Condannato il dirigente che consente l’esodo dei dipendenti dopo aver ricevuto la notizia della morte di una collega: è interruzione di pubblico servizio (Cass. n. 22294/2012)

Redazione 08/06/12
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Svolgimento del processo

1. Con la sentenza sopra indicata la Corte di appello di Palermo confermava la pronuncia del 11/05/2010 con la quale il Tribunale di Palermo aveva condannato G.S. alla pena di giustizia, in relazione al reato di cui all’art. 61 c.p., comma 1, n. 9 e art. 340 cod. pen., per avere, quale responsabile della sede Inail di (omissis), omettendo di effettuare il previsto rientro pomeridiano, determinato la chiusura al pubblico dell’ufficio e la conseguenza interruzione del servizio (in Palermo, il 12/11/2003).

Rilevava la Corte di appello come la colpevolezza del G. fosse stata dimostrata dal contenuto delle dichiarazioni rese da diversi testimoni e degli accertamenti compiuti dalla polizia giudiziaria, all’esito dei quali era risultato appurato che, la mattina del 12/11/2003, appresa la notizia della tragica morte di una loro collega, la gran parte dei dipendenti della citata sede dell’Inail di Palermo avevano pubblicamente dichiarato di non essere in condizioni di svolgere la loro attività lavorativa; e che il G., lungi dal comunicare ai dipendenti che non sarebbe stato tollerato un “esodo di massa” e che eventuali assenze per ragioni di salute sarebbero state giustificate solo previa presentazione di un permesso, aveva fatto apporre all’ingresso un cartello con la scritta “chiuso per lutto” e alle 14,00 si era allontanato definitivamente dall’ufficio, rimasto, così, del tutto vuoto.

Aggiungeva la Corte territoriale che il reato contestato dovesse considerarsi integrato nei suoi elementi costitutivi, essendo sufficiente, per la sua configurabilità, una interruzione o un turbamento della regolarità dell’ufficio o del pubblico servizio, come nella fattispecie si era effettivamente verificato.

2. Avverso tale sentenza ha presentato ricorso il G., con atto sottoscritto dal suo difensore avv. *******************, deducendo, con un unico motivo, la violazione di legge sostanziale, per avere la Corte di appello omesso di considerare che di quell’ufficio Inail era rimasto inattivo solo lo sportello per il ricevimento del pubblico;

che il G. non aveva affatto autorizzato un “esodo di massa” e si era allontanato dall’ufficio all’orario consentitogli, nè era certo che fosse stato proprio lui a fare affiggere quel cartello alla porta dell’ufficio; che il G., se avesse voluto, avrebbe potuto formalizzare un provvedimento di chiusura mentre, allontanandosi, non aveva potuto controllare che alcun dipendente avrebbe fatto il rientro pomeridiano; e che tutti gli altri dipendenti erano stati prosciolti dal giudice di primo grado.

 

Motivi della decisione

1. Ritiene la Corte che il ricorso sia inammissibile.

2. Il motivo del ricorso è stato presentato per ragioni diverse da quelle consentite dalla legge.

Il ricorrente, infatti, solo formalmente ha indicato, come motivo della sua impugnazione, una violazione di norme di legge penale, ma non ha prospettato alcuna erronea applicazione di norma sostantiva, nè alcun contraddizione logica, intesa come implausibilità delle premesse dell’argomentazione, irrazionalità delle regole di inferenza, ovvero manifesto ed insanabile contrasto tra quelle premesse e le conclusioni. Neppure è stata lamentata, come pure sarebbe stato astrattamente possibile, una incompleta descrizione degli elementi di prova rilevanti per la decisione, intesa come incompletezza dei dati informativi desumibili dalle carte del procedimento.

Il ricorrente, invero, si è limitato a criticare il significato che la Corte di appello aveva dato al contenuto delle emergenze acquisite durante l’istruttoria dibattimentale di primo grado e, in specie, delle dichiarazioni da lui rese durante l’istruttoria dibattimentale, confrontate con gli elementi di prova forniti dalla pubblica accusa.

