Condono edilizio (Cons. Stato n. 1464/2013)

Redazione 11/03/13
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FATTO

I – L’Associazione Unione Casoni Quarantia – Amici della Natura, costituita tra i proprietari di edifici adibiti a deposito di attrezzi da pesca (c.d. “casoni”) realizzati nell’area della foce del fiume Isonzo, ha impugnato la sentenza con la quale il T.A.R. del Friuli – Venezia Giulia ha respinto il ricorso proposto da numerosi dei suddetti soggetti avverso i dinieghi opposti dal Comune di Staranzano alle loro istanze di concessione edilizia in sanatoria ai sensi della legge 28 febbraio 1985, nr. 47.

A sostegno dell’appello, l’associazione istante ha dedotto:

– l’erroneità della sentenza per aver ritenuto i dinieghi di sanatoria atti dovuti sulla scorta dei pareri paesaggistici negativi, senza considerare la cospicua mole di prove portate a sostegno del carattere estremamente risalente dei “casoni” per cui è causa, tale da renderli elemento storico e parte del paesaggio stesso;

– l’erroneità della reiezione della censura di incompetenza, in relazione a quei “casoni” non situati nel Comune di Staranzano.

Si sono costituiti il Comune di Staranzano e la Regione Friuli – Venezia Giulia, entrambi opponendosi con diffuse argomentazioni all’accoglimento del gravame e chiedendo la conferma della sentenza impugnata, ed inoltre il primo eccependo l’improcedibilità del ricorso introduttivo del giudizio.

II – Con un secondo appello, l’Associazione suindicata, unitamente ai signori **************** e ****************, ha impugnato la successiva sentenza con la quale il medesimo T.A.R. ha respinto il ricorso proposto avverso i provvedimenti – tutti di identico tenore – con cui il Comune di Staranzano aveva disposto la “archiviazione” delle istanze con le quali gli interessati, dopo aver riportato un secondo diniego a una seconda istanza formulata ai sensi della legge 23 dicembre 1994, nr. 724, avevano chiesto il riesame di detta istanza in base alla legge regionale del Friuli – Venezia Giulia 29 ottobre 2004, nr. 26.

A sostegno dell’appello, gli istanti hanno dedotto l’impossibilità che l’Amministrazione comunale negasse la sanatoria sulla base di un pregresso parere paesaggistico negativo, da considerarsi invece superato in quanto non richiamato già nel precedente provvedimento negativo.

Anche in questo giudizio, si è costituito il Comune di Staranzano, che ne ha sostenuto l’infondatezza e ne ha chiesto la reiezione.

III – Con altri due appelli di contenuto identico, la stessa Associazione autrice dei primi due gravami, affiancata da due gruppi di proprietari degli immobili de quibus (nel primo caso i signori *****************, ******************, ****************, ***************** e ***************, nel secondo caso i signori ******************, ***********, **************** e *****************), ha impugnato le sentenze con le quali il T.A.R. del Veneto ha respinto altrettanti ricorsi proposti avverso gli ordini di demolizione e rimessione in pristino emessi dal Comune in relazione ai “casoni” stessi.

Con unico, articolato motivo di gravame è stata riproposta la censura con la quale sostanzialmente si deduceva, malgrado il carattere di regola vincolato dell’ingiunzione a demolire, l’illegittimità derivata degli atti impugnati a causa dei vizi – denunciati con separati ricorsi – che affliggevano i retrostanti dinieghi di condono.

In entrambi i giudizi, si è costituito il Comune di Staranzano opponendosi all’accoglimento degli appelli.

Nel primo dei due giudizi in questione (nr. 9852 del 2008) ha altresì spiegato intervento la società Edilgamma S.a.r.l., proprietaria di alcuni dei suoli su cui sono stati edificati i “casoni” interessati dagli ordini di demolizione, opponendosi all’accoglimento del gravame e insistendo per la conferma della sentenza impugnata.

IV – L’ultimo appello in ordine cronologico, proposto dalla Associazione assieme ai signori *************** e **************, ha però a oggetto un atto precedente, e segnatamente il diniego opposto dal Comune alle seconde istanze di condono, avanzate ai sensi della già citata legge nr. 724 del 1994.

A sostegno di tale appello, è stata dedotta l’erroneità della sentenza censurata nella parte in cui aveva affermato che i richiedenti la sanatoria avrebbero omesso di determinare l’importo dovuto a titolo di oblazione per avvalersi di una sorta di “compensazione” con quanto già corrisposto in precedenza, mentre essi avevano regolarmente assolto all’obbligo di liquidazione del dovuto.

