Consiglio di Stato Adunanza plenaria 10/5/2011 n. 7; Pres. de Lise

Redazione 10/05/11
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FATTO e DIRITTO

1.Con sentenza n. 516 del 24 novembre 2010, emessa in forma semplificata, il T.A.R. per l’Umbria ha respinto il ricorso proposto dal sig. L. C. avverso il provvedimento con il quale la Prefettura – U.T.G. di Perugia ha rigettato l’istanza presentata dal suo datore di lavoro, sig. M. C., volta ad ottenere l’emersione dal lavoro irregolare, ai sensi dell’art. 1-ter, comma 13, della legge n. 102 del 2009.

Il rigetto della predetta istanza è stato motivato in ragione della condanna riportata dal ricorrente ai sensi dell’art. 14, comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 25 luglio 1998 (T.U. delle disposizioni sull’immigrazione), per essersi lo stesso trattenuto illegalmente nel territorio dello Stato, in violazione dell’ordine impartito dal Questore, ai sensi del comma 5-bis dello stesso decreto.

2. Con ricorso numero di registro generale 1445 del 2011, il sig. L. C. ha proposto appello al Consiglio di Stato in sede giurisdizionale per la riforma della sentenza, previa sospensione dell’efficacia.

Con ordinanza 16 marzo 2011 n. 1227, la Terza Sezione di questo Consiglio, in sede di esame della detta domanda cautelare, valutata la rilevanza del danno lamentato dall’appellante, ha sospeso interinalmente gli effetti del provvedimento impugnato in primo grado dall’interessato, e della sentenza appellata. Inoltre, considerato il permanere dei contrasti giurisprudenziali riscontrati in merito all’interpretazione del citato art. 1-ter, comma 13, della legge n. 102 del 2009, di cui l’Adunanza Plenaria aveva dato atto con le ordinanze n. 912-917 del 21 febbraio 2011, la Sezione ha rimesso l’appello a questo Consesso, a norma dell’art. 99, comma 1, c.p.a., perché si pronunci sulla domanda cautelare e, ove lo ritenga, proceda alla definizione della controversia ai sensi dell’art. 60 c.p.a..

La questione è stata inscritta al ruolo della camera di consiglio dell’Adunanza Plenaria del 2 maggio 2011.

L’Avvocatura Generale dello Stato ha depositato memoria per contrastare le tesi dell’appellante.

Con atto depositato il 12 aprile 2011 l’Associazione Progetto Diritti o.n.l.u.s. ha esplicato atto di intervento ad adiuvandum, sostenendo la fondatezza dell’appello.

Con memoria di replica del 18 aprile 2011 l’Avvocatura Generale dello Stato, richiamate le precedenti difese, ha contestato l’ammissibilità dell’intervento ad adiuvandum svolto dalla predetta Associazione.

Alla camera di consiglio del 2 maggio 2011 l’Adunanza Plenaria, avendone preventivamente avvisato i difensori presenti, e ritenendo sussisterne i presupposti, ha proceduto alla decisione dell’appello nel merito ai sensi dell’art. 60 c.p.a..

3. Non può accogliersi l’eccezione di inammissibilità dell’intervento ad adiuvandum svolto dalla Associazione Progetto Diritti o.n.l.u.s..

Il sodalizio ha depositato lo statuto sociale e il decreto 15 dicembre 2005 con il quale il Ministro del lavoro e delle politiche sociali ne ha disposto l’iscrizione nel Registro delle associazioni e degli enti che svolgono attività a favore degli immigrati, ai sensi dell’art. 54 del D.P.R. 31 agosto 1999 e successive modificazioni.

Pertanto, considerata anche l’ampia previsione di cui all’art. 97 c.p.a., deve esserne riconosciuta, all’associazione istante la legittimazione ad essere parte del giudizio di appello in qualità di interveniente in quanto titolare di un interesse di fatto ad una pronuncia giurisdizionale favorevole alla categoria dei propri soci.

