Condanna penale, patteggiamento, divieto all’esercizio dell’attività commerciale (Cons. Stato, n. 4921/2013)

Redazione 07/10/13
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FATTO

Con determinazione dirigenziale n. 24929 del 2 marzo 2001 il Comune di Padova, all’esito del relativo procedimento ed in applicazione dell’allora vigente art. 5 del D.Lgs. n. 114 del 1998 (recante “requisiti per l’accesso all’attività commerciale”), disponeva la chiusura dell’attività svolta dalla società ******** & ********* (nel prosieguo Ruzzante).

Ciò sulla scorta del fatto che, in data 8 giugno 1999, il G.I.P. del Tribunale di Padova aveva emesso a carico del legale rappresentante della società , sentenza ex art. 444 c.p.p., per fatti concernenti il reato di bancarotta fraudolenta.

Successivamente alla notificazione del citato provvedimento, in data 30 aprile 2001, la ******** comunicava all’Amministrazione di aver provveduto alla sostituzione del legale rappresentante.

Trattandosi di circostanza idonea a far venir meno la condizione ostativa alla prosecuzione dell’attività commerciale, il Dirigente, con provvedimento del 10.05.2001, revocava l’ordinanza di chiusura.

Tuttavia con ricorso notificato in data 4.05.2001 la ******** – considerato che all’originario legale rappresentante era stata concessa la sospensione condizionale della pena – adiva il Tar Veneto per ottenere l’annullamento dell’ordinanza di chiusura del 2 marzo 2001, deducendo per quanto qui rileva :

– la violazione dell’art. 166 c.p., che vieterebbe di inibire l’esercizio dell’attività commerciale nel caso in cui la pena sia stata sospesa condizionalmente ( secondo motivo ) ;

– che la sentenza ex art. 444 c.p.p. non avrebbe potuto essere assunta a presupposto per l’emissione del provvedimento in contestazione, adottabile solo in caso di sentenza di condanna , secondo quando previsto dall’art. 5 del D.Lgs. n. 144/1998 ( terzo motivo ) .

Si costituiva il Comune di Padova eccependo l’inammissibilità del gravame (avendo la ******** prestato, a mezzo della sostituzione del legale rappresentante, acquiescenza all’ordinanza di chiusura), la sua improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse (proprio in considerazione dell’intervenuta revoca) e, comunque, l’infondatezza nel merito.

Con sentenza n. 1978/ 2001 il primo giudice accoglieva l’eccezione di improcedibilità del ricorso, ma, “allo scopo di provvedere secondo giustizia sulle spese del giudizio in base al principio della soccombenza virtuale […], sia per fornire all’autorità emanante un’indicazione diretta anche ad evitare in futuro il ripetersi di eventuali illegittimità” rilevava la (ipotetica) fondatezza della terza censura ( concernente la non equiparabilità della sentenza di condanna, alla quale farebbe riferimento l’art. 5 del D.Lgs. n. 114/1998, alla sentenza emessa all’esito del rito del patteggiamento) e , conseguentemente, condannava il Comune di Padova a rifondere alla ******** le spese di lite, liquidate nella complessiva misura di Lire 2.000.000, oltre accessori.

Avverso detta sentenza il Comune di Padova ha quindi interposto l’odierno appello,chiedendone la riforma nella parte in cui ha dichiarato la soccombenza virtuale della stessa in relazione al terzo motivo di ricorso , con condanna alla rifusione delle spese di lite.

Si è costituita in giudizio la ********, chiedendo il rigetto del ricorso e proponendo altresì appello incidentale, per sentire pronunciata anche la fondatezza del secondo motivo di ricorso dedotto in primo grado.

Alla pubblica udienza del 30 aprile 2013, la causa è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO

1. Con tre distinti motivi di appello, che possono essere trattati congiuntamente attesa la loro sostanziale unicità logico- giuridica, il Comune di Padova deduce l’erroneità della gravata sentenza laddove , attraverso richiami giurisprudenziali giudicati inconferenti , ha ritenuto la non equiparabilità tra la sentenza di condanna e quella emessa all’esito del giudizio di patteggiamento di cui agli artt. 444 e 445 c.p.p.

