per occasionale assunzione di sostanza stupefacente, come evidenziato appunto nella gravata pronuncia, appare evidente che, nel caso in esame, non sussisteva neppure l’occasionalità dell’episodio che aveva dato luogo al secondo procedimento disciplinare conclusosi con il provvedimento impugnato con il secondo ricorso di primo grado.
L’appellante contesta, peraltro, le sanzioni inflittegli, affermando che l’Amministrazione non ha adeguatamente motivato circa la riconducibilità del suo comportamento alla fattispecie di cui all’art. 7 comma 2, punti 1, 2, 4 e 6 del D.P.R n.737/1981, in luogo di altre fattispecie, contemplate negli articoli precedenti e quindi sanzionate meno gravemente.
Al riguardo il Collegio deve osservare in proposito che l’obbligo motivazionale non può giungere fino al punto al quale sembra estenderlo il ricorrente.
L’Amministrazione ha certamente l’obbligo di chiarire adeguatamente le ragioni della propria decisione; tuttavia, una volta che le ragioni dell’Amministrazione emergono con la dovuta univocità, è inutile che nel corpo del provvedimento venga esplicitata la disamina di tutte le altre possibili soluzioni, scartate nel caso concreto.
Nel caso di specie, le ragioni della scelta di cui si discute emergono con la dovuta chiarezza in relazione a agli elementi che emergono dai procedimenti disciplinari svolti e dalle valutazioni fornite dal Consiglio provinciale di disciplina, riferite a comportamenti dell’agente in questione palesemente idonei ad incidere sulla reputazione dell’agente di polizia, tali da rischiare di minare la fiducia di cui lo stesso gode presso la popolazione.
La giurisprudenza, d’altra parte, ha avuto modo di ritenere legittima la destituzione dal servizio di un agente della Polizia di Stato che abbia fatto uso di sostanze stupefacenti, atteso che tale uso altera l’equilibrio psichico, inficia l’esemplarità della condotta, si pone in contrasto con i doveri attinenti allo stato di militare e al grado rivestito, influisce negativamente sulla formazione militare e lede il prestigio del Corpo (cfr., tra le tante Sez. IV, 12 aprile 2001, n. 2259).
Ora, fermo il fatto che l’uso di sostanze stupefacenti concreta una violazione dei doveri di correttezza e di lealtà assunti con il giuramento prestato e quindi legittima la sanzione della destituzione, nel caso in esame, la sanzione è stata irrogata nella ricorrenza anche della reiterazione della condotta già censurata, e, quindi, in presenza pure di un altro presupposto previsto dalla legge.
In conclusione, appare corretta la statuizione dei primi giudici che hanno ritenuto insussistente nella specie l’asserita sproporzione fra i fatti contestati ed accertati e la sanzione irrogata, atteso che i comportamenti del ricorrente, come emersi dai procedimenti svolti a suo carico dal Consiglio provinciale di disciplina, integravano una condotta particolarmente riprovevole per un appartenente alla Polizia di Stato – da non considerarsi alla stregua di un qualsiasi dipendente pubblico, essendo tenuto all’osservanza di doveri di servizio particolari e a comportamenti irreprensibili anche al di fuori del servizio – dopo avere osservato che nella specie la destituzione era stata irrogata ai sensi dell’art. 7 del DPR n. 737 del 1981 nn. 1, 2, 4 e 6.
Infine, quanto al richiamato principio di proporzionalità delle sanzioni deve osservarsi in ogni caso che, il potere tecnicodiscrezionale delle P.A. è legittimamente esercitato se porta a esiti non inattendibili nell’apprezzamento delle varie ipotesi disciplinari e al giudice amministrativo non è consentito di ripercorrere l’intera formazione del provvedimento sanzionatorio ivi compresa soprattutto la valutazione degli illeciti una volta ricostruiti nella loro realtà; e ciò anche sulla base della giurisprudenza, secondo cui la determinazione della sanzione disciplinare da applicare è espressione della valutazione discrezionale della P.A., come tale insindacabile in sede di legittimità a meno di una inattendibile valutazione fonte di sproporzione in relazione ai fatti sanzionati (cfr., Cons. St., Sez. VI, 21.2.2007, n. 926 e 29.3.2007, n. 1455)..
Non appare affatto illogica e nemmeno immotivata la valutazione dell’Amministrazione, che nel caso in esame ha ritenuto, non discostandosi dal deliberato del Consiglio di disciplina, i comportamenti dell’odierno appellante caratterizzati da mancanza del senso dell’onore, da contrasto con i doveri assunti con il giuramento e da dolosa violazione dei doveri con grave pregiudizio allo Stato e all’Amministrazione (in reiterazione peraltro di precedenti infrazioni per le quali era prevista la sospensione dal servizio) e quindi caratterizzati dagli estremi per l’applicazione della destituzione ai sensi dell’art.7 nn 1, 2, 4 e6 del D.P.R. n.737/1981.
4. Alla luce delle considerazioni svolte, l’appello in esame deve essere respinto.
Le spese del giudizio sono poste a carico della parte appellante e vengono liquidate nei modi precisati in dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale, sezione Sesta, definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe specificato, lo respinge.
Condanna la parte appellante al pagamento delle spese giudiziale che vengono liquidate in favore dell’Amministrazione dell’interno nella misura di Euro 2000,00 /duemila/00), oltre ad IVA e CPA.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Redazione