Concorso esterno: indispensabile un contributo causale alla realizzazione della fattispecie incriminatrice (Cass. n. 15727/2012)

Redazione 24/04/12
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Svolgimento del processo Hanno proposto ricorso per cassazione D.M. e il Procuratore ******** presso la Corte di appello di Palermo, sia avverso ordinanze dibattimentali in tema di rinnovazione della istruttoria ex art. 603 c.p.p. che contro la sentenza della Corte di appello di Palermo in data 29 giugno 2010 (dep. il 18 novembre 2010) con la quale è stata riformata quella di primo grado e per l’effetto è stata -dichiarata assorbita la imputazione ascritta al capo A), in quella di cui al capo B), – pronunciata assoluzione, limitatamente alle condotte contestate come commesse dopo il (omissis), perchè il fatto non sussiste e -ridotta la pena per la fattispecie residua ad anni sette di reclusione.

D. (tratto a giudizio unitamente a C.G., deceduto nelle more fra il giudizio di primo e secondo grado), con sentenza del Tribunale di Palermo dell’11 dicembre 2004, era stato dichiarato colpevole in ordine ai reati contestati come segue:

– Capo A): per il periodo decorso da epoca imprecisata fino al 28 settembre 1982, concorso eventuale (o c.d. esterno) nella associazione per delinquere ex art. 416 c.p., commi 1, 4 e 5, denominata Cosa nostra, mettendo a disposizione della stessa l’influenza e il potere derivante dalla sua posizione di esponente del mondo finanziario e imprenditoriale, in tal modo partecipando al mantenimento ed al rafforzamento, oltre che alla espansione della associazione medesima: ciò attraverso la partecipazione a incontri con esponenti anche di vertice di cosa nostra, e intrattenendo, tramite essi (ossia tramite B.S., T.G., P.I., P.G., M.V., C.G., D.N.G., D.N.P., G. R. e R.S.), rapporti continuativi con la associazione e quindi determinando nei capi di Cosa nostra la consapevolezza della assunzione di responsabilità, da parte del D. medesimo, di assumere condotte volte ad influenzare, a vantaggio della associazione per delinquere, soggetti operanti nel mondo istituzionale e imprenditoriale.

La associazione era stata contestata come armata ed aggravata dal numero dei partecipanti;

– Capo B) per il periodo trascorso dal 28 settembre 1982 ad oggi, concorso esterno nella associazione mafiosa Cosa nostra ex art. 416 bis c.p., commi 1, 4 e 6, con condotte analoghe a quelle descritte sopra. Il reato era stato aggravato dallo “scorrere in armi” e dal finanziamento delle attività del sodalizio con il provento dei delitti.

D., al pari del C. è stato condannato in primo grado anche al risarcimento del danno in favore delle Parti civili costituite Provincia di Palermo e Comune di Palermo, da liquidarsi in separato giudizio, rigettandosi le richieste di pagamento di provvisionale.

Nella sentenza di primo grado – come ripercorsa in quella di appello – era stato analizzato il comportamento di D. ritenuto rilevante ai fini dell’accusa di concorso eventuale in associazione mafiosa, con riferimento all’arco temporale compreso trai primi anni 70 fino al 1998, giungendosi alla conclusione che fossero individuabili due fondamentali filoni investigativi e di responsabilità.

Il primo era rimasto caratterizzato dai comprovati rapporti di D. – come da imputazione – con B., T., M. e C. nonchè dall’attività di mediazione che il D. stesso aveva svolto con perseveranza, col coordinamento di C., tra il sodalizio criminoso menzionato e gli ambienti imprenditoriali e finanziari di Milano, con particolare riferimento al gruppo Fininvest.

Era rimasta, contestualmente, dimostrata la funzione di garanzia svolta nei confronti di B.S. il quale temeva sequestri a danno proprio e dei propri familiari, nella metà degli anni 70: funzione realizzata facendo assumere da B., in una posizione di gestione del detto servizio da espletarsi alla (omissis), M.V. di cui l’imputato conosceva lo spessore criminale, ottenendo l’avallo di B. e T., all’epoca esponenti mafiosi di spicco a Palermo.

In terzo luogo si ritenevano comprovati i rapporti tra D. e M., con la intermediazione di C., anche in epoche successive quando M. era assurto ad un ruolo di vertice della organizzazione mafiosa (capo del mandamento palermitano di Porta Nuova); ad esso il D. aveva manifestato la disponibilità concreta a consentire al sodalizio lauti incassi, frutto di estorsioni a danno di B.S., ottenendo a sua volta da M. dei favori (come nella vicenda, di cui si dirà, relativa a tal ga.). Tale assunto accusatorio sarebbe stato poi confermato in appello e avrebbe costituito l’oggetto dei motivi di ricorso della difesa di D..

Il secondo filone investigativo e di responsabilità, individuato dal Tribunale, era stato quello relativo al concorso eventuale che, invece, avrebbe preso corpo, nel periodo successivo alla fine del 1992, attraverso la promessa, da parte di D., alla associazione mafiosa Cosa nostra, di appoggi in ambito politico anche con riforme nel settore giudiziario.

L’imputato aveva peraltro anche continuato a svolgere attività di mediazione fra la associazione mafiosa e Fininvest nei momenti critici dei rapporti tra le due organizzazioni (il riferimento è alla vicenda degli attentati ai magazzini (omissis), di cui pure si dirà).

Ebbene, tale seconda parte della ricostruzione dei comportamenti di D. ritenuti dal Tribunale di rilievo ai sensi degli artt. 110 e 416 bis c.p., non è stata viceversa convalidata dalla Corte di appello che ha pronunciato, al riguardo, assoluzione parziale, con decisione le cui argomentazioni hanno formato oggetto dei motivi di ricorso del Procuratore generale.

E’ utile ricordare che l’accusa originaria (peraltro di partecipazione ad associazione) era stata ritenuta provata anche nei confronti di C., sebbene costui non fosse mai stato formalmente combinato: un soggetto di fatto ritenuto dai giudici componente della famiglia mafiosa del quartiere palermitano di *********, in costanti rapporti con numerosi personaggi di Cosa nostra che confidavano proprio sul rapporto privilegiato del C. col D., ritenuto così raggiungibile per l’intrattenimento dei rapporti con B.. Il Tribunale aveva ritenuto che vi fossero prove rassicuranti del fatto che C. avesse riscosso somme pagate a titolo estorsivo da Fininvest a Cosa nostra e partecipato alla assunzione di M., con l’avallo dei capimafia B. e T..