Sostiene, al riguardo, che l’art. 5 del D.Lgs. n. 114/1998 (oggi art. 71 del D.Lgs. 59/2010) precluderebbe l’esercizio di attività commerciali a coloro che abbiano riportato una condanna a pena detentiva con sentenza passata in giudicato, senza che in proposito rilevi la natura della sentenza.

Tale assunto, aggiunge, sarebbe corroborato dalle circolari in date 22.07.1997, 4.08.2000 e 27.06.2001 emanate dal Ministero dell’Industria e dell’Artigianato, nonché da quella del Ministero della Giustizia in data 9.03.2001, tutte nel segno di riconoscere che nella nozione di condanna di cui al citato art. 5 del D.Lgs. 114/1998 rientri anche quella emessa su richiesta delle parti.

2. La doglianza merita accoglimento.

3. Ed invero, ai sensi dell’art. 5, comma 2, lett. c, del D.Lgs. 114/1998 (applicabile alla fattispecie ratione temporis), non possono esercitare l’attività commerciale, salvo che abbiano ottenuto la riabilitazione, “coloro che hanno riportato una condanna a pena detentiva, accertata con sentenza passata in giudicato, per uno dei delitti di cui al titolo II e VIII del libro II del codice penale, ovvero di ricettazione, riciclaggio, emissione di assegni a vuoto, insolvenza fraudolenta, bancarotta fraudolenta, usura, sequestro di persona a scopo di estorsione, rapina”.

È pacifico in causa che l’originario legale rappresentante della ******** abbia subito una condanna, con sentenza passata in giudicato, per il reato di bancarotta fraudolenta.

La controversia si incentra , quindi, nel chiarire se l’emissione di una sentenza secondo il rito del patteggiamento, in cui manca un giudizio formale di accertamento del fatto di reato, possa costituire o meno presupposto per l’irrogazione, da parte della P.A., del divieto all’esercizio dell’attività commerciale.

Osserva al riguardo il Collegio che ,ai sensi dell’art. 445 c.p.p., “la sentenza prevista dall’articolo 444, comma 2, anche quando è pronunciata dopo la chiusura del dibattimento, non ha efficacia nei giudizi civili o amministrativi. Salve diverse disposizioni di legge, la sentenza è equiparata a una pronuncia di condanna”.

Dal tenore letterale della citata disposizione, quindi, emerge chiaramente la volontà del legislatore di escludere l’efficacia della sentenza patteggiata solo nell’ambito dei giudizi civili ed amministrativi, restando, per converso, ferma la sua equiparazione alla pronuncia di condanna ad ogni altro fine.

In altri termini, la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti non può essere posta dal giudice civile o amministrativo a fondamento di pronunce che postulino l’accertamento del fatto (cfr. Corte Cost., 11 dicembre 1995, n. 499), né può spiegare effetti penali che siano subordinati a detto accertamento, in quanto priva dell’autorità propria del giudicato sostanziale, ma è “del tutto equivalente alla condanna ordinaria, in mancanza di una disposizione che lo escluda espressamente, rispetto a quegli effetti extrapenali che l’ordinamento automaticamente ricollega al fatto giuridico della condanna, indipendentemente dai presupposti e dalle modalità procedimentali con cui sia stata adottata”(Cons. Stato, Sez. IV, 18 giugno 2009, n. 4006).

Ed una siffatta espressa esclusione non è rinvenibile nell’art. 5 del D.Lgs. 114/1998.

Il Collegio, pertanto, non ha, motivo di discostarsi dall’insegnamento giurisprudenziale ormai consolidato e coerente al citato dato normativo , secondo cui “quando una norma assume l’esistenza di una condanna penale come presupposto (più o meno vincolante) per l’adozione di un provvedimento amministrativo, ovvero quale preclusione all’esercizio di determinate facoltà o diritti, a questi fini vale come sentenza di condanna anche quella emessa a seguito di patteggiamento” ( cfr. da ultimo e per tutte : Cons. Stato, Sez. III, 27 marzo 2012, n. 1781).

