Condominio: compossesso tra proprietario e terzo comporta usucapione della comproprietà (Cass. n. 16914/2011)

Redazione 02/08/11
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Svolgimento del processo
1. – C.M. e Jo. convennero in giudizio innanzi al Tribunale di Monza, sez. distaccata di *****, il fratello C. I., per sentir accertare e dichiarare la propria esclusiva proprietà della cantina ubicata al piano seminterrato del fabbricato sito in (omissis), e l’inesistenza del diritto di comproprietà vantato dal C. sulla medesima cantina, nonchè per sentirlo condannare al rilascio del locale e al risarcimento dei danni.

A sostegno della domanda proposta, esposero di essere divenute comproprietarie esclusive del vano cantina a seguito di una serie di atti di disposizione dei propri genitori, evidenziando, in particolare, che questi ultimi, acquistato il terreno con atto del 4 ottobre 1957, vi avevano costruito un appartamento, posto al piano rialzato, ed un locale cantina, da adibire ad abitazione familiare, completandolo, dopo alcuni anni, con la realizzazione di un primo piano, comprendente due piccoli appartamenti, e di un solaio, pertinenza degli stessi. Con atto del 16 dicembre 1971, gli stessi avevano trasferito al figlio I. e ad M.A., riservandosene l’usufrutto, la nuda proprietà dei due appartamenti del primo piano e del sottotetto o lastrico solare. Con testamento del 10 maggio 1979, la madre, signora B.B., aveva disposto della propria quota di comproprietà dell’appartamento posto al piano terreno, lasciandolo alle figlie in parti uguali, e della propria quota di comproprietà del box posto allo stesso piano, lasciandolo ai figli I. e L., in parti uguali; a seguito del decesso della madre era stata devoluta alle attrici la quota di metà dell’appartamento con annesso un vano cantina al piano seminterrato.

Successivamente, il padre, C.A., aveva dapprima disposto dei propri beni con testamento pubblico del 9 dicembre 1982, lasciando alle figlie Jo. e M. la restante quota di comproprietà dell’appartamento posto al piano terreno nonchè del box e del vano cantina. Quindi, con testamento pubblico del 14 maggio 1996, revocando ogni precedente disposizione testamentaria, lo stesso aveva legato alle figlie tutti i diritti da lui vantati sulla cantina. C.I., di fronte alle richieste di rilasciare libera la cantina, aveva contestato il diritto delle sorelle.

Il convenuto, costituitosi in giudizio, dedusse di essere divenuto legittimo proprietario o comproprietario della cantina, a seguito dell’acquisto, insieme alla moglie M.A., della nuda proprietà del primo piano e del sottotetto, poi consolidatasi alla morte dei genitori, avendo acquistato, con tale atto, anche la proprietà delle pertinenze e della quota di comproprietà delle parti e spazi comuni dell’edificio. La cantina, infatti, era da considerare una pertinenza dell’edificio, in base al disposto dell’art. 817 c.c., ed avendo il dante causa destinato la cantina a servizio dell’intero fabbricato. In subordine, il convenuto eccepì di aver acquistato la proprietà del bene per effetto di usucapione, ed, in linea ulteriormente subordinata, di aver acquistato la comproprietà della cantina per successione dai genitori, almeno quanto alla quota di successione della madre, che non aveva disposto dei propri diritti sulla cantina.

2. – Con sentenza depositata l’8 giugno 2001, il Tribunale di Monza, sez. distaccata di *****, rigettò le domande attoree, dichiarando interamente compensate tra le parti le spese della lite.

Avverso detta sentenza proposero appello C.M. e Jo..

Il convenuto, costituitosi, chiese il rigetto del gravarne proponendo anche appello incidentale sulla decisione nella parte relativa alle spese del giudizio.

3. – La Corte d’appello di Milano, con sentenza depositata il 6 ottobre 2004, in parziale riforma della decisione impugnata, premesso che, sulla base degli atti, si doveva giungere alla conclusione che la cantina in questione era stata sempre in rapporto pertinenziale con il solo appartamento posto al piano terreno dell’edificio già abitato dai genitori delle parti, e che la successiva edificazione del primo piano e del solaio non aveva comportato la instaurazione del rapporto pertinenziale anche tra la cantina e i due nuovi appartamenti realizzati, dichiarò che C.M. e Jo. erano proprietarie esclusive, in comproprietà tra loro, della cantina in questione, affermando l’inesistenza del diritto di comproprietà vantato su tale bene dal convenuto; rilevando, altresì, quanto alla eccezione di usucapione di tale diritto, la contraddittorietà di una simile prospettazione rispetto all’affermata destinazione del bene al servizio dell’intero fabbricato, ed osservando che le prove orali richieste a tale scopo tendevano a fornire la prova di un possesso del bene comunque non esclusivo, inidoneo, pertanto, ai fini dell’usucapione. L’appello incidentale fu dichiarato assorbito, e il C. condannato a rilasciare la cantina, e dichiarando assorbito l’appello incidentale.