L’origine dei rapporti di conoscenza tra D., C., M. e B. era stata ricostruita, dal Tribunale, nei seguenti termini. D. aveva frequentato l’Università statale di Milano con B. negli anni 60. Poi aveva fatto ritorno a Catania dove aveva cominciato a lavorare per la Cassa di risparmio e aveva ripreso i rapporti con la società calcistica **********, da esso stesso fondata anni prima. In tale ambiente aveva conosciuto C. – che era il padre di uno dei ragazzi frequentanti – e M.. Quindi, nell’agosto del (omissis) B. aveva proposto al D. di svolgere mansioni alle sue dipendenze e per tale ragione l’imputato, agli inizi del 1974, si era nuovamente trasferito a (omissis), assunto alla Edilnord. Era stato officiato quindi dell’incarico di seguire i lavori di restauro della villa di (omissis), nel frattempo acquistata da B. e, in quel periodo, era stato raggiunto da M., assunto presso la Villa con la sua stessa intermediazione (in tal senso venivano citate, dal Tribunale, le dichiarazioni di B. al GI di Milano del 26 giugno 1987 e la conferma di D. al PM il 26 giugno 1996).

Il senso della presenza di M. era ravvisato, dal Tribunale, nella capacità di costui di assicurare “garanzia” a B. circa la incolumità dei familiari: a fondamento del proprio convincimento il Tribunale citava lo spessore criminale del M. e il fatto che, dopo il suo allontanamento da (omissis), era stato predisposto da B. un apposito servizio di sicurezza privata.

Anche in ordine al personaggio C. il Tribunale ricostruiva i legami da quello stretti, attraverso matrimoni, con esponenti al vertice della organizzazione mafiosa.

Sulla figura del M. e della sua rilevanza nella specifica ottica della accusa mossa al D. nel presente processo, la sentenza di primo grado aveva evidenziato – come ricordato nella sentenza impugnata – gli elementi acquisiti a dimostrazione della realizzazione di una riunione di vertice, tra B. ed esponenti di spicco di Cosa Nostra, propiziata da D. con la complicità del fido amico C., riunione nel corso della quale sarebbe stato raggiunto tra le parti un accordo di vicendevole interesse: quello alla assicurazione di protezione per la famiglia di B. e quello alla instaurazione di relazioni con evidente prospettiva patrimoniale per cosa nostra.

Il primo elemento probatorio al riguardo è costituito, nell’impianto della sentenza di primo grado, dalle dichiarazioni sul punto rese dal collaboratore D.C.F. (del luglio 1996, all’indomani dell’arrivo in Italia). Costui aveva cominciato col raccontare la occasione della conoscenza, dapprima, con D. presentatogli dal comune amico C. a (omissis) e di avere, in seguito,constato che D. conosceva già B.S. e T.M., circostanza questa – peraltro – sempre negata da D..

Era cioè accaduto che egli aveva ricevuto da Bo. e T., incontrati a (omissis), l’invito per un incontro a (omissis) (ricostruito come avvenuto nel maggio 1974) e colà era stato ulteriormente accompagnato ad un appuntamento di quelli con D. e con un industriale di nome B., in precedenza mai conosciuto.

Tale incontro si era effettivamente svolto, alla presenza cioè di D., B., C., B. e T. ed aveva avuto ad oggetto la garanzia che B. si impegnava a fornire a B., su sollecitazione di D., mandando qualcuno :

tale soggetto era stato indicato, da C., nel momento in cui si allontanava con gli altri dal luogo dell’appuntamento, in M., ossia un soggetto noto per l’appartenenza alla famiglia di Porta Nuova aggregata a quella di B..

Il riscontro alle dichiarazioni del D.C. era dato – secondo il Tribunale – innanzitutto dalla esistenza dell’edificio in cui il descritto incontro con B. si sarebbe tenuto.

Il secondo riscontro era costituito dalle dichiarazioni del collaboratore G.A. (ritenute genuine nonostante il periodo di detenzione trascorso assieme a D.C.); il G., nipote del boss mafioso G.R., aveva riferito di avere saputo dal cugino G.D. che costui (in sostituzione del padre detenuto e quale reggente del mandamento della Noce), aveva partecipatene 1986, ad una riunione con altri esponenti mafiosi e con il C..

Ebbene il C. aveva raccontato a G.D. della preoccupazione manifestatagli da D., qualche anno prima, a (omissis), per il rischio di sequestri corso da B..

Ne era seguita la informativa, tramite i parenti di C. – i Ci. – a B. che aveva propiziato un incontro a (omissis) con C. e T.M., incontro nel quale era stata data, appunto, la garanzia richiesta da B. e prospettato, a tale fine, rinvio di M..

Altre dichiarazioni, sopravvenute, di D.C. rese successivamente su altri incontri avuti da D. con B. e tale Mi., esponente del mandamento di Partanna, venivano invece ritenute non idonee come prove di fatti illeciti.

Il terzo riscontro alle dichiarazioni di D.C. era rappresentato da quelle di Cu.Sa., uomo d’onore dal 1975, rifluito nella famiglia mafiosa del mandamento di Porta Nuova presso la quale aveva conosciuto M. che, dopo la detenzione patita fino al 1994, aveva affiancato nella reggenza. Ebbene il Cu., detenuto assieme al M. tra il 1983 e il 1990, ne aveva raccolto le confidenze venendo a sapere che egli era stato autore, negli anni 70, di attentati dinamitardi ai danni di B., per convincerlo a ricorrere alla protezione della mafia: e tale suo disegno si era appunto concretizzato quando, con la mediazione di C. che conosceva D., era riuscito nell’intento di farsi assumere come fattore alla (omissis). Da questa si era allontanata nel dicembre 1974, dopo il fallito sequestro del principe D’..

Aveva anche parlato delle somme (L. 50 milioni) che B. pagava alla mafia versandole a M. che le faceva pervenire al mandamento di Santa ***** del Gesù.

Di tali somme di danaro aveva parlato anche altro uomo d’onore Sc.Fr., per averlo saputo, in carcere, nel 1988/1989, da M. stesso che si era lamentato del comportamento, nei suoi confronti scorretto, da parte di uno dei fratelli P., anch’essi uomini d’onore (famiglia S.Maria del Gesù).

Altro riscontro delle dichiarazioni di D.C. proveniva, secondo il Tribunale, da ******, uomo d’onore di Porta nuova, che aveva appreso dal suo superiore, L.G., delle trasferte a (omissis) effettuate da M. per conto di B..

