Condannato dal CSM, viene assolto dal reato di abuso di ufficio il magistrato che conferisce incarichi di consulenze tecniche con criteri non trasparenti (Cass. n. 7371/2013)

Redazione 25/03/13
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

In data 7 dicembre 2006 veniva inviato al Procuratore della Repubblica di Salerno e all’Ispettorato presso il Ministero della Giustizia un esposto di un sedicente arch. D.B., presidente di un’associazione di consulenti tecnici, rivelatasi poi inesistente, con cui si lamentavano criteri non trasparenti di assegnazione delle consulenze tecniche da parte della Procura di Castrovillari e denunciavano, in particolare, i numerosi conferimenti di incarichi da parte del p.m. ********** ad uno studio associato di ingegneri (Ga.- M.) presso il quale prestava attività professionale la di lui consorte Arch. G..

Nel giugno 2007 veniva eseguita ispezione ordinaria presso gli uffici giudiziari di Castrovillari e all’esito della stessa si accertavano comportamenti ritenuti non corretti del citato ********, relativi sia all’affidamento di incarichi allo studio sopra indicato, sia, persino, all’affidamento di incarichi all’arch. G., negli anni 2001-2003, quando già esisteva una relazione sentimentale, sia, infine, all’attribuzione di consulenze tecniche per attività rientranti tra i compiti del magistrato. Per tali vicende veniva esercitata azione disciplinare con una contestazione di più addebiti e all’esito del relativo giudizio il ******** veniva condannato per alcune delle elevate incolpazioni.

Nelle more dell’attività ispettiva, a seguito della trasmissione del citato esposto al Procuratore della Repubblica di Salerno e di alcuni accertamenti effettuati dal Procuratore generale di Catanzaro, veniva aperto un procedimento penale per il delitto di abuso di ufficio, essendo risultate alcune liquidazioni di consulenze non regolari e, in particolare, in misura eccedente a quanto sarebbe spettato agli incaricati professionisti, applicando il D.M. 30 maggio 2002.

All’esito delle indagini, però, il P.M. di Salerno escludeva l’esistenza del reato, evidenziando nella sua richiesta di archiviazione inviata al gip come, al più, i fatti potessero avere rilievo disciplinare. In data 30 aprile 2009 il Gip competente accoglieva la richiesta dell’inquirente disponendo l’archiviazione.

Sulla scorta della decisione del Gip – anche tenendo conto del riferimento ai possibili profili di rilevanza disciplinare evidenziati dal p.m. – veniva promossa su iniziativa del Ministero della giustizia azione disciplinare per sette casi in cui erano emerse violazioni dei criteri di liquidazione dei compensi ai consulenti tecnici. Nel corso dell’istruttoria, l’incolpato si difendeva eccependo, in limine, sia la decadenza dall’azione disciplinare, perchè promossa oltre il termine di un anno dalla notizia del fatto, sia la preclusione per precedente giudicato disciplinare e, nel merito, chiedendo il proscioglimento per non essere stata offerta prova alcuna delle incolpazioni contestate.

Il procuratore generale concludeva l’istruttoria, ottenendo la fissazione di udienza di discussione dinanzi il CSM. All’esito del giudizio, il rappresentante dell’accusa chiedeva la condanna alla censura mentre l’incolpato, ribadendo i precedenti argomenti difensivi, insisteva per il proscioglimento dall’imputazione.

Con sentenza n. 30 del 2012, depositata il 28 marzo 2012, la sezione disciplinare assolveva il ******** dalla incolpazione contestata per essere risultati esclusi gli addebiti.

La Sezione, preliminarmente, disattendeva sia l’eccezione di decadenza (l’azione era stata esercitata entro un anno dal decreto di archiviazione del Gip che riguardava episodi diversi da quelli rilevati in sede ispettiva), sia quella di precedente giudicato (i fatti in esame erano diversi da quelli oggetto del precedente procedimento disciplinare).