4. – Per la cassazione di tale sentenza ricorre il C. sulla base di tre motivi, illustrati anche da successiva memoria. Resistono con controricorso C.M. e Jo..

Motivi della decisione
1. – Con il primo motivo di ricorso, si lamenta violazione e/o falsa applicazione delle norme e dei principi in materia di pertinenza, con particolare riferimento agli artt. 817, 818 e 819 c.c.; omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia; mancata ammissione dei mezzi di prova. La Corte di merito avrebbe errato nel ritenere che il vano cantina fosse in rapporto pertinenziale con il solo appartamento del piano terreno e non anche con l’intero edificio, composto, oltre che dal piano terreno, anche da un primo piano e da un sottotetto o solaio, nonostante la cantina fosse stata utilizzata da tutti gli abitanti e proprietari del fabbricato. Entrambi i presupposti della instaurazione del vincolo pertinenziale – idoneità del bene a svolgere la funzione di servizio od ornamento rispetto ad altro ponendosi in collegamento funzionale con questo, con coincidenza in capo ad un unico soggetto del potere di disporre sia del bene con vocazione servente che di quello principale, ed elemento soggettivo rispondente alla effettiva volontà dell’avente diritto di destinare durevolmente il bene accessorio a servizio od ornamento del bene principale – sarebbero, secondo il ricorrente, elementi costitutivi ed identificativi della vicenda in questione. Infatti, l’intento di C.A. e B.B., nel momento in cui avevano acquistato l’area nuda e avevano cominciato ad edificare, era quella di realizzare un fabbricato per soddisfare tutte le esigenze della famiglia, destinando le parti. dell’edificio con naturale vocazione servente (cantina e solaio) al servizio dell’intero fabbricato. L’incontestato uso della cantina da parte di tutti i familiari abitanti nell’edificio avrebbe confermato la volontà dei proprietari di destinare anche la cantina al servizio dell’intero fabbricato. La Corte di merito avrebbe altresì omesso l’esame dei documenti in atti e l’ammissione delle prove richieste dall’attuale ricorrente per fornire la prova della destinazione della cantina quale pertinenza dell’intero fabbricato.

2.1. – La censura è destituita di fondamento.

2.2. – La destinazione a pertinenza di una cosa considerata accessoria rispetto ad altra considerata principale può derivare o dalla destinazione oggettiva e funzionale dell’una al servizio dell’altra o dalla destinazione operata dal proprietario di quest’ultima. Per converso, la specifica esclusione del rapporto pertinenziale tra due porzioni immobiliari ad opera dell’originario proprietario di entrambe non consente di affermare la sussistenza del vincolo pertmenziale pur ove possa apparire ragionevole l’utilità di quella accessoria rispetto alla principale (v. Cass., sent. n. 14350 del 2000).

Ai sensi del plesso normativo costituito dagli artt. 817 e 819 c.c., la volontà di destinare in modo durevole una cosa al servizio o ad ornamento di un’altra, così come quella di far cessare il rapporto pertinenziale già costituito, non necessita di forme particolari o solenni, ma può essere desunta da qualsiasi elemento ritenuto idoneo a tal fine dal giudice di merito, il cui accertamento non è sindacabile in sede di legittimità, se espresso con motivazione adeguata ed immune da vizi logici (cfr., al riguardo, Cass., sentt. n. 11437 del 2010, n. 26946 del 2006).

2.3. – Nella specie, la Corte di merito ha espresso il convincimento, argomentato in modo articolato e plausibile, che la cantina in questione sia stata sempre in rapporto pertinenziale con il solo appartamento posto al piano terreno dell’edificio, già abitato dai genitori delle parti, e che diverse circostanze, opportunamente e correttamente valutate, non abbiano evidenziato la volontà dei coniugi di non modificare l’originario vincolo estendendolo all’intero edificio allorchè questo era stato ampliato mediante la costruzione di un primo piano e di un sottotetto o solaio.

Ininfluente, rispetto a tale decisione, rimarrebbe anche, secondo il corretto e articolato iter argomentativo seguito dalla Corte di merito, la eventuale dimostrazione che la cantina fosse stata utilizzata, in vario modo, da tutti gli abitanti dell’edificio, poichè la condotta o la volontà di costoro, che non erano proprietari dell’edificio,non avrebbero potuto costituire un valido vincolo pertinenziale tra la cantina e il loro immobile, sovrapponendosi alla volontà manifestata dagli originari proprietari della cantina e del piano terreno, i coniugi C. e B..

3. – Con il secondo motivo di ricorso, si denuncia violazione e/o falsa applicazione di norme di legge, con particolare riferimento all’art. 1117 c.c.; mancata ammissione dei mezzi di prova. Avrebbe errato la Corte territoriale nell’escludere che la cantina de qua fosse oggetto di proprietà comune ai sensi dell’art. 1117 c.c., in quanto essa era stata utilizzata per il riscaldamento centrale, essendo stata “ivi collocata la caldaia per il riscaldamento a favore dell’intero edificio, ed inoltre per la lavanderia, gli stenditoi ed altri simili servizi in comune. Anche con riferimento a tali circostanze la Corte avrebbe immotivatamente omesso l’ammissione dei relativi mezzi di prova.