Infine il Tribunale aveva limitatamente valorizzato le dichiarazioni di Ra.Fi., soggetto che aveva assunto il D. alle proprie dipendenze dalla fine del 1977 e che aveva pure riferito della mediazione che l’imputato (oltretutto presentatogli da C. con richiesta di assunzione) aveva svolto tra B. e i mafiosi. Peraltro il Tribunale aveva escluso che vi fossero prove della intromissione di D. in attività di riciclaggio di denaro per conto di Ra. o di altri.

Tutti quelli indicati erano gli elementi di prova che, a parere del Tribunale, valevano a sostanziare l’accusa, mossa al D., di avere mediato assieme al C., creando un canale di collegamento tra B. e B., all’epoca esponente di massimo rilievo del sodalizio Cosa nostra, per rafforzare il sodalizio stesso.

Erano gli anni infatti, nei quali concreto ed attuale era il rischio di sequestri di persona come avevano riferito collaboratori del livello di Ma. G., **. G. e gi. A.. E il M., rimasto coinvolto in una iniziativa di tale genere, sia pure ai danni di altro soggetto ( D’.), era stato per questo allontanato da (omissis) a partire da gennaio 1975.

Proprio a M., del resto, B. e D., nel corso di un colloquio telefonico intercettato nel 1986 – quando cioè era stato realizzato un attentato dinamitardo ad una villa di B. – avevano pensato riguardo alla responsabilità per un precedente attentato, alla medesima villa, – risalente al 1975.

I rapporti di D. con M. erano proseguiti anche dopo l’allontanamento da (omissis), come dimostrava un pranzo tra i due nel 1976, pranzo raccontato dal pentito c.A..

Altra dimostrazione della prosecuzione delle relazioni in contestazione veniva tratta dalla telefonata avvenuta il 14 febbraio 1980 tra M. (soggiornante all’Hotel (omissis)) e D.: il M. era stato poi arrestato nel maggio di quello stesso anno assieme a numerosi altri esponenti di Cosa nostra per imputazioni concernenti anche il traffico di sostanze stupefacenti.

Il D., rimasto coinvolto nella indagini a causa della detta telefonata, aveva poi visto stralciare la propria posizione e venire prosciolto dal GI di Milano con sentenza del 24 maggio 1990.

Tornando alle dichiarazioni di D.C., il Tribunale aveva segnalato – a dimostrazione della prosecuzione dei rapporti di D. con gli ambienti mafiosi in esame – come esse contenessero il riferimento anche alla partecipazione del D. al matrimonio di tale Fa.Gi. con una cittadina inglese, matrimonio celebrato a (omissis). Ebbene al detto matrimonio il D. aveva partecipato, a suo dire, su invito del C., essendo presente il D.C. stesso e anche T. M..

Il Tribunale era poi passato ad analizzare la evoluzione dei rapporti tra gruppo Fininvest e Cosa nostra, dopo la uccisione di B. ((omissis)) e il passaggio della posizione di comando in capo a R.S..

Fininvest aveva, poco prima della morte di B., avviato la acquisizione delle emittenti televisive in Sicilia, necessarie per la diffusione dei programmi su tutto il territorio nazionale.

E D., secondo le dichiarazioni di D.C. aveva chiesto a C. la “messa a posto” per la installazione dei ripetitori. Ne era seguito l’interessamento dei capi B. e T..

Tre collaboratori di giustizia ( g. C., A. e G. A.), tutti uomini d’onore della famiglia della Noce, avevano parlato delle somme pagate da Fininvest per la vicenda delle antenne.

Era stato registrato anche un atteggiamento particolarmente prepotente dei fratelli P. che vessavano con ulteriori richieste il D. e di tanto C. aveva fatto in modo che fosse investito direttamente R.. Il risultato era stato che C. era stato designato da R. esattore delle somme, per riscuotere le quali si recava a (omissis) due volte l’anno.

In particolare G. aveva riferito delle lamentele esternate da C., durante un incontro avvenuto a dicembre (omissis), perchè D. sarebbe divenuto scostante e scortese nei suoi confronti, ragione per la quale egli non intendeva più recarsi a (omissis) a riscuotere.

Il Tribunale aveva individuato, tra gli altri, un particolare riscontro a tale affermazione in una telefonata intercettata tra C. e D.A. (fratello dell’imputato) del 25 dicembre 1986, reiterativa delle stesse lamentele.

Per il periodo 1989/1990, la effettività del pagamento delle somme per le antenne televisive è stato oggetto, altresì, di dichiarazioni di F. G.B. uomo d’onore della famiglia di San Lorenzo, riscontrato da A. A. a proposito della tenuta di un libro mastro con la indicazione, tra i soggetti estorti, di ” (omissis)”, termine allusivo del biscione ossia del logo di una emittente di B.) e di Ca. S. (ritenuto però inattendibile a causa della progressione accusatoria delle sue confessioni).

Sul tema, poi, venivano evidenziate le dichiarazioni di L.P. V. e di Cu. a proposito delle lamentele di M. per essere stato estromesso dai rapporti con il gruppo imprenditoriale rappresentato da D. e di non avere ricevuto in carcere le somme provenienti da B. che ormai venivano trattenute dai fratelli P..

Un ulteriore capitolo di accertamento, nella sentenza di primo grado, era rappresentato dagli attentati – cinque – verificatisi agli inizi degli anni 90 a danno degli esercizi commerciali della (omissis) azienda acquistata dal gruppo Fininvest nel 1988 e della quale D. era divenuto consigliere di amministrazione.

Quegli attentati, come il relativo processo aveva dimostrato, erano stati decisi dalla famiglia mafiosa di S.N.: cinque collaboratori di giustizia ( A., Pu., Ma., S. e Pa.) avevano riferito della mediazione spesa da D. a proposito.

In più, il teste ga. (di cui si dirà di qui a poco) aveva riferito delle dichiarazioni della cognata di D. la quale aveva sostenuto che l’imputato aveva risolto la questione recandosi a parlare con tale Pa. a (omissis). Pa. era risultato in contatto con E.A. che era stato uno dei soggetti condannati per gli attentati. Sta di fatto che gli attentati erano improvvisamente cessati grazie, deduce il Tribunale, alla mediazione di D..