Nel merito, rilevava testualmente che “per configurare la responsabilità disciplinare dell’incolpato in ordine ai fatti ascritti sarebbe stato necessario dimostrare.. la sussistenza di comportamenti del Dott. C. idonei ad integrare le ipotizzate violazioni” mentre “.. questa prova…non è stata offerta… ed al di là del generico richiamo, nel capo di incolpazione, alle indagini penali concluse con il.. decreto di archiviazione., nel presente procedimento non è stato acquisito alcun documento.. dal quale poter desumere che l’incolpato, per ignoranza o negligenza inescusabile, abbia tenuto un comportamento illegale..”.

In assenza di prove assolveva quindi il ******** dall’incolpazione ascritta con la formula “per essere risultati esclusi gli addebiti”.

Avverso questa sentenza il Ministero della giustizia ha proposto ricorso sulla base di due motivi. Nè il C. nè la Procura generale presso la Corte di cassazione hanno svolto attività difensiva.

 

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo il Ministero deduce violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c), per inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità, in relazione all’omessa applicazione dell’art. 507 c.p.p..

Ad avviso del ricorrente, la sentenza della Sezione disciplinare sarebbe censurabile perchè, dopo aver rilevato l’assenza della prova delle contestazioni disciplinari, non ha attivato i doverosi poteri officiosi di integrazione della prova, previsti da una norma del codice di procedura penale (l’art. 507, appunto), applicabile nel giudizio disciplinare per essere, quest’ultimo, assoggettato espressamente alle regole del rito penale, ad eccezione di quelle che comportano l’esercizio di poteri coercitivi nei confronti dell’imputato, dei testimoni, dei periti e degli interpreti (D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 18, comma 4).

In particolare, essendo agevolmente individuabili e rinvenibili i documenti idonei a provare la responsabilità dell’incolpato (e, segnatamente, i decreti di liquidazione specificamente indicati nei capi d’accusa), la Sezione disciplinare del CSM avrebbe dovuto acquisirli, anche tenendo conto che l’incolpato mai aveva messo in discussione il fatto storico dell’emissione dei decreti di liquidazione contra legem, limitandosi, invece, a rilevare la loro mancata produzione in giudizio, ritenuta equivalente a difetto assoluto di prova dell’ipotesi accusatoria.

2. Con il secondo motivo il ricorrente Ministero denuncia violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), per mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, in relazione all’assenza di qualsivoglia esplicitazione delle ragioni alla base del mancato esercizio del potere di acquisizione d’ufficio dei documenti ritenuti necessari.

Con il motivo si contesta l’omissione di ogni motivazione da parte del giudice disciplinare sul mancato esercizio dei poteri officiosi di integrazione probatoria, che si risolverebbero in una nullità della sentenza e nella conseguente necessità di un rinvio al giudice di merito per un nuovo giudizio.

3. Il ricorso, i cui due motivi possono essere esaminati congiuntamente, è fondato e va accolto.

3.1. Occorre premettere che nel procedimento disciplinare riguardante i magistrati si applicano le norme del codice del rito penale sia nella fase delle indagini, D.Lgs. n. 109 del 2006, ex art. 16, sia nella fase della discussione nel giudizio, medesimo D.Lgs. n. 109, ex art. 18. Quest’ultima norma, poi, espressamente stabilisce al comma 3, lett. a), che la sezione disciplinare può “assumere, anche di ufficio, tutte le prove che ritiene utili”, dettando, quindi, una disposizione speciale circa i poteri istruttori officiosi, che sembra persino più ampia di quella contenuta nell’art. 507 c.p.p. (“terminata l’acquisizione delle prove, il giudice se risulta assolutamente necessario può disporre anche di ufficio l’assunzione di nuovi mezzi di prova”), mancando ogni riferimento allo stringente presupposto dell’”assoluta necessità”.

Non appare, quindi, dubitabile che la disposizione di cui all’art. 507 c.p.p., sia applicabile nei giudizi che si svolgono dinnanzi alla Sezione disciplinare del C.S.M..

