Consiglio di Stato sez. IV 7/1/2011 n. 25

Redazione 07/01/11
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FATTO e DIRITTO
1.- L’appellante, finanziere scelto in servizio permanente effettivo, ha impugnato la sentenza del TAR per il Lazio n. 2426 del 2009, che ha respinto il suo ricorso n. 5908 del 204, proposto avverso la determinazione 12 marzo 2004, di applicazione della sanzione della perdita del grado per rimozione.
In punto di fatto, l’interessato ha rilevato che è stato denunciato dal direttore di un supermercato di Termoli, a seguito del rinvenimento nella borsa del coniuge (anch’ella denunciata), in data 16 febbraio 2002, di merce prelevata negli scaffali per un valore di euro 32,92, mentre lo stesso coniuge si avviava all’uscita, senza passare dalle casse, ove poi era stata fermata.
Egli ha osservato che il procedimento penale, instaurato nei confronti suoi e della moglie a seguito della denuncia-querela del direttore del supermercato, è stato archiviato per rimessione di querela.
Avverso il provvedimento disciplinare che ha disposto la sanzione espulsiva, nel ricorso di primo grado l’interessato ha dedotto la presenza di vari profili di eccesso di potere, sia perché egli sarebbe estraneo ai fatti contestati al coniuge, sia perché sarebbero ravvisabili un difetto di istruttoria e la eccessività della sanzione espulsiva.
Con l’appello in esame, l’originario ricorrente ha riproposto le censure respinte in primo grado ed ha chiesto che, in riforma della sentenza gravata, sia annullato il provvedimento impugnato in primo grado.
Il Ministero appellato si è costituito in giudizio e, con una articolata memoria difensiva, ha controdedotto, chiedendo la reiezione del gravame.
2.- Così ricostruite le vicende che hanno condotto al secondo grado del giudizio, ritiene la Sezione che l’appello risulta fondato..
2.1. Dalla documentazione acquisita, non emerge univocamente la responsabilità personale dell’appellante, in ordine alla condotta posta in essere dal coniuge e avente rilevanza penale.
Non v’è alcun dubbio che la moglie dell’appellante, che si trovava in stato di gravidanza, ha inserito nella sua borsa la merce per il controvalore di euro 32,92, senza passare per la cassa e cercando di uscire dal supermercato.
Nel presente giudizio, rileva la valutazione in sede disciplinare del comportamento del marito, che – ad avviso dell’Amministrazione – va considerato corresponsabile.
Nel corso del procedimento disciplinare, l’Amministrazione ha escluso ogni rilievo probatorio alla dichiarazione della moglie (che ha segnalato la propria esclusiva responsabilità per il fatto) ed ha viceversa attribuito decisivo rilievo alla dichiarazione dell’addetta alla vigilanza del supermercato, che – nell’immediatezza del fatto – ha dichiarato che l’appellante si è guardato ‘con circospezione intorno’, rivolgendo un ‘cenno’ alla moglie.
Da ciò, l’Amministrazione ha tratto la conclusione (fatta propria dal TAR) che vi fosse un ‘accordo’ volto ad agevolare l’uscita indisturbata della moglie dal supermercato.
2.2. In presenza di tali risultanze probatorie, ritiene la Sezione che l’Amministrazione non avrebbe potuto ravvisare la responsabilità dell’appellante per il tentato furto.
Risulta del tutto plausibile la tesi difensiva dell’appellante, ancora richiamata in questa sede, secondo cui l’addetta alla sicurezza del supermercato può avere equivocato sul significato del cenno da lui rivolto alla moglie.
Infatti, ritiene il Collegio che – in assenza di specifici elementi di segno contrario, e anche senza attribuire decisivo rilievo probatorio alla assunzione di esclusiva responsabilità da parte della moglie – il ‘cenno’ rivolto dall’appellante poteva anche significare la sollecitazione ad uscire dal supermercato, per la mancata effettuazione di acquisti o per la risistemazione della merce sugli scaffali.
Ogni diversa illazione non risulta coerente con i principi desumibili dagli articoli 25 e 27 della Costituzione, per cui la responsabilità penale è personale.