Il teste ga. – medico, già senatore e presidente della società sportiva pallacanestro (omissis) – aveva peraltro riferito anche di un’altra vicenda di interesse nella ricostruzione dei rapporti tra D. e Cosa nostra: si trattava della vicenda della sponsorizzazione ricevuta nel 1990-1992, dalla società di pallacanestro, da parte della Birra Messina, per il tramite di Publitalia. Ebbene Publitalia e poi personalmente D. avevano avanzato richiesta di pagamento della metà della cifra che quello aveva ricevuto, come compenso per la intermediazione. Alle rimostranze di ga. si era risposto con intervento di mafiosi locali e, sostanzialmente, la posizione di D., incontrato da ga. a (omissis) nella sede di (omissis), era stata quella di sostenere che per il versamento richiesto non sarebbe stata rilasciata alcuna fattura.

La pressione di esponenti mafiosi su ga. era stata riferita anche da S.V., già reggente del mandamento di Mazara del Vallo. La conclusione, avvalorata dal Tribunale di Palermo nella sentenza di primo grado, alla luce anche di una sentenza del Tribunale di Torino che aveva condannato D. per fatti in violazione della L. n. 516 del 1982, era stata quella che D. cercava così di costituire fondi occulti. Sul punto il Tribunale indicava, come elemento di riscontro anche un appunto scritto da ga. e rinvenuto presso tal pi..

Del resto, proseguiva il Tribunale, al riguardo è stata pronunciata, nel relativo processo dinanzi alla autorità di Milano, sentenza di condanna di D. e di Vi.Vi. per la tentata estorsione ai danni del ga., essendosi il primo avvalso della sollecitazione anche di esponenti di cosa nostra trapanese: questi erano stati così ulteriormente convinti della disponibilità, che avevano, delle capacità e dei comportamenti di D..

Nel solco del medesimo tema di accertamento, relativo cioè ai rapporti continuativi tra D. e Cosa nostra, era stato poi affrontato, nella sentenza di primo grado, il nodo dei rapporti di D. con i fratelli Gr. arrestati nel gennaio 1994 con i sodali Sp. e D..

Ebbene secondo **********, nuovamente arrestato per associazione mafiosa e divenuto collaboratore di giustizia, i Gr. si erano interessati per fargli trovare un lavoro in un ipermercato che apparteneva a Fininvest, e prima ancora per far effettuare al figlio un provino volto a farlo entrare nella società del Milan-calcio;

anche D., sensibilizzato dai Gr., aveva in una propria agenda appunti in tal senso.

Il mafioso p.G. (uomo d’onore di **********) aveva reso dichiarazioni in tal senso.

Quanto al tema dei rapporti tra mafia e politica- che, come sopra anticipato, ha costituito il secondo capitolo dell’accertamento compiuto in primo grado-occorre subito precisare che il Tribunale aveva escluso che vi fossero prove che R. avesse effettivamente realizzato trattative o accordi politici con B. per il tramite di D.: e ciò, sicuramente, almeno fino al 1993, anno in cui B. aveva deciso di impegnarsi direttamente in politica anche avvalendosi dell’impugnante.

Del resto la stagione stragista della metà del 1992 stava ad indicare proprio la assenza di contatti tra mafia e politica così come dimostrativa in tale senso era la decisione – riferita da ca.Tu. (vicino a Ba., cognato di R. e poi arrestato) che nel 1993 Cosa nostra intendeva dare vita ad una formazione politica di tipo autonomista, Sicilia Libera. Il progetto si era arenato nel 1994 quando Ba. aveva deciso di appoggiare Forza Italia. Tale racconto era stato convalidato dalle dichiarazioni dell’autista di Ba., C. A..

Il Tribunale aveva comunque escluso che vi fosse la prova che la assunzione di un progetto politico da parte di B. fosse il frutto dell’impegno di D., finalizzato a favorire Cosa Nostra: circostanza dimostrata anche da fatto che la decisione di B. è del 1992 mentre fino a tutto il 1993 era ancora in piedi il progetto autonomista e che quindi, almeno fino a tale data, la mafia non aveva ricevuto le garanzie politiche che richiedeva. Sul punto vi erano state, invero, anche le dichiarazioni di gi.

A., reggente del mandamento di ca. e componente della commissione provinciale di Cosa Nostra, il quale aveva riferito che alla fine del 1993 la attenzione di Cosa nostra si era indirizzata verso il nuovo partito di Forza Italia che Pr. aveva deciso di appoggiare avendo ricevuto garanzie: il Tribunale aveva però ritenuto che le nuove affermazioni di gi. sul ruolo di D. non fossero valorizzagli perchè sospette a causa della loro tardività.

Quanto ai rapporti tra M. e D. dopo la scarcerazione del primo avvenuta nel 1990, il Tribunale, invece, aveva evidenziato il ruolo accresciuto del M. divenuto reggente della famiglia mafiosa di Palermo Porta nuova, dopo l’arresto di C.S. del 1993.

Il M., secondo i primi giudici, aveva ripreso i rapporti con D. come dichiarato da G. A., indirettamente anche da L.M., e poi da c. il quale aveva riferito di avere saputo da Ba. che la reggenza di M. era dovuta alla capacità di rapporti con D.M.: questi aveva anche promesso a M. l’interessamento per formulare, nel gennaio 1995, proposte favorevoli a Cosa nostra in tema di modifica del regime ex art. 41 bis ord. pen. Degli incontri che M. aveva riferito, a Ba., di avere avuto con D., vi era traccia (e quindi riscontri) in una agenda dell’imputato (per il 1993).

Vi era poi il racconto di ****** il quale aveva riferito che gu. (reggente del mandamento di Resuttana) dopo le elezioni del 1994 era tornato euforico da un incontro con M. e voleva comunicare a Ba. che – secondo quanto dettogli da M. – questi aveva parlato con D. che gli aveva dato buone speranze.

Il Tribunale evidenziava anche intercettazioni eseguite nel 1999 quando D. era candidato alle elezioni europee. Ebbene da tali conversazioni effettuate a carico del gestore di una autoscuola di (omissis) ((omissis)), era emerso che vi erano parecchi riferimenti a esponenti mafiosi e si parlava in quel contesto di D. come soggetto che doveva essere votato perchè potesse sottrarsi ai problemi giudiziari.

Prova di ulteriori incontri tra M. e D. anche dopo l’ultimo arresto del primo, nel 1995 derivano dalle dichiarazioni di L.P. V., nipote di A.G..

Infine il Tribunale aveva analizzato il significativo tema delle attività di inquinamento delle prove che D. avrebbe posto in essere, a conferma della propria compromissione nei fatti contestati.

