Concorso nel reato per la moglie che durante una perquisizione nasconde la cocaina tenuta in casa dal marito (Cass. pen. n. 35641/2012)

Redazione 18/09/12
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Ritenuto in fatto

-1- D.F.R. propone ricorso per cassazione, per il tramite del difensore, avverso la sentenza della Corte d’Appello di Napoli, del 30 settembre 2010, che ha confermato la sentenza del Gup del locale tribunale, del 10 dicembre 2009, che l’ha ritenuta colpevole – in concorso con G.C., imputato non ricorrente – del delitto di cui all’art. 73 del d.p.r. n. 309/90 – per avere detenuto, a fini di spaccio, sostanza stupefacente del tipo cocaina, dalla quale avrebbero potuto ricavarsi 187,4 dosi singole – e l’ha condannata, riconosciute le circostanze attenuanti generiche con giudizio di equivalenza rispetto alla recidiva reiterata contestata, alla pena di quattro anni di reclusione e 20.000,00 Euro di multa.
-2- Deduce la ricorrente violazione di legge e vizio di motivazione della sentenza impugnata in punto di affermazione della responsabilità.
Si sostiene nel ricorso che la condotta della D.F. potrebbe solo integrare la fattispecie delittuosa di cui all’art. 379 cod. pen., che sanziona chi aiuti taluno ad assicurarsi il prodotto del reato. Tesi neanche presa in considerazione dalla corte territoriale che, peraltro, con motivazione illogica, da un lato ha escluso il concorso della D.F. nella detenzione della droga fino al momento dell’arrivo dei carabinieri, dall’altro, ha ritenuto la successiva condotta della stessa come di agevolazione al mantenimento, da parte del marito, di quello stupefacente.

 

Considerato in diritto

Il ricorso è manifestamente infondato.
In realtà, il giudice del gravame, a fronte delle difese articolate nei motivi d’appello dalla D.F. , che aveva sostenuto: a) di non avere in nessun modo concorso nella detenzione dello stupefacente rinvenuto nell’abitazione coniugale posto che la stessa, svolgendo attività di lavoro a Caserta, si tratteneva fuori dall’abitazione dalle ore 7 del mattino alle ore 19 di tutti giorni, b) di avere tentato di occultare il sacchetto contenente la droga, ignorandone il contenuto, solo per aderire alla richiesta del G.;
a fronte di tali argomentazioni difensive, dunque, detto giudice ha legittimamente sostenuto che, indipendentemente dal concorso della donna nella detenzione dello stupefacente prima dell’intervento della polizia giudiziaria (la relativa condotta non è stata quindi esclusa dalla corte territoriale, ma solo ritenuta superata dal successivo comportamento della D.F.), l’atteggiamento tenuto al momento di detto intervento dall’imputata (che aveva inizialmente occultato all’interno del pigiama il sacchetto contenente la droga che ad ogni movimento della donna produceva un preciso rumore, che aveva poi tentato, essendone impedita dall’intervento dei militari, di andare in bagno tenendo il sacchetto occultato sulla propria persona, che si era rifiutata di farsi perquisire simulando un malore, che si era infine rimessa a letto coprendosi per nascondere l’occultamento dell’involucro sotto il cuscino, ove poi era stato rinvenuto) di per sé integrava una condotta certamente riconducibile nell’ambito della fattispecie delittuosa contestata. Ciò in considerazione del rilevante contributo causale apportato dalla donna, con quella condotta, al mantenimento della detenzione della droga da parte del G.
Sotto il profilo psicologico, poi, la corte territoriale ha inoltre rilevato che la multiforme e protratta condotta dissimulatoria posta in essere dalla donna appariva incompatibile, da un lato, con l’asserita ignoranza del contenuto del sacchetto ove è stava rinvenuta la droga, dall’altro, con un atteggiamento di semplice passiva obbedienza ad un ordine impartitole dall’uomo.
L’odierna ricorrente, dunque, secondo il coerente argomentare della corte territoriale, ha concorso nell’attività delittuosa del marito quantomeno attraverso le articolate, variegate e ripetute condotte dirette all’occultamento della droga e ad assicurarne il possesso al marito.
Considerazioni ed argomentazioni coerenti in piano logico, oltre che rispettose delle norme di riferimento, che si presentano del tutto in sintonia con le emergenze probatorie e con i principi affermati da questa Corte in tema configurabilità del delitto di favoreggiamento, laddove si è condivisibilmente sostenuto che l’aiuto prestato “in corso d’opera” rientra nella fattispecie del concorso di persona nel reato, e non del favoreggiamento, purché vi sia la consapevolezza di contribuire anche in minima parte alla realizzazione di una più articolata “fattispecie” (Cass. nn. 4243/1997, in un caso in cui l’imputata, sorpresa nell’auto condotta dal complice, aveva nascosto la sostanza stupefacente nel reggiseno) e n. 22394/2008; ed ancora (Cass. n. 12915/2006), che “Il reato di favoreggiamento non è configurabile, con riferimento al delitto di illecita detenzione di sostanza stupefacente, in costanza di detta detenzione, atteso che nei reati permanenti qualunque agevolazione del colpevole, prima che la condotta di questi sia cessata, si risolve inevitabilmente in un concorso, quanto meno a carattere morale” (Nella fattispecie l’imputata aveva nascosto, all’arrivo della polizia, la droga detenuta in casa dal convivente).
D’altra parte, nel ricorso si sostiene, in particolare, che la corte del merito non abbia affrontato il tema della qualificazione giuridica della condotta ascritta all’imputata. Censura in realtà manifestamente infondata, atteso che, attraverso le richiamate considerazioni, la stessa corte ha ritenuto di qualificare quella condotta in termini di partecipazione piena e consapevole della donna nella condotta delittuosa ascritta al G.
Ove poi la censura dovesse attenere alla mancata valutazione dell’ipotesi del favoreggiamento, dovrebbe rilevarsi che la questione non ha formato oggetto dei motivi d’appello, secondo quanto è possibile trarre dalla lettura della sentenza impugnata. È vero che il giudice d’appello può, anche d’ufficio, diversamente qualificare la condotta contestata, ma è anche vero che nel caso in esame uno specifico intervento d’ufficio non può esser richiesto poiché, avendo la corte territoriale chiaramente ribadito la qualificazione dei fatti nei termini già indicati dal primo giudice, ha implicitamente escluso qualsiasi ipotesi di diversa qualificazione dello stesso, e che la stessa corte, d’altra parte, non aveva l’obbligo di affrontare specificamente la tesi del favoreggiamento, posto che detto tema non risulta essere stato sollevato nei motivi d’appello.
Alla manifesta infondatezza del ricorso consegue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma, in favore della cassa delle ammende, che si ritiene equo determinare in Euro 1.000.00.

 

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000.00 in favore della cassa delle ammende.

Redazione