In altri termini, il ‘cenno’ rivolto dall’appellante alla moglie, in assenza di elementi tali che possano farlo intendere come attuazione di un previo accordo a commettere il furto, non avrebbe potuto avere alcun rilievo nella sede disciplinare, attivata a seguito della archiviazione del procedimento penale.
2.3. Peraltro, ad avviso del Collegio, sotto un distinto profilo l’Amministrazione avrebbe potuto attribuire rilievo disciplinare ai fatti accaduti il 16 febbraio 2002.
Come risulta dalla stessa istruttoria che ha preceduto il provvedimento di espulsione, l’appellante, quando è stata fermata la moglie dalla addetta alla vigilanza, nell’immediatezza del fatto ha dichiarato di non conoscere la donna.
Solo successivamente, all’arrivo dei carabinieri, egli ha segnalato di esserne il coniuge.
Tale comportamento indubbiamente può avere rilevanza disciplinare.
Infatti, l’appellante, anche se ha provato sentimenti di disappunto, fastidio e vergogna per il fatto commesso dalla moglie, ha posto in essere un comportamento non corretto e tale da far sorgere ragionevoli dubbi sul significato da attribuire alla sua complessiva condotta.
Anche se la situazione era resa estremamente delicata dalla gravidanza della moglie, sarebbe stato senz’altro ineccepibile un comportamento del marito che avesse mostrato i propri sentimenti o il proprio stupore in qualsiasi modo: l’avere invece negato di essere il marito ha indubbiamente inciso sulla attendibilità della sua successiva dichiarazione di essere estraneo al tentativo di furto e, comunque, ha inciso sul prestigio dell’Arma di cui egli risultava appartenente.
2.4. Ritiene dunque il Collegio che l’Amministrazione ha basato il provvedimento espulsivo sulla base di una pluralità di condotte che ha ritenuto commesse dal dipendente, di cui, in realtà, poteva prendere in considerazione solo quella post delictum, senza poterlo considerare corresponsabile del tentativo di furto, in assenza di univoci elementi probatori.
2.5. Quanto precede comporta che risulta fondata e va accolta la censura con cui l’appellante ha dedotto la violazione del principio di proporzionalità, applicabile anche in tema di destituzione e di sanzioni espulsive dal pubblico impiego.
Sulla base della normativa che in materia disciplinare attribuisce rilievo alla oggettiva gravità dei fatti connessi ed alla recidiva, la più recente e consolidata giurisprudenza di questo Consiglio (Sez. IV, 16 ottobre 2009, n. 6353; Sez. IV, 21 agosto 2009, n. 5001) ha ritenuto che sussiste il vizio di eccesso di potere quando il provvedimento disciplinare appare ictu oculi sproporzionato, nella sua severità, rispetto ai fatti accertati (pur se essi abbiano dato luogo ad una condanna in sede penale, cosa peraltro neppure accaduta nella specie).
Infatti, per qualsiasi dipendente (anche per il militare che abbia prestato il giuramento di fedeltà), un isolato comportamento illecito può giustificare la misura disciplinare estintiva del rapporto di lavoro quando si possa ragionevolmente riconoscere che i fatti commessi siano tanto gravi da manifestare l’assenza delle doti morali, necessarie per la prosecuzione dell’attività lavorativa.
Per il principio della graduazione delle sanzioni e tenuto conto delle regole riguardanti la recidiva (per le quali i fatti acquistano una maggiore gravità, in quanto commessi dal dipendente già incorso in una precedente sanzione), l’Amministrazione non può peraltro considerare automaticamente giustificata l’estinzione del rapporto di lavoro per il solo fatto che il dipendente abbia commesso per la prima volta un reato doloso: a maggior ragione, la violazione del principio di proporzionalità sussiste quando, come nella specie, non risulti univocamente la responsabilità per il reato commesso da altri e vi sia stato un disdicevole comportamento post delictum (peraltro, di per sé non costituente reato).
In sede disciplinare, infatti, deve esservi la specifica valutazione dei fatti accaduti, poiché la loro lievità può giustificare una sanzione diversa da quella massima (salve le più severe valutazioni, in presenza dei relativi presupposti, se il dipendente commetta ulteriori mancanze e addirittura reati): altrimenti opinando, qualsiasi reato doloso o comportamento disdicevole potrebbe essere posto a base della misura disciplinare del rapporto di lavoro, ciò che non si può affermare, in considerazione della prassi amministrativa e del principio di proporzionalità, affermatosi nella pacifica giurisprudenza.