Uno solo degli episodi presentati dalla accusa è stato ritenuto comprovato: quello posto in essere con Ci. (uomo di spicco della ***** corona unita in Puglia, condannato all’ergastolo e divenuto collaboratore) e con Ch.. Ci. aveva iniziato, come detto, a collaborare con la giustizia e, posto a contatto con i collaboratori D.C., O. e g. (pure ristretti a Rebibbia), aveva riferito al PM (il 27 settembre 1997) di avere sentito costoro accordarsi per riferire al magistrato fatti calunniosi ai danni di D. e B..

Ebbene, tale proposito asseritamente calunnioso dei tre detenuti era stato ritenuto del tutto infondato dal Tribunale che aveva accertato la impossibilità che i fatti riferiti da Ci. si fossero realmente realizzati ed anzi aveva assunto testimonianze di detenuti (in particolare di C.A.) che aveva detto, al contrario, essere stato proprio il Ci. unitamente al Ch. ad avere tentato di convincere lui stesso ed i fratelli s. (pure detenuti) ad accusare falsamente O., gu. e D. C. di volere calunniare D. e B..

In conclusione era rimasto accertato un piano di Ch. e Ci. per delegittimare i collaboratori palermitani che accusavano D. e B.. E D. veniva ritenuto, dallo stesso Tribunale, l’ispiratore del detto piano di delegittimazione posto in essere da Ch. e **..

Un riscontro a tale tesi era nell’accertamento, realizzato mediante pedinamento e intercettazione telefonica, di un incontro che Ch. ebbe con D. il 31 dicembre 1998, quando il primo aveva ottenuto un permesso di uscita dal carcere.

Nel fissare l’appuntamento, il Ch. aveva chiamato il D. “dott. De.” ossia con il nome in codice usato da Ci. quando questi aveva contattato telefonicamente il D. per riferirgli quanto denunciato al PM. Il Ch., che poi aveva patteggiato la pena in ordine alla imputazione di calunnia (elevata a suo carico unitamente a D. e Ci.), aveva, durante le indagini, chiarito in sede di incidente probatorio che era stato D. a chiedergli di confermare le affermazioni di Ci., in cambio di promesse di danaro.

La sentenza impugnata passava poi in rassegna i motivi di appello presentati nell’interesse di D. (essendo il C. nelle more deceduto) evidenziando:

– quelle di natura processuale riguardanti:

– la pretesa inutilizzabilità delle dichiarazioni rese da D. (nel 1996 e nel 1987) rispettivamente al Pm e al GI di Milano dott. D.L., nonchè delle dichiarazioni di C. rese al PM nel 1996;

– dell’esame dibattimentale di M.V. reso il 13 luglio 1998;

– delle dichiarazioni rese da B.S. nel 1987 dinanzi al GI D.L.;

– delle dichiarazioni dibattimentali rese da g.V. nelle udienze del novembre 2000;

– della deposizione di Me.Gi. nell’incidente probatorio del 2000;

– della deposizione dibattimentale di gi.An. nel 2003;

– dei tabulati di comunicazioni telefoniche elaborati dal consulente dott. ge. e della sua deposizione dibattimentale nelle udienze del 2002;

– delle intercettazioni telefoniche relative alla vicenda Ci.

– Ch.;

– la mancata correlazione tra accusa e sentenza (ad esempio sarebbero fuori capo d’accusa le vicende della pallacanestro e quella Ch. – Ci., così come quella delle elezioni europee del 1999);

– la nullità del decreto che dispone il giudizio per mancata o insufficiente enunciazione del fatto contestato, indicato relativamente a fatti commessi “fino ad oggi” ossia fino al momento dell’esercizio della azione penale;

– la violazione del principio del ne bis in idem rispetto ai procedimenti del 1987 e 1989 definiti con sentenze di proscioglimento del D. pronunciate dal GI D.L. il 24 maggio e il 12 giugno 1990;

In secondo luogo vengono ripercorse le censure sul merito che concernono la errata valutazione delle dichiarazioni dei collaboranti, ritenuti in parte anche inattendibili ma poi richiamati quanto a deposizioni rese.

Quanto all’episodio della assunzione del M., la difesa non ha contestato che sia stato un atto di premura del D. per favorire la protezione di B., pur sostenendo che M. era probabilmente già giunto ad (omissis) in precedenza.

Ad avviso della difesa (come ricordato a pag. 84 della sentenza di appello)- tuttavia, il D.C. presentava numerosi profili di non attendibilità soggettiva e oggettiva.

L’appellante passava poi ad esaminare le dichiarazioni di altri collaboratori ( G., Ma., Mu., Cu.) per inferirne la contraddittorietà delle relative dichiarazioni riguardo alle minacce di sequestro a B. e addirittura alle modalità dell’arrivo di M. ad (omissis), non collegate ad alcuna riunione preventiva (così Cu.).

Di tale riunione del resto nulla sapevano capi del calibro di Bu. o R. il quale, per la prima volta, ne sarebbe venuto a conoscenza (secondo G.) nel 1985-1986.

Del resto, proseguiva la difesa appellante, la logica è contro la ricostruzione del D.C., posto che dopo l’arrivo di M. ad (omissis) si verificarono due episodi assai gravi come il tentato sequestro di D’. ((omissis)) e l’attentato alla villa di B. a via (omissis).

Anche il riscontro trovato dal Tribunale al racconto di D.C. (ossia le dichiarazioni di Ga.) sarebbe inesistente, sia perchè i due avevano trascorso assieme un periodo di carcerazione, sia perchè Ga. aveva indicato delle circostanze improbabili di conoscenza dell’evento “riunione” tra B. e mafiosi, con D. (dieci anni dopo i fatti, raccontando tale evento a G. e D.N. mentre il capo R. non ne avrebbe saputo ancora nulla).

Infine le dichiarazioni di D.C., G. e Cu. sulle somme che B. avrebbe versato alla mafia per la propria sicurezza sarebbero zeppe di contraddizioni e illogiche quanto al fatto della continuazione dei versamenti anche dopo che M. era stato allontanato.

La difesa sottolineava anche le conclusioni raggiunte dal Tribunale sulla assenza di comportamenti di rilievo penale del D. nel periodo compreso tra il 1977 e il 1982, quando aveva prestato servizio alle dipendenze di Ra..

Riferibile a questo periodo sarebbe dunque soltanto la telefonata che D. ebbe con M. (dimorante all’hotel (omissis)) nel 1980 (peraltro risultata effettivamente riferita alla vendita di un cavallo) e la partecipazione al matrimonio Fa. a (omissis), eventi peraltro rimasti privi di qualsiasi rilevanza probatoria per la loro assoluta equivocità. Si sottolineava quanto al primo punto, tra l’altro, che sul coinvolgimento di D. nei traffici di droga addebitati a M. con la operazione del 1980, era intervenuta la sentenza del 24 maggio 1990 del GI di Milano che aveva affermato la estraneità dell’appellante rispetto alla organizzazione inquisita.