4. L ’appello deve essere accolto.

Occorre ricordare preliminarmente, pur nella concisione propria della sentenza in forma semplificata, i dubbi interpretativi manifestatisi in giurisprudenza, che hanno indotto la Sezione a rimettere la questione all’Adunanza Plenaria. Essi si riferiscono al disposto di cui all’art. 1-ter, comma 13, lett. c), della legge n. 102 del 2009, che inibisce la regolarizzazione dei lavoratori extracomunitari condannati, anche con sentenza non definitiva, compresa quella pronunciata a seguito di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’art. 444 c.p.p., per uno dei reati previsti dagli articoli 380 (arresto obbligatorio in flagranza) e 381 (arresto facoltativo in flagranza) del medesimo codice.

L’Amministrazione dell’interno ritiene che, tra i detti reati, vada ricompreso il delitto di violazione dell’ordine del questore di lasciare il territorio nello Stato, previsto dall’art. 14, comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998, punito con una pena edittale fino a quattro anni di reclusione e per il quale è previsto l’arresto obbligatorio.

Secondo alcune pronunce, tale delitto, oltre a non essere espressamente menzionato nelle due disposizioni di rinvio (artt. 380 e 381 c.p.p.), non potrebbe pacificamente ascriversi tra quelli di cui all’art. 380 c.p.p., per difetto della previsione di una pena edittale non inferiore nel minimo a cinque anni, e neppure tra quelli di cui all’art. 381, in quanto comportante l’arresto obbligatorio.

Altre decisioni, invece, hanno condiviso la tesi dell’Amministrazione, nel senso che l’ipotesi delittuosa in questione può legittimamente farsi rientrare tra i delitti di cui all’art. 381 c.p.p., in ragione della previsione di una pena superiore nel massimo ai tre anni.

5.1. Ritiene tuttavia il Collegio che il rilevato contrasto interpretativo abbia perduto di attualità e di rilevanza ai fini della definizione del giudizio.

Già con le ordinanze n. 912-917 del 21 febbraio 2011 l’Adunanza Plenaria, delibando, in sede meramente cautelare, analoghe vertenze, aveva dato atto della complessità intrinseca del problema interpretativo, segnalando – fra l’altro – che sulla sua soluzione poteva incidere anche il decorso del termine (il 24 dicembre 2010) per il recepimento della Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio 16 dicembre 2008 n. 2008/115/CE (recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare). Si era in presenza, infatti, di una sopravvenienza normativa di matrice comunitaria nella materia de qua, le cui disposizioni risultavano sufficientemente precise e incondizionate, e, come tali, suscettibili di immediata applicazione negli Stati membri, secondo i principi ormai consolidati del diritto comunitario. Poteva quindi derivarne il venir meno dell’efficacia di precetti della corrispondente disciplina dettata dalla legge nazionale italiana sull’immigrazione, in quanto non compatibili con gli artt. 15 e 16 della Direttiva, e segnatamente dell’art. 14, comma 5-ter del d.lgs. n. 286 del 25 luglio 1998, dalla cui applicazione è sorto il ricordato contrasto giurisprudenziale.

Tale ipotesi, infatti, è stata portata all’esame della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, in sede di pronuncia pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 del Trattato istitutivo, con ordinanza della Corte d’appello di Trento del 2 febbraio 2011.

La Corte del Lussemburgo, accolta la domanda di procedura di urgenza, si è pronunciata con sentenza 28 aprile 2011 in causa C-61/11 PPU.

Premesso che – afferma la sentenza – sussistono le condizioni per ritenere l’immediata applicabilità della Direttiva 2008/115, posto che è inutilmente decorso il termine fissato per il recepimento da parte dello Stato Italiano, e che le disposizioni di cui agli artt. 15 e 16 si presentano sufficientemente precise ed incondizionate (parag. 45-46), la decisione così conclude: ” … la direttiva 2008/115, in particolare i suoi artt. 15 e 16, deve essere interpretata nel senso che essa osta ad una normativa di uno Stato membro, come quella in discussione nel procedimento principale, che preveda l’irrogazione della pena della reclusione al cittadino di un paese terzo il cui soggiorno sia irregolare per la sola ragione che questi, in violazione di un ordine di lasciare entro un determinato termine il territorio di tale Stato, permane in detto territorio senza giustificato motivo.”.

5.2. L’Adunanza Plenaria è dell’avviso il detto pronunciamento abbia rilievo decisivo ai fini della definizione del presente appello.