Ne consegue la fondatezza dell’appello principale interposto dal Comune di Padova,atteso che erroneamente il Tar , per l’applicazione dell’art. 5 del D.Lgs. 114/1998, non ha ritenuto la piena equiparabilità tra la sentenza di condanna e quella emessa su richiesta delle parti.

4. L’appello incidentale proposto dalla ******** si appalesa , viceversa , privo di fondamento.

5. Assume quest’ultima, che il Tar avrebbe dovuto pronunciare la soccombenza virtuale del Comune di Padova anche con riferimento al secondo motivo di ricorso di primo grado, posto che la chiusura dell’esercizio commerciale sarebbe stata imposta in violazione dell’art. 166 c.p., a tenore del quale “la condanna a pena condizionalmente sospesa non può costituire in alcun caso, di per sé sola, motivo per l’applicazione di misure di prevenzione, né d’impedimento all’accesso a posti di lavoro pubblici o privati tranne i casi specificamente previsti dalla legge, ne’ per il diniego di

concessioni, di licenze o di autorizzazioni necessarie per svolgere attività lavorativa”.

6. La doglianza non ha pregio .

7. Ed invero, il quarto comma dell’art. 5 del D.Lgs. 114/1998 prevede che il divieto di esercizio dell’attività commerciale, “permane per la durata di cinque anni a decorrere dal giorno in cui la pena è stata scontata o si è in altro modo estinta, ovvero, qualora sia stata concessa la sospensione condizionale della pena, dal giorno del passaggio in giudicato della sentenza”.

Alla luce della sopra riportata disposizione, pertanto, non v’è dubbio alcuno che la norma generale di cui all’art. 166 c.p. – che fa salva l’esistenza di deroghe espressamente previste dalla legge – non operi con riferimento allo specifico settore degli esercizi pubblici commerciali.

Ed al riguardo va altresì rilevato che, chiamato ad esprimersi sulla compatibilità dell’art. 2, comma 5, della L. 287/1991 (previgente all’art. 5 del D.Lgs. 114/1998, ma di identico contenuto) rispetto agli artt. 3 e 35 della Carta fondamentale, il Giudice della Leggi – vista la specificità del settore de quo ed il particolare legame che sussiste tra la tipologia di attività svolta dagli esercenti ed i reati in relazione ai quali l’effetto impeditivo è imposto – ha chiarito che la previsione secondo cui la sospensione condizionale della pena non vale ad escludere il diniego di concessione, di licenza o di autorizzazione necessarie per lo svolgimento dell’attività lavorativa è compatibile con la Costituzione ( cfr. Corte Cost. 16 marzo 2001, n. 72 ).

Pertanto, la sentenza di patteggiamento per bancarotta fraudolenta riportata dall’originario legale rappresentante della ********, ancorchè condizionalmente sospesa, era senz’altro presupposto idoneo ad inibire l’esercizio dell’attività commerciale, come correttamente ritenuto dall’amministrazione comunale.

8. In conclusione l’appello principale è fondato e come tale va accolto per quanto di interesse , mentre l’appello incidentale è da respingere siccome privo di fondamento .

9. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta) definitivamente pronunciando:

1) respinge l’appello incidentale proposto dalla ********;

2) accoglie l’appello principale proposto da Comune di Padova e per l’effetto, in parziale riforma della sentenza gravata, rigetta il terzo motivo del ricorso di primo grado, confermando per il resto la sentenza di primo grado in ordine alla dichiarata improcedibilità del ricorso medesimo;

3) condanna la Ruzzante al pagamento, in favore dell’appellante Comune di Padova, delle spese e degli onorari delle due fasi del giudizio, che si liquidano in euro 5.000,00 (cinquemila/00), oltre accessori di legge.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 30 aprile 2013

Redazione