Numerosi altri eventi erano stati classificati dallo stesso Tribunale come del tutto privi di capacità dimostrativa.

In conclusione la difesa faceva notare come il fatto di avere favorito la assunzione di M. nel 1974 fosse rimasto poi isolato e non seguito, per almeno dieci anni, da altri comportamenti significativi in favore di Cosa nostra: e ciò fino alla metà degli anni ’80, epoca alla quale risalivano le estorsioni che la Fininvest aveva subito per la posa in opera delle antenne televisive.

Comunque anche in relazione a tale evento, realizzatosi appunto alla fine degli anni ’80 quando (dal 1977 al 1983) D. era passato alle dipendenze di Ra., non vi era prova di un intervento di D. teso ad ottenere l’assoggettamento al pizzo di Fininvest in cambio di protezione. Nè la Fininvest aveva ancora iniziato ad operare in Sicilia.

I collaboratori di giustizia ( Ca. S., G.C., A.P., G. A., *******) che avevano parlato di pagamenti effettuati dalla Fininvest in favore della mafia allora capeggiata da R. (tramite C. ed altri) avevano fatto affermazioni diverse sia nella indicazione del quantum che della causale relativa.

La ipotesi del concorso con il sodalizio mafioso evidenzia dunque la contraddittorietà derivante dal mancato utilizzo di D., da parte del sodalizio, per il decennale periodo sopra indicato.

Ma anche l’episodio delle antenne altro non indicava se non l’aiuto che D. aveva inteso rendere all’amico B. vessato dalla mafia.

Lo stesso ragionamento doveva valere in relazione agli attentati ai magazzini (omissis), posti in essere dal clan Santapaola, tanto più che per tali fatti non risultava nemmeno provato che il D. fosse stato protagonista di una trattativa o di una mediazione.

In tale periodo (1974-1993) il D. aveva avuto, per sua stessa ammissione, sporadici rapporti di frequentazione con l’amico C. e con il conoscente M. (con costui quattro volte in quindici anni (v. pag. 96 sent. imp.).

Anche la tesi della accusa, secondo cui l’impegno politico di D. era finalizzato al rafforzamento di interessi mafiosi, era rimasta privo di prove.

Era infatti emerso, anche secondo il Tribunale, che la nascita di (omissis), e la decisione di B. di partecipare con tale partito alle elezioni politiche del 1994, era scaturita da ragioni del tutto indipendenti da D.. Infatti solo dopo le elezioni del 1994, secondo la sentenza di primo grado, era databile il patto politico mafioso (comunque contestato dalla difesa) che vedeva l’imputato impegnato a promuovere proposte favorevoli per la giustizia in favore del sodalizio.

La difesa ricordava sul punto le dichiarazioni di ca., che, riguardo ai progetti di Ba., aveva affermato trattarsi di proprie supposizioni. E sottolineava, ancora, che Ba. aveva coltivato il progetto della creazione di un soggetto politico nell’ottobre del 1993, così dando la prova che fino a quella data non poteva esservi stato alcun rapporto politico attivato tramite D..

Anche le vicende della sponsorizzazione alla Pallacanestro Trapani e quella Ch.-.Cirfeta s.a.d.a.p.c. De. aveva agito chiedendo a proprio favore l’appoggio di esponenti mafiosi o comunque per dimostrare la calunniosità delle accuse a proprio danno. Riguardo al primo punto, comunque, la difesa (pag. 112) poneva seri dubbi sulla attendibilità di ga., che avrebbe dovuto essere sentito come imputato in reato connesso (peraltro archiviato il 16 luglio 2007, v. pag. 126 sent. imp.) e che aveva cominciato a parlare dei fatti estorsivi presuntivamente commessi ai suoi danni, anni dopo, quando a sua volta era stato accusato, nel 1996, da Me. G.. Aveva anche fornito dati risultati incompatibili con quelli indicati da L.M. M.P..

Sul secondo punto (pag. 113) la difesa contestava che vi fossero prove del concorso di D. ella presentazione di denunzie calunniose da parte di Ci. contro altri collaboratori, essendosi limitato, D., ad indicare alla autorità giudiziaria la fonte di proprie conoscenze circa propositi calunniosi ai propri danni. La sua telefonata con Ci. datava 5 settembre 1997, una data successiva alla denunzia di Ci. alla A.G. Ci. era peraltro risultato soggetto pienamente attendibile in numerose altre realtà processuali.

Inoltre la difesa contestava che tutti gli elementi passati in rassegna fossero sufficienti a fa ritenere rispettata la soglia probatoria fissata dalla sentenza delle SS.UU. ******* in tema di concorso esterno al reato di associazione mafiosa; difettava infatti la prova che il presunto impegno politico assunto dal D. a favore del sodalizio avesse le caratteristiche della serietà e fosse riuscito, con prognosi da effettuare ex post, ad incidere sul mantenimento della associazione mafiosa.

Venivano poi sottoposte a censura le dichiarazioni di A. A., ******, gi. A., S. A. (sul giudizio negativo dato da B. a proposito di D. che a (omissis) si occupava di collocare all’estero il denaro di Cosa nostra (v. pag. 96 sent. imp.) e ga. V..

Si evidenziava come la vicenda della assunzione di D. da parte di Ra. (presso la soc. *********), al di là delle affermazioni di costui circa la impossibilità di rifiutare tale favore richiestogli da C. conosciuto per i legami con ambienti mafiosi, fosse risultata priva di qualsivoglia significatività ai fini degli interessi di Cosa nostra.

In conclusione e in sintesi si criticava la tesi secondo cui D. avrebbe agito non per aiutare e favorire l’amico B. ma, al pari di C., per favorire il sodalizio mafioso di riferimento.

Sui rapporti tra D. e M. successivi al 1994, la difesa analizzava e criticava le dichiarazioni dei collaboratori che ne affermavano la esistenza, quali Cu. S. che aveva parlato di un incontro tra l’imputato e M. nel dicembre 1994, nel corso del quale il secondo aveva ricevuto garanzie sulla presentazione di proposte legislative favorevoli alla mafia.

Incerta sarebbe la collocazione temporale di tale incontro (che comunque, secondo il Tribunale, sarebbe stato indicato nel dicembre 1994 a causa di un lapsus, essendo da riferire ad un anno prima, 1993), ma collocato in altro mese da ca. e Ca., così come da L.M. e da D.N..