E tuttavia, bisogna rilevare come il ricorso, lungi dal proporre un “travisamento delle prove”, vale a dire una incompatibilità tra l’apparato motivazionale del provvedimento impugnato ed il contenuto degli atti del procedimento, tale da disarticolare la coerenza logica dell’intera motivazione, è stato presentato per sostenere, in pratica, una ipotesi di “travisamento dei fatti” oggetto di vantazione, sollecitando una inammissibile rivalutazione dell’intero materiale d’indagine rispetto al quale è stata proposta una spiegazione alternativa alla semantica privilegiata dalla Corte territoriale nell’ambito di un sistema motivazionale logicamente completo ed esauriente.

Questa Corte, pertanto, non ha ragione di discostarsi dal consolidato principio di diritto secondo il quale, a seguito delle modifiche dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), ad opera della L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 8, mentre è consentito dedurre con il ricorso per cassazione il vizio di “travisamento della prova”, che ricorre nel caso in cui il giudice di merito abbia fondato il proprio convincimento su una prova che non esiste o su un risultato di prova obiettivamente ed incontestabilmente diverso da quello reale, non è affatto permesso dedurre il vizio del “travisamento del fatto”, stante la preclusione per il giudice di legittimità a sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito, e considerato che, in tal caso, si domanderebbe alla Cassazione il compimento di una operazione estranea al giudizio di legittimità, qual è quella di reinterpretazione degli elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini della decisione (così, tra le tante, Sez. 5, n. 39048 del 25/09/2007, ********, Rv. 238215).

3. Costituisce ius receptum nella giurisprudenza di questa corte il principio secondo il quale integra il reato di interruzione di un ufficio o servizio pubblico o di pubblica necessità anche la condotta che determini una temporanea alterazione, oggettivamente apprezzabile, della regolarità dell’ufficio o del servizio, coinvolgendone solamente un settore e non la totalità delle attività (così, tra le tante, Sez. 6, n. 36253 del 22/09/2011, ******, Rv. 250810; Sez. 5, n. 27919 del 06/05/2009, **********, Rv. 244337; Sez. 6, n. 334/09 del 02/12/2008, ******, Rv. 242370; Sez. 6, n. 35071 del 14/03/2007, ********, Rv. 238025).

Di tale regula iuris la Corte di appello di Palermo ha fatto buon governo, chiarendo come le prove acquisite avessero dimostrato che, quel giorno, presso gli uffici Inail della città siciliana era rimasto senz’altro inattivo il servizio di sportello amministrativo e di ricevimento del pubblico, evidentemente essenziale rispetto alle esigenze della utenza; e come fosse stato proprio il G., dopo aver dichiarato ai dipendenti, riunitisi in assemblea nella sua stanza, che quel pomeriggio “se ne sarebbero andati tutti”, ad impartire al personale della portineria l’ordine di far apporre il cartello di chiusura alla porta di ingresso dell’ufficio, che aveva impedito ai cittadini ivi recatisi di poter fruire dei servizi di varia natura previsti in loro favore.

4. Quanto alla prescrizione del reato, va rilevato come la stessa si sia maturata il 10/10/2011, dunque in epoca posteriore alla adozione della sentenza di appello, e non possa essere, pertanto, dichiarata in ragione dell’accertata inammissibilità del gravame.

Sul punto questo Collegio non ha motivo per disattendere il consolidato principio di diritto secondo il quale l’inammissibilità del ricorso per cassazione, non consentendo il formarsi di un valido rapporto di impugnazione, preclude ogni possibilità sia di far valere sia di rilevare di ufficio, ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen., l’estinzione del reato per prescrizione, persine se maturata in data anteriore alla pronunzia della sentenza di appello, ma non dedotta nè rilevata da quel giudice (così, da ultimo, Sez. U, n. 23428 del 22/03/2005, *******, Rv. 231164; Sez. U, n. 32 del 22/11/2000, *******, RV. 217266).

5. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento in favore dell’erario delle spese del presente procedimento ed al pagamento in favore della Cassa delle ammende di una somma, che si stima equo fissare nell’importo indicato nel dispositivo che segue.

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1,000,00 in favore della Cassa delle ammende.

Redazione