Il Comune appellato non si è costituito in questo giudizio.

V – All’esito dell’udienza di discussione del 23 novembre 2010, la Sezione, riuniti i giudizi, ha disposto verificazione per conoscere, ai fini di una più consapevole delibazione delle doglianze formulate dalla parte appellante, l’epoca esatta di prima realizzazione dei “casoni” per cui è causa e le successive vicissitudini che essi avevano subito.

L’attività istruttoria così disposta ha richiesto molto tempo, anche a causa della necessità di sostituire il verificatore originariamente nominato per inosservanza dei termini fissati nell’ordinanza di conferimento dell’incarico.

L’Associazione appellante ha nominato un proprio tecnico di parte, il quale ha partecipato alle operazioni di verificazione, che si sono concluse col deposito della relazione in data 7 settembre 2012.

Le parti hanno poi svolto, con apposite memorie, i propri rilievi in ordine alle risultanze dell’attività istruttoria espletata.

Infine, all’udienza del 29 gennaio 2013 la causa è stata trattenuta per la decisione.

DIRITTO

1. Preliminarmente, va ribadito il carattere unitario della causa, essendo stati gli appelli in epigrafe già riuniti con l’ordinanza interlocutoria nr. 444 del 2010.

2. Il presente giudizio riguarda una pluralità di edifici (“casoni”), originariamente adibiti a deposito di attrezzi per la pesca e successivamente oggetto di interventi che li hanno resi anche residenziali, situati nell’area lagunare della foce del fiume Isonzo, in relazione ai quali i proprietari (poi riunitisi nella Associazione Casoni Quarantia – Amici della Natura, odierna appellante unitamente ad alcuni di essi) hanno cercato nel corso del tempo di rimuoverne il carattere di abusività attraverso plurime istanze di condono.

Più precisamente, il lungo e articolato iter amministrativo inerente ai suindicati “casoni” si è sviluppato come segue:

a) le prime istanze di condono, proposte ai sensi della legge 28 febbraio 1985, nr. 47, sono state respinte dal Comune di Staranzano sulla scorta di un parere paesaggistico negativo della Regione Friuli – Venezia Giulia, con dinieghi impugnati dagli interessati con un primo ricorso giurisdizionale;

b) nuove istanze di sanatoria sono state, di poi, formulate ai sensi della legge 23 dicembre 1994, nr. 724, e su di esse il Comune si è pronunciato negativamente a causa della mancata determinazione di quanto dovuto a titolo di oblazione (anche questi dinieghi sono stati oggetto di impugnazione in sede giudiziale);

c) un terzo gruppo di istanze di condono è stato poi presentato sulla base della legge regionale del Friuli – Venezia Giulia n. 26 del 29 ottobre 2004, ricevendo riscontro negativo sempre con richiamo al parere di non compatibilità dei manufatti col pregio paesaggistico dell’area;

d) a quanto sopra hanno fatto seguito da parte dell’Amministrazione comunale provvedimenti di ingiunzione a demolire e alla riduzione in pristino delle aree interessate dagli abusi, impugnati con gli ultimi due ricorsi esaminati dal T.A.R. del Friuli – Venezia Giulia.

3. Tutto ciò premesso, va disattesa la preliminare eccezione di almeno parziale improcedibilità delle impugnative sollevate dal Comune appellato, in quanto non risulta che il succedersi di atti e provvedimenti come sopra ricostruito abbia fatto venir meno l’interesse degli originari ricorrenti a censurare ciascuno di essi.

Ed invero, va qui condiviso il diffuso orientamento giurisprudenziale di primo grado secondo cui, in considerazione della diversità di presupposti normativi di ciascuno dei condoni edilizi che si sono succeduti negli ultimi decenni, l’aver esperito negativamente una prima procedura di sanatoria non comporta ex se l’impossibilità di avvalersi di quelle successive.

Se questo è vero, ne discende che l’interesse che sorregge l’impugnazione giurisdizionale di ciascun diniego di sanatoria è autonomo e indipendente da quello alla base delle altre impugnative; semmai, l’eventuale accertata accoglibilità della prima istanza di condono potrà riverberarsi, in termini di improcedibilità dell’impugnazione per sopravvenuta carenza di interesse, sulle impugnazioni dei dinieghi successivamente ottenuti.

4. Superata la suddetta questione processuale, in ordine logico conviene principiare dall’appello (nr. 545 del 2002) relativo al primo diniego di sanatoria opposto agli istanti, in relazione al quale in primo grado erano state dedotte diverse questioni.