Del resto, con riferimento al previgente ordinamento disciplinare, queste Sezioni Unite hanno avuto modo di affermare, come ricordato nel ricorso, che “il procedimento disciplinare nei confronti dei magistrati, così come quello penale, non soggiace alla regola dell’onere probatorio, e recepisce invece il principio della prevalenza del primato della ricerca della verità su ogni preclusione processuale; in particolare, in esso è applicabile l’art. 469 c.p.p. del 1930 nella fase svolgentesi davanti alla Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, che ha la facoltà di disporre d’ufficio nuove prove dopo l’esaurimento dell’istruttoria dibattimentale e anche all’esito della discussione a questa successiva” (Cass., S.U., n. 252 dell999).

3.2. Il problema è quindi quello di verificare a quali requisiti sia subordinata l’applicabilità della detta disposizione e se, in ordine al mancato esercizio del potere di assumere d’ufficio nuove prove il giudice, anche quello disciplinare, debba dare adeguata motivazione.

In proposito, occorre prendere le mosse da quanto affermato dalle Sezioni Unite penali di questa Corte nella sentenza n. 41281 del 2006, secondo cui “il giudice può esercitare il potere di disporre d’ufficio l’assunzione di nuovi mezzi di prova, previsto dall’art. 507 c.p.p., anche con riferimento a quelle prove che le parti avrebbero potuto richiedere e non hanno richiesto”.

A tale approdo le Sezioni Unite sono pervenute osservando, innanzi tutto, che è comunemente riconosciuto che il nuovo codice, pur richiamandosi ad un modello processuale che fa riferimento al c.d. “processo di parti” non ha tuttavia inteso accogliere integralmente il principio dispositivo che pur caratterizza questo tipo di processo. E l’art. 507 c.p.p., conferma come questa opzione nel processo penale non sia stata piena e incondizionata. Nella individuazione dell’ambito di applicazione dei poteri officiosi di natura probatoria del giudice, le Sezioni Unite hanno escluso che sull’assetto codicistico abbia influito la riforma dell’art. Ili della Costituzione, che ha accentuato esclusivamente quello che costituisce il principio fondante del processo accusatorio – la formazione della prova nel contradditorio delle parti – ma nulla ha innovato sul principio dispositivo che, pur essendo uno dei principi cui si ispirano i sistemi accusatori, non li caratterizza in modo così decisivo come i criteri che riguardano la formazione della prova. In particolare, si è rilevato che esso mira a consentire al giudice – che non si ritenga in grado di decidere per la lacunosità o insufficienza del materiale probatorio di cui dispone – di ammettere le prove che gli consentono un giudizio più meditato e più aderente alla realtà dei fatti che è chiamato a ricostruire; la norma mira, quindi, esclusivamente a salvaguardare la completezza dell’accertamento probatorio sul presupposto che se le informazioni probatorie a disposizione del giudice sono più ampie è più probabile che la sentenza sia equa e che il giudizio si mostri aderente ai fatti. Il che consente anche di eliminare l’equivoco secondo cui l’acquisizione d’ufficio delle prove da parte del giudice farebbe venir meno la sua terzietà.

Tale disposizione trova giustificazione anche in ciò che essa si inserisce in un sistema caratterizzato dall’obbligatorietà dell’azione penale che impone una costante verifica dell’esercizio dei poteri di iniziativa del pubblico ministero, e quindi anche delle sue carenze od omissioni. Una limitazione dei poteri probatori officiosi del giudice sarebbe idonea a vanificare il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale e si porrebbe in palese contraddizione con l’esistenza degli amplissimi poteri del giudice in tema di richiesta di archiviazione del pubblico ministero.

Il potere del giudice dovrà comunque essere esercitato nell’ambito delle prospettazioni delle parti e non per supportare probatoriamente una diversa ricostruzione che il giudice possa ipotizzare, fermo restando che, a seguito dell’iniziativa officiosa, resta integro il potere delle parti di chiedere l’ammissione di nuovi mezzi di prova – secondo la regola indicata nell’art. 495 c.p.p., comma 2, (prova contraria) – la cui assunzione si sia resa necessaria a seguito dell’integrazione probatoria disposta d’ufficio e, da diverso punto di vista, che l’esercizio dei poteri in deroga al principio dispositivo non fa venir meno l’onere del pubblico ministero di provare il fondamento dell’accusa e, tanto meno, l’obbligo per il giudice di rispettare i divieti probatori esistenti.