Si sarebbe trattato di un incontro di dubbia valenza posto che poteva servire (secondo Ca.) ad aiutare il progetto politico di Sicilia Libera senza però considerare che i candidati di Sicilia Libera non furono neppure inseriti nelle liste di Forza Italia.

Ba. e Br., d’altra parte, sembravano (nel racconto dello stesso Cu.) all’oscuro dei presunti risultati ottenuti da M..

Ga. sembrava parimenti all’oscuro, ponendosi all’epoca il dubbio se continuare o meno con la politica stragista.

Le annotazioni di due incontri nel novembre 1993, rinvenute nell’agenda di D. sarebbero neutre.

D.N. aveva a sua volta collocato il detto incontro in un periodo successivo alle elezioni del 1994.

Le intercettazioni relative alle elezioni europee del 1999 erano prive di significato probatorio per la loro lontananza dai fatti in esame e non contenevano riferimenti al patto.

Quanto alla segnalazione in favore del figlio di D. la difesa faceva presente che l’intermediario era stato il solo Ba.

C., però morto prematuramente prima. Il provino era stato successivamente realizzato per il tramite dei fratelli G. ma senza che questi facessero riferimento all’imputato.

I rapporti con S.N. (legato al genero di M. e coinvolto in traffici di droga) andavano ora analizzati alla luce del fatto che costui era stato assolto dal reato ex art. 416 bis c.p..

Veniva poi menzionato l’appello incidentale del PM sulla pena.

Si dava quindi atto dei motivi nuovi d’appello formulati nell’interesse di D. riguardanti:

la indeterminatezza del capo di imputazione;

la violazione del ne bis in idem per quanto riguardava la contestazione del concorso esterno in associazione mafiosa sulla base dei rapporti con Ci. e Ch. (per la quale pendeva processo a carico dell’imputato in ordine al reato di calunnia);

la valutazione della vicenda degli attentati alla Standa come effettuata dalla Corte di assise di Catania, con esclusione dell’intervento dell’imputato;

In quella memoria venivano poi avanzate istanze istruttorie.

Lo svolgimento del giudizio di appello aveva luogo a partire dalla udienza del 30 giugno 2006, quando si prendeva atto del decesso di C. intervenuto nel precedente mese di febbraio 2006.

Il processo si concludeva il 29 giugno 2010 con la lettura del dispositivo.

Si procedeva ad una parziale rinnovazione della istruttoria dibattimentale acquisendo provvedimenti giurisdizionali ed escutendo testi ed esaminando D.G.M., autore di sopravvenute dichiarazioni riguardanti fatti di interesse per il processo, poi sottoposto anche a confronto con gi. A..

Veniva anche ammessa la deposizione di Sp.Ga. (23 ottobre 2009) sulla stagione politica, nonchè di G.F. e G.G. e di ******* (30 ottobre).

Da ultimo si acquisiva la sentenza della Cassazione di annullamento con rinvio nel processo celebrato a Milano a carico di D., e V. per tentata estorsione ai danni di ga..

Nella sentenza di appello venivano dapprima affrontate e risolte le questioni processuali di inutilizzabilità di taluni atti per violazione degli artt. 191 e 526 c.p.p..

Queste venivano solo in parte accolte, riaffermandosi viceversa la legittima acquisizione delle dichiarazioni di D. e C. limitatamente alle affermazioni che li riguardavano e non di quelle contra alios (punto primo tra quelli sopra elencati), di quelle di B. al GI di Milano limitatamente agli elementi favorevoli all’imputato (punto tre), di quelle di ga. sentito come teste pur essendo persona offesa del reato di tentata estorsione e indagato per il reato di calunnia, archiviato, e per quello di diffamazione, pendente (punto quattro), di quelle di gi. A. in dibattimento (punto sei).

Sulla questione di inutilizzabilità dei tabulati telefonici la Corte ha affermato la non rilevanza di essi come prova (pag. 166 sent. imp.) riguardante anche le intercettazioni relative alla vicenda Ch. – Ci. ((pag. 170 sent.imp.) e quelle ambientali relative alla vicenda (omissis) (pag. 172 sent. imp.).

La Corte ha quindi replicato alla eccezione riguardante la mancanza di correlazione tra accusa e sentenza (pag. 176 sent.imp), alla eccezione sulla violazione del ne bis in idem derivante dalle due sentenze proscioglitive del GI di Milano risalenti al 1990 (pag. 178 sent. imp .) e concernenti imputazioni ex artt. 416 e 416 bis c.p.;

infine ha respinto l’eccezione di superamento del tempus commissi delicti indicato nella imputazione “fino ad oggi”.

I giudici dell’appello sono quindi passati ad esaminare le censure nel merito, giungendo, alla fine, ad una conclusione solo parzialmente confermativa di quella del primo giudice: infatti, come si vedrà, la Corte d’appello ha ritenuto di confermare la accusa di concorso eventuale in associazione mafiosa soltanto per la parte riferita alla mediazione che D. aveva assicurato in favore sia dell’amico B. che, essenzialmente, del consorzio mafioso, attraverso la creazione e la gestione in prima persona di un canale privilegiato volto ad assicurare all’imprenditore protezione, informazioni e pronti collegamenti con il fronte mafioso in cambio essenzialmente di cospicui pagamenti di somme di danaro e a Cosa nostra concreti arricchimenti ingiusti e la prospettiva di continui rilanci in settori anche di interesse economico per l’imprenditore:

il tutto fino al 1992.

Al contrario la Corte non ha convalidato la tesi della protrazione del detto concorso eventuale anche in epoca successiva, ritenendo non adeguatamente provato l’assunto accusatorio (peraltro accreditato in primo grado) dell’avere il D. consentito un ulteriore rafforzamento al sodalizio ponendo in essere, sulla base di un accordo o patto, condotte volte ad influenzare, a vantaggio della associazione mafiosa, individui operanti, in particolare, nel mondo istituzionale.

La Corte, dunque, sulla origine dei rapporti tra D. e M. ha sostanzialmente confermato l’accertamento del primo giudice.

La Corte ha rimarcato la ammissione da parte dello stesso imputato del fatto che essi erano insorti in Palermo quando si era reso necessario, per D. coinvolto nella gestione della società calcistica **********, di avere rapporti con un soggetto – ivi conosciuto perchè frequentante assieme a numerosi altri soggetti, in ambiente promiscuo- che fosse in grado di tutelare i giocatori, quando questi entravano in competizione in ambienti le cui tifoserie erano particolarmente aggressive.