4.1. Innanzi tutto, può confermarsi – ancorché con motivazione diversa da quella spesa dal primo giudice, che aveva fatto leva su di una ritenuta carenza di interesse alla doglianza – la reiezione della censura con cui era stata dedotta l’incompetenza del Comune di Staranzano a pronunciarsi sulla condonabilità di alcuni dei manufatti per cui è causa, dei quali si assume ricadessero nel territorio di altri Comuni.

Infatti, dalla verificazione esperita (la quale, come meglio appresso si dirà, ha comportato l’esame approfondito di ciascuno dei “casoni” di cui si discute) è emerso che tutti gli edifici appartenenti agli originari ricorrenti ricadono effettivamente nel territorio del Comune di Staranzano, di modo che quest’ultimo non risulta in nessun caso essersi pronunciato al di fuori del proprio ambito di competenze.

4.2. Passando al “cuore” del primo ricorso, con esso si lamenta l’erroneità del parere paesaggistico negativo regionale, sulla cui base è stata denegata la sanatoria richiesta; si assume, fra l’altro, che i richiedenti avevano fornito ampia prova della risalenza dei “casoni” a epoche remote, e in particolare agli inizi del secolo XX, in modo che essi oggi costituirebbero parte integrante del paesaggio lagunare, circostanza della quale l’Amministrazione non avrebbe tenuto il dovuto conto in sede di espressione del parere di compatibilità paesaggistica.

4.2.1. Al riguardo la Sezione, ritenendo insufficienti le prove documentali prodotte dagli originari ricorrenti, ha ritenuto di dover disporre verificazione al fine di conoscere l’esatta epoca di prima edificazione dei “casoni” e le eventuali vicissitudini successive dagli stessi subite.

Di questa attività istruttoria è qui opportuno chiarire la ratio e gli scopi, anche al fine di meglio evidenziare le ragioni che indurranno la Sezione a disattendere una certa impostazione degli odierni appellanti e le conclusioni cui essi pretendono debba pervenirsi.

Ed invero, la questione dell’epoca di prima realizzazione dei “casoni” non viene certo in rilievo al fine di sostenere una difficilmente proponibile inapplicabilità, nella specie, del vincolo paesaggistico insistente sull’area interessata ai sensi della legge 29 giugno 1939, nr. 1497: infatti, non è qui in discussione il consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo cui, in sede di rilascio della concessione edilizia in sanatoria per opere ricadenti in zone sottoposte a vincolo, previsto dall’art. 32 della legge nr. 47 del 1985, l’esistenza del vincolo stesso va verificata al momento in cui deve essere valutata la domanda di condono, a prescindere dall’epoca della sua introduzione e, quindi, anche per le opere eseguite anteriormente all’apposizione del vincolo stesso (cfr. Cons. Stato, Ad. pl., 22 luglio 1999, nr. 20; Cons. Stato, sez. IV, 30 giugno 2010, nr. 4178; Cons. Stato, sez. VI, 16 marzo 2005, nr. 1094).

Nemmeno poteva in alcun modo, la disposta verificazione, essere strumentale a una sorta di “riesame” nel merito della questione della compatibilità dei manufatti abusivi con il vincolo paesaggistico: a ciò ostando gli altrettanto consolidati principi in materia di limiti al sindacato giurisdizionale in subiecta materia, dai quali questa Sezione non ha mai inteso esorbitare.

Pertanto, essendo nella specie lo spazio del sindacato circoscritto alle sole ipotesi di macroscopico errore o travisamento della realtà, l’accertamento dell’epoca di realizzazione dei “casoni” poteva venire in rilievo solo al fine di far emergere – per l’appunto – la sussistenza di taluna di dette situazioni: in altri termini, ove fosse stato confermato l’assunto di parte istante secondo cui i “casoni” formavano parte integrante del paesaggio fin da tempi estremamente risalenti, la mancata considerazione di tale dato fattuale avrebbe certamente connotato di manifesta inattendibilità l’intero percorso valutativo che sorreggeva il parere paesaggistico impugnato.

4.2.2. Quanto sopra aiuta a chiarire il perché i quesiti rivolti al verificatore avessero a oggetto esclusivamente l’individuazione dell’epoca storica di edificazione dei “casoni”, ed escludessero – contrariamente a quanto sembrano ritenere gli appellanti – qualsivoglia giudizio sul loro maggiore o minor pregio sotto il profilo estetico o paesaggistico.

Per queste ragioni, non può seguirsi la tesi di parte appellante secondo cui, al fine di una più chiara comprensione delle questioni sottese al presente giudizio, sarebbe necessario tener conto non solo delle conclusioni del verificatore nominato con l’ordinanza nr. 444 del 2010, ma anche di quelle del consulente di parte degli stessi appellanti, il quale invece si è dilungato sull’asserita piena ed armonica compenetrazione dei manufatti de quibus con l’ambiente circostante.