In conclusione, può affermarsi che, in relazione al fine primario ed ineludibile del processo penale, ossia la ricerca della verità, stante il principio di legalità cui è improntato l’ordinamento e quello di obbligatorietà dell’azione penale, il giudice ha l’obbligo di ricorrere al potere che l’art. 507 c.p.p., gli conferisce in ordine all’acquisizione anche d’ufficio di mezzi di prova, quando ciò sia indispensabile per decidere, non essendo rimessa alla sua mera discrezionalità la scelta tra disporre i necessari accertamenti e prosciogliere o condannare l’imputato. Egli, inoltre, ha un obbligo specifico di motivazione in ordine al mancato esercizio di tale potere – dovere e pertanto la mancanza di una adeguata giustificazione della propria condotta determina un vizio di motivazione lesivo della legge dal quale deriva la nullità della sentenza (Cass. pen., sez. 6^, n. 25157 del 2010; Cass. pen., sez. 3^, n. 44955 del 2007; Cass. pen., Sez. 5^, n. 38674 del 2005; Cass. pen., Sez. 3^, 5747 del 1997).

3.3. Orbene, nel caso di specie risulta evidente la violazione del disposto di cui all’art. 507 c.p.p..

La Sezione disciplinare ha invero testualmente ritenuto che “per configurare la responsabilità disciplinare dell’incolpato in ordine ai fatti ascritti sarebbe stato necessario dimostrare.. la sussistenza di comportamenti del Dott. C. idonei ad integrare le ipotizzate violazioni”, mentre “.. questa prova…non è stata offerta… ed al di là del generico richiamo, nel capo di incolpazione, alle indagini penali concluse con il.. decreto di archiviazione., nel presente procedimento non è stato acquisito alcun documento.. dal quale poter desumere che l’incolpato, per ignoranza o negligenza inescusabile, abbia tenuto un comportamento illegale..”.

In presenza di un capo di incolpazione che faceva riferimento non a generici atti posti in essere dal magistrato in violazione dei doveri di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. a) e g), ma che, al contrario, indicava esplicitamente i procedimenti penali nei quali le condotte oggetto di contestazione erano state tenute e il contenuto dei provvedimenti adottati, nonchè il fascicolo all’interno del quale gli stessi erano reperibili, con la specificazione dei profili che, nella prospettiva accusatoria, integravano gli illeciti contestati, la sezione disciplinare non poteva limitarsi a rilevare la mancata acquisizione dei documenti dai quali desumere un comportamento illegale dell’incolpato, ma avrebbe invece dovuto disporre, nell’esercizio dei poteri di cui all’art. 507 c.p.p., l’acquisizione dei documenti specificamente indicati e poi svolgere su di essi la propria valutazione; ovvero dare conto delle ragioni per le quali le rilevate lacune probatorie non sarebbero comunque state superabili attraverso l’esercizio del potere di cui alla menzionata disposizione.

4. Il ricorso va quindi accolto, dovendosi formulare il seguente principio di diritto: “nel giudizio disciplinare attribuito alla sua competenza, la Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura può esercitare il potere di disporre d’ufficio l’assunzione di nuovi mezzi di prova, previsto dall’art. 507 c.p.p., applicabile al giudizio disciplinare in virtù del rinvio di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 18, anche con riferimento a quelle prove che le parti avrebbero potuto richiedere e non hanno richiesto e, ove non si avvalga di tale potere, ha uno specifico obbligo di motivazione in ordine al mancato esercizio dello stesso”.

La sentenza impugnata va pertanto cassata, con rinvio alla Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura la quale, in diversa composizione, procederà a nuovo esame facendo applicazione dell’indicato principio di diritto.

Le spese del presente giudizio di legittimità vanno dichiarate non ripetibili.

P.Q.M.

La Corte, pronunciando a Sezioni Unite, accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, alla Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio delle Sezioni Unite Civili della Corte Suprema di Cassazione, il 20 novembre 2012.

Redazione