Correttamente è stato rilevato da questa stessa Sezione – con specifico riferimento a un provvedimento di rimozione di un appartenente al Corpo della Guardia di Finanza – che la proporzione fra addebito e sanzione è principio espressivo di civiltà giuridica (cfr. IV Sez., 10 maggio 2007, n. 2189; 18 febbraio 2010 n. 939), comportando la sproporzione della sanzione la violazione del principio di ragionevolezza e di gradualità della sanzione stessa.
Neppure appare condivisibile – pur in presenza di contrastanti orientamenti giurisprudenziali sul punto – la tesi dell’Amministrazione secondo la quale la violazione degli obblighi assunti con il giuramento prestato, quale che sia la sua gravità, giustifica la comminatoria della sanzione espulsiva perché indice di carenza di qualità morali e di carattere e comunque lesivo del prestigio del Corpo.
Che le violazioni di doveri comportamentali costituiscano un vulnus al giuramento prestato è incontrovertibile; ma che esse debbano essere tutte punite con la massima sanzione (id est, quella espulsiva), come se il vulnus fosse di identico livello nei vari casi, è assunto che si rivela palesemente in contrasto con i precitati principi di ragionevolezza e proporzionalità, laddove risulti ontologicamente diversa, nelle varie ipotesi, l’incidenza della violazione su quei doveri di fedeltà e lealtà assunti dal militare con la prestazione del giuramento e laddove risulti altresì differente il livello di carenza di qualità morali e di carattere nelle diverse fattispecie.
Del resto, è la stessa circolare del Comando generale n. 40000/1152/98 ad introdurre la possibilità di calibrare la sanzione in misura variabile per le condotte che non realizzano "in pieno" la violazione del giuramento: tale principio deve ritenersi invero applicabile, ad avviso del Consiglio di Stato, a maggior ragionne quando non risulti univocamente una responsabilità penale del dipendente.
3.- In conclusione, l’appello deve essere accolto, sicché – in riforma della sentenza gravata – il ricorso di primo grado va accolto, con il conseguente annullamento del provvedimento emesso il 12 marzo 2004.
Peraltro, poiché il giudice amministrativo ben può individuare quali sono i principi cui si deve attenere l’amministrazione, ritiene la Sezione che, nella specie, trattandosi dell’annullamento di un provvedimento incidente su un interesse legittimo, non si applicano gli art. 88 ss. del testo unico n. 3 del 1957 e i principi sulla restitutio in integrum (rilevanti per legge solo nel caso di completo proscioglimento dell’incolpato dall’addebito).
Pertanto, a parte il potere di rinnovare il procedimento disciplinare ai sensi dell’art. 119 del medesimo testo unico, nel caso di richiesta dell’interessato l’amministrazione sarà comunque tenuta a valutare la eventuale domanda di corresponsione del risarcimento del danno tenendo conto del fatto che la mancata prestazione dell’attività lavorativa è risultata comunque la conseguenza di un fatto giustificativo dell’esercizio del potere disciplinare, anche se nella specie è stato esercitato in violazione del principio di proporzionalità.
Pertanto, la relativa quantificazione dei danni dovrà essere effettuata tenendo conto della particolare e preponderante efficienza causale del comportamento del dipendente, malgrado questi abbia titolo alla reimmissione in servizio sulla base della presente decisione.
4.- Quanto alle spese del doppio grado di giudizio, in ragione dei fatti accertati sussistono giusti motivi per disporne l’integrale compensazione fra le parti.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, sezione Quarta, definitivamente pronunciando, accoglie il ricorso in appello indicato in epigrafe n. 5228 del 2009 e, per l’effetto accoglie il ricorso di primo grado n. 5908 del 2004 e annulla il provvedimento emessi il 12 marzo 2004, nei sensi indicati in motivazione e salvi gli ulteriori provvedimenti della Autorità amministrativa.
Compensa fra le parti le spese del doppio grado di giudizio.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Redazione