Al contrario, ai fini che qui interessano e per le ragioni che si sono esposte, il dato dirimente è costituito proprio dalle conclusioni cui il verificatore è pervenuto, dopo aver esaminato ciascuno dei “casoni” per cui è causa e la documentazione rinvenibile afferente a ciascuno di essi, in ordine alla loro epoca di realizzazione: al riguardo è stato accertato, senza una seria smentita ex adverso, che la stragrande maggioranza dei “casoni” in discorso è stata edificata solo negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, con l’eccezione di una sparuta minoranza che risale a non prima dei tardi anni Quaranta o degli anni Cinquanta dello stesso secolo.

Pertanto, risulta smentita la tesi di fondo degli appellanti in ordine all’essere i “casoni” parte del paesaggio lagunare in quanto testimonianza storica delle antiche attività di pesca, di modo che alcuna carenza od omissione può ascriversi alla condotta dell’Amministrazione preposta al vincolo paesaggistico, la quale ha preso in considerazione i manufatti in discorso come nulla più che dei meri abusi edilizi (ancorché piuttosto risalenti nel tempo).

4.2.3. Le considerazioni che precedono, nel disvelare l’infondatezza delle censure riprodotte nel primo degli appelli qui riuniti, consentono anche di prescindere dalle questioni processuali sollevate dalla Regione appellata, la quale ha contestato che fosse in facoltà delle parti nominare propri consulenti, trattandosi nella specie di verificazione e non di C.T.U.

Al riguardo, non può però omettersi di evidenziare che, se è vero che l’art. 66 cod. proc. amm. in tema di verificazione (a differenza dal successivo art. 67 per la C.T.U.) non prevede espressamente la facoltà di nomina di consulenti di parte, tuttavia nemmeno si rinviene un divieto sul punto; inoltre, anche prima dell’entrata in vigore del codice del processo amministrativo la giurisprudenza prevalente aveva sostenuto la necessità di assicurare il contraddittorio anche in occasione delle operazioni di verificazione, sicché nulla sembra impedire che anche in sede di tale mezzo istruttorio le parti possano manifestare le propria posizione attraverso un tecnico di propria fiducia.

4.2.4. Va poi aggiunto che, nelle proprie memorie successive al deposito della relazione di verificazione, gli appellanti hanno insistito sulla circostanza che l’istruttoria compiuta avrebbe in ogni caso documentato un’evoluzione “disordinata” dell’intero contesto paesaggistico che qui interessa, ciò che consentirebbe – indipendentemente dall’esatta epoca di realizzazione dei “casoni” – di trarre conferma al giudizio di incompatibilità paesaggistica.

A tali rilievi, in disparte la loro probabile novità rispetto alle censure articolate nell’originario ricorso introduttivo del giudizio (laddove non vi erano, per vero, diffuse considerazioni sulle caratteristiche estetiche dei “casoni” rispetto all’ambiente circostante), può replicarsi richiamando quanto si è già ampiamente esposto in ordine ai limiti imposti al sindacato del giudice sul giudizio di compatibilità paesaggistica rimesso alla p.a. competente ed alla centralità, ai fini del presente giudizio, del solo accertamento dell’epoca di realizzazione dei manufatti abusivi; una volta sgombrato il campo da tale questione e dalle sue possibili ricadute, ciò che rimane è solo un personale e soggettivo giudizio degli istanti di non condivisione delle valutazioni estetiche e paesaggistiche espresse dall’Amministrazione competente, in sé rispettabile ma inidoneo a legittimare una revisione giurisdizionale di esse.

5. In ordine logico, va poi esaminato l’appello (nr. 9979 del 2008) che investe la sentenza di reiezione del ricorso proposto avverso i dinieghi opposti dal Comune alle seconde istanze di condono, proposte ai sensi della legge nr. 724 del 1994.

Tale appello è a sua volta infondato e pertanto meritevole di reiezione.

Al riguardo, non è dubbio che a norma dell’art. 39, comma 4, della citata legge nr. 724 del 1994 gli istanti erano tenuti a corrispondere preventivamente l’oblazione e ad allegare all’istanza di condono la prova dell’avvenuto pagamento (almeno parziale); tuttavia, gli appellanti invocano a proprio favore, per sostenere l’illegittimità dell’operato del Comune che ha reputato violato il detto obbligo, il principio della “compensabilità” delle somme corrisposte a titolo di oblazione in occasione del precedente condono del 1985, come introdotto dall’art. 2, commi 40 e seguenti, della legge 23 dicembre 1996, nr. 662.