4.1. – La doglianza è immeritevole di accoglimento.

4.2. – Come già chiarito da questa Corte, il diritto di condominio sulle parti comuni dell’edificio ha il suo fondamento nel fatto che tali parti siano necessarie per l’esistenza dell’edificio stesso, ovvero che siano permanentemente destinate all’uso o al godimento comune, sicchè la presunzione di comproprietà posta dall’art. 1117 c.c., che contiene un’elencazione non tassativa, ma meramente esemplificativa dei beni da considerare oggetto di comunione, può essere superata se la cosa, per obbiettive caratteristiche strutturali, serve in modo esclusivo all’uso o al godimento di una parte dell’immobile, venendo meno, in questi casi, il presupposto per il riconoscimento di una contitolarità necessaria, giacchè la destinazione particolare del bene prevale sull’attribuzione legale, alla stessa stregua del titolo contrario (v. Cass., sentt. n. 17933 del 2010, n. 4787 del 2007).

4.3. – Di tale principio la Corte ambrosiana ha fatto, nella specie, corretta applicazione allorchè, con iter argomentativo che non presenta vizi sotto il profilo logico nè giuridico, ed in coerenza con quanto già ritenuto in ordine alla natura pertinenziale della cantina a vantaggio del solo piano terreno dell’edificio, ha giudicato infondata la pretesa dell’appellato di ottenere il riconoscimento del suo diritto di proprietà quale condomino, non essendo la cantina parte comune dell’edificio, proprio per la natura pertinenziale del vincolo testè richiamata, e non ha valutato come sufficienti a dimostrare il contrario le circostanze dedotte dall’attuale ricorrente sulla presenza nella cantina in questione di una caldaia per il riscaldamento e dei tubi dell’acqua, destinata a favore dell’intero edificio. Tale conclusione la Corte ha, quindi, plausibilmente ritenuto non poter essere messa in discussione da fatti ulteriori.

5. – Con la terza censura, si denuncia violazione e/o falsa applicazione delle norme e dei principi in materia di possesso e usucapione, e in particolare degli artt. 1140 e 1158 c.c.; omessa e/o insufficiente motivazione su di un punto decisivo della controversia;

mancata ammissione dei mezzi di prova. Avrebbe errato la Corte di merito nel rigettare la eccezione di usucapione formulata in via subordinata dal ricorrente. La motivazione sul punto, nella parte in cui afferma che il compossesso uti condominus, siccome non esclusivo, sarebbe inidoneo ai fini della usucapione del diritto di comproprietà, contrasterebbe con i principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità in materia di possesso, compossesso e usucapione. Avrebbe, pertanto, errato il giudice di secondo grado nel non ammettere i mezzi di prova richiesti dall’attuale ricorrente per dimostrare i fatti rilevanti ai fini dell’usucapione.

6.1. – La doglianza è fondata.

6.2. – Questa Corte ha già chiarito che su di un immobile di proprietà esclusiva di un soggetto può ben crearsi una situazione di compossesso pro indiviso tra lo stesso soggetto proprietario ed un terzo, con il conseguente possibile acquisto, da parte di quest’ultimo, della comproprietà pro indiviso dello stesso bene, una volta trascorso il tempo per l’usucapione, nella misura corrispondente al possesso esercitato. Nè tale situazione di compossesso, che consiste nell’esercizio del comune potere di fatto sulla cosa, in tota et in qualibet parte della stessa, da parte di due soggetti, esige la esclusione del possesso del proprietario (che in tal caso si tratterebbe di possesso esclusivo); nè richiede che il compossessore effettivo ignori l’esistenza del diritto altrui, non valendo la contraria eventualità ad escludere l’animus possidendi che sorregge i comportamenti effettivamente tenuti dal possessore il quale abbia usato della cosa uti condominus (v. Cass., sentt. n. 21425 del 2004, n. 13082 del 2002).

6.3. – La decisione impugnata si fonda, dunque, in parte qua, su di un errato presupposto giuridico, quello secondo il quale il possesso non esclusivo del bene sarebbe inidoneo ai fini dell’usucapione.

7. – Conclusivamente, rigettati il primo ed il secondo motivo del ricorso, ne va accolto il terzo. La sentenza impugnata va cassata in relazione a tale motivo, e la causa rinviata ad un diverso giudice, che si individua in altra sezione della Corte d’appello di Milano – cui è demandato altresì il regolamento delle spese del presente giudizio -, che riesaminerà la questione adeguandosi al principio di diritto enunciato sub 6.2.

P.Q.M.

La Corte rigetta il primo ed il secondo motivo di ricorso, accoglie il terzo. Cassa la sentenza in relazione ai motivo accolto, e rinvia, anche per le spese del presente giudizio, ad altra sezione della Corte d’appello di Milano.

Redazione