La vicenda in esame trae origine dalla circostanza che il legislatore italiano, nell’esercizio di una facoltà espressamente stabilita dalla Direttiva n. 115 del 2008 (art. 4, comma 3, in tema di disposizioni più favorevoli), ha previsto il beneficio della emersione del lavoro irregolare, con effetto estintivo di ogni illecito penale e amministrativo (art. 1-ter, comma 11, l. n. 102 del 2009), a favore di una limitata cerchia di lavoratori, ma anche dei rispettivi datori di lavoro, che li impiegano per esigenze di assistenza propria o di familiari non pienamente autosufficienti o per lavoro domestico.

Tale misura, tuttavia, non può essere concretamente accordata dall’Amministrazione ove sia stata emessa condanna dello straniero interessato per il reato di cui all’art. 14, comma 5-ter, più volte citato, che, come si è visto, punisce lo straniero che non abbia osservato l’ordine del questore di lasciare il territorio dello Stato.

Ma la previsione di tale fattispecie penale, e le conseguenti condanne, non sono più compatibili con la disciplina comunitaria delle procedure di rimpatrio.

In conformità, infatti, all’orientamento costantemente seguito dalla Corte di Lussemburgo (a partire dalla sentenza Simmenthal in causa 106/77), e dalla stessa Corte costituzionale italiana (con la sent. n. 170 del 1984 e successive), anche la recentissima sentenza comunitaria afferma che è compito del giudice nazionale assicurare la “piena efficacia” del diritto dell’Unione, negando l’applicazione, nella specie, dell’art. 14, comma 5-ter, in quanto contrario alla normativa dettata dalla Direttiva n. 115 del 2008, suscettibile di diretta applicazione.

“L’effetto di tale diretta applicazione – ha puntualizzato la Corte – non è quindi la caducazione della norma interna incompatibile, bensì la mancata applicazione di quest’ultima da parte del giudice nazionale al caso di specie, oggetto della sua cognizione, che pertanto sotto tale aspetto è attratto nel plesso normativo comunitario.” (Corte Cost. n. 168 del 1991).

Deve concludersi che l’entrata in vigore della normativa comunitaria ha prodotto l’abolizione del reato previsto dalla disposizione sopra citata, e ciò, a norma dell’art. 2 del codice penale, ha effetto retroattivo, facendo cessare l’esecuzione della condanna e i relativi effetti penali.

Tale retroattività non può non riverberare i propri effetti sui provvedimenti amministrativi negativi dell’emersione del lavoro irregolare, adottati sul presupposto della condanna per un fatto che non è più previsto come reato.

5.3. La conclusione cui il Collegio perviene non è ostacolata in modo persuasivo dalla tesi, prospettata dall’ordinanza di rimessione, secondo cui, per il principio tempus regit actum, sarebbero da ritenere comunque legittimi gli atti amministrativi adottati antecedentemente al mutamento della normativa.

Il principio tempus regit actum esplica la propria efficacia allorché il rapporto cui l’atto inerisce sia irretrattabilmente definito, e, conseguentemente, diventi insensibile ai successivi mutamenti della normativa di riferimento. Tale la circostanza, evidentemente, non si verifica ove, come nella specie, siano stati esperiti gli idonei rimedi giudiziari volti a contestare l’assetto prodotto dall’atto impugnato.

Non diversamente da quanto accade a seguito dell’accoglimento della questione incidentale di legittimità costituzionale, benché sulla base di una differente ricostruzione dei rapporti tra le diverse fonti coinvolte, è da ritenere che le disposizioni espunte dall’ordinamento per effetto della diretta applicabilità di norme comunitarie non possano più essere oggetto di applicazione, anche indiretta, nella definizione di rapporti ancora sub judice.

6. E’ il caso di sottolineare che gli effetti della pronuncia, non conformi all’originario disegno del legislatore italiano, ben avrebbero potuto essere evitati ove, nel non breve lasso di tempo disponibile, si fosse provveduto al recepimento della direttiva, adottando misure compatibili con i relativi dettami.

6. Le spese dei due gradi di giudizio vanno poste a carico dell’Amministrazione soccombente, come in dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto annulla il provvedimento impugnato in primo grado;

condanna la parte resistente alla rifusione delle spese dei due gradi del giudizio in favore dell’appellante e ne liquida l’importo in euro 3.000,00, oltre gli accessori di legge;

compensa le spese nei confronti dell’Associazione Progetto Diritti o.n.l.u.s.;

ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 2 maggio 2011

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