Secondo gli appellanti, essendo incontestato che essi avevano già a suo tempo versato delle somme a titolo di oblazione per la prima domanda di sanatoria, ciò li avrebbe esonerati dall’onere imposto dal citato art. 39, comma 4, nr. 724 del 1996, spettando al Comune poi operare la “compensazione” tra quanto versato e quanto dovuto.

La Sezione ritiene che un attento esame della normativa richiamata non autorizzi siffatte conclusioni.

In particolare, la situazione in cui si trovavano gli attuali appellanti (pregressa istanza di condono ai sensi della legge nr. 47 del 1985, già respinta) è specificamente contemplata dal comma 47 del citato art. 2 della legge nr. 662 del 1996, dal quale non è affatto dato ricavare un’esenzione dal generale obbligo di allegare all’istanza di sanatoria non solo e non tanto la prova del pagamento quanto meno parziale dell’oblazione, ma anche e soprattutto la “autoliquidazione” della somma dovuta sulla base delle Tabelle di legge, in modo da consentire al Comune le verifiche di competenza.

In altri termini, essendo gli interessati i primi a conoscere quanto avevano versato in occasione del precedente condono, è del tutto condivisibile l’assunto del primo giudice secondo cui non potevano essi limitarsi ad affermare di aver certamente corrisposto tutto quanto dovuto, rimettendo all’Amministrazione la verifica, per ciascuno degli istanti, della veridicità o meno di tale generico e apodittico assunto.

6. Venendo poi all’appello (nr. 716 del 2008) col quale si reiterano le censure articolate avverso il terzo diniego di sanatoria (richiesto ai sensi della l.r. nr. 26 del 1994), questo si appalesa a sua volta infondato.

Nel caso di specie, i dinieghi sono stati nuovamente motivati col richiamo al parere paesaggistico negativo a suo tempo espresso dall’Amministrazione regionale; tale motivazione è contestata dagli appellanti che ne sostengono l’inammissibilità, in quanto la questione della compatibilità paesaggistica (o meno) degli abusi sarebbe stata superata già in occasione delle seconde istanze di condono, dal momento che queste erano state respinte con una motivazione diversa.

Tale assunto non convince per nulla la Sezione.

Al contrario, dalla documentazione in atti emerge con chiarezza che la reiezione delle seconde istanze di condono era stata determinata da una vera e propria causa di irricevibilità di esse (la mancata allegazione dell’oblazione), tale da precluderne o comunque renderne superfluo l’esame nel merito: sicché non trova alcun riscontro l’affermazione di parte appellante per cui in tale occasione l’Amministrazione si sarebbe implicitamente espressa nel senso della compatibilità paesaggistica dei “casoni”, col risultato di impedire un successivo mutamento di avviso sul punto.

Una volta acclarata l’inconsistenza dell’assunto degli appellanti, è poi sufficiente richiamare quanto già esposto al punto 4 in ordine alla correttezza ed alla immunità da evidenti vizi del ridetto giudizio di non compatibilità dei manufatti col vincolo paesaggistico insistente sull’area interessata.

7. La reiezione, per le ragioni che si sono viste, degli appelli fin qui esaminati comporta anche, come diretta conseguenza, il rigetto degli ultimi due appelli (nn. 9852 e 9853 del 2008) con cui sono censurate le sentenze che hanno escluso l’illegittimità dei provvedimenti ripristinatori adottati dal Comune a seguito della negativa definizione delle procedure di sanatoria.

Infatti, le censure rivolte avverso tali ultimi provvedimenti si riducono nella sostanza a lamentarne l’illegittimità derivata per effetto dei vizi denunciati con i precedenti ricorsi avverso i dinieghi di sanatoria.

8. La peculiarità della vicenda che occupa, nella quale comunque è stato necessario svolgere accertamenti istruttori, giustifica l’integrale compensazione delle spese del grado.

Restano a carico degli appellanti, invece, le spese di verificazione e, in particolare, l’acconto già corrisposto al verificatore in virtù dell’ordinanza nr. 444 del 2010 e l’eventuale conguaglio che sarà liquidato con separata ordinanza se e quando verrà depositata un’istanza definitiva di compenso.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando, riuniti gli appelli in epigrafe, li respinge e, per l’effetto, conferma le sentenze impugnate.

Compensa tra le parti le spese di giudizio con la sola eccezione delle spese di verificazione, che pone in solido a carico degli appellanti.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 29 gennaio 2013

Redazione