Quindi l’avvicinamento con M. era dovuto alla sua capacità dissuasiva. Tale realtà giustificava il ricorso a M. anche per lo svolgimento di analoga funzione presso la villa di (omissis), essendo stato in tal senso contattato da D. con la collaborazione del suo amico C., anch’egli frequentatore della società ********** presso la quale giocava il figlio.

La Corte negava che potesse avere credito la tesi della difesa secondo cui M. era stato assunto come semplice stalliere, essendo da escludere che anche solo funzioni di fattore e di curatore della manutenzione dei terreni fosse affidata ad un perfetto sconosciuto, peraltro privo di esperienze nel settore agricolo.

Lo stesso D. era caduto in contraddizione descrivendolo ora come soggetto esperto solo di cani e non di cavalli, ora invece come conoscitore anche di cavalli.

Peraltro, proseguiva la Corte, può ritenersi comprovato, sulla base di dichiarazioni di pentiti, che M. fosse realmente esperto di cavalli (così Mu., Cu., Co., c.) ed una simile realtà era alfine emersa anche dalla nota telefonata del 14 febbraio 1980 dall’Hotel (omissis), telefonata vertente, secondo quanto accertato dal Tribunale, proprio sulla vendita da parte di M. di un cavallo.

Tuttavia ad avviso della Corte, una simile esperienza non giustificava, da sola, la sua assunzione ad opera di D. (che lo avrebbe ammesso), essendo il M. appena giunto in (omissis), per giunta privo di competenze al riguardo.

Pertanto secondo i giudici è rimasto provato su base logica che la assunzione del M. rispondesse alle esigenze di protezione individuate dalla accusa e tale costrutto aveva trovato conforto e riscontro nell’incontro tra B. e Bo. promosso da D., come riferito da D.C.. La Corte di merito ha sul punto ritenuto accertato che l’incontro in questione – del maggio 1974 – precedette l’arrivo di M. ad (omissis) e ne fu la causa.

D., infatti, si era dimesso dalla Banca ove lavorava il 5 marzo 1974 e solo dopo tale data poteva collocarsi il suo interessamento per l’assunzione di M.. Questi, d’altra parte, risulta avere spostato la propria residenza in (omissis) nel (omissis), lavorandovi per alcuni mesi: proveniente da (omissis) ove aveva fissato la residenza nel (omissis).

L’imputato aveva reso dichiarazioni nello stesso senso (come anche co.) e la Corte ha escluso che potesse giungersi ad una diversa ricostruzione cronologica sulla base di appunti contenuti in una agenda, privi di data certa.

Il compito era quello di garantire la sicurezza della famiglia B., come si desume anche dalle dichiarazioni di D. che aveva riferito come l’uomo fosse stato adibito all’accompagnamento a scuola dei figli dell’imprenditore, pur avendo costui, alle proprie dipendenze, un autista.

Le minacce a B., del resto, erano state comprovate come dimostrerebbe il fatto che quando M. decise di lasciare (omissis) dopo l’arresto per una pena da espiare, B. stesso si era determinato a rifugiarsi prima in Svizzera e poi in Spagna (v. dich. di co.). D., poi, aveva ammesso che le minacce erano cessate con l’arrivo di M. e tale evento era da mettere in relazione non al caso (come vorrebbe l’imputato) ma alla presenza dissuasiva di un soggetto scelto da C., attraverso le proprie parentele di grande rilievo mafioso che gli avevano consentito di investire della questione addirittura il boss Bo. (vedi dich. di D.C.).

Lo stesso imputato aveva anche dichiarato che, dopo l’allontanamento di M., le minacce erano riprese, con l’arrivo di una lettera anonima, a partire cioè da gennaio 1975. Anche co. aveva confermato tali circostanze, precisando che, al rientro in Italia, B. si era dotato di un servizio di guardie private: quelle destinate evidentemente a svolgerle il servizio prima garantito da M..

La Corte è passata poi ad esaminare le dichiarazioni di D.C. F., ritenute anche da essa soggettivamente e oggettivamente assai credibili, sull’incontro di (omissis) tra B. e i boss mafiosi.

I giudici di secondo grado, replicando alle obiezioni della difesa e del Procuratore Generale, ripercorrono tutti i passaggi della motivazione esibita dal Tribunale, convalidandoli con la sola eccezione del riscontro individuato dal Tribunale (e non dalla Corte), rappresentato dalla esistenza dell’immobile nel quale, secondo il dichiarante, rincontro in questione avrebbe avuto luogo.

Dal dato obiettivo della presenza di un personaggio di spicco per i rapporti con la mafia, presso la villa di (omissis), con funzioni pertanto dissuasive rispetto ad iniziative della criminalità di altra origine e natura ai danni di B., la Corte deduce la piena credibilità del racconto di D.C. che ricostruì la modalità specifica attraverso la quale si realizzò il successivo rapporto tra M. e B..

Fu un incontro – quello riferito da D.C. – che vide l’impegno personale di un personaggio come B.S. collocato all’epoca (primi anni ’70) ai massimi livelli della consorteria mafiosa siciliana, essendo risultato componente del triumvirato di vertice assieme a Ba.Ga. e a L.L..

E per riuscire a coinvolgere un personaggio di spicco della massima organizzazione criminale all’epoca in attività la Corte ritiene del tutto logico credere al fatto che fu il C., amico di vecchia data di D., il soggetto al quale questi si rivolse per risolvergli il problema di sicurezza di B., essendo a conoscenza delle parentele che il C. stesso aveva acquisito con personaggi di rilievo della consorteria.

La Corte ha passato infatti in rassegna quelle parentele evidenziando come, attraverso i matrimoni, il C. e sua sorella si fossero legati a uomini d’onore, esponenti di famiglie mafiose come quella di ********* e *********** del Gesù (pag. 201 sent. imp.).

E tale ricostruzione in parte storica ed in parte logica ha trovato conferma nel fatto che alla riunione riferita da D.C. partecipò lo stesso C. che doveva essere il trait d’union con la mafia palermitana.

La difesa, sul punto, aveva eccepito che il racconto del D.C. appariva poco credibile perchè non si comprendeva quale potesse essere stato il suo interesse alla partecipazione personale alla nota riunione.

La Corte ha però replicato motivando la plausibilità delle giustificazioni date al riguardo dal D.C. e cioè ricordando i rapporti di stretta amicizia personale che lo stesso vantava sin dalla adolescenza con Bo. e la sua famiglia di origine:

amicizia per la quale il Bo. lo aveva invitato a prendere parte all’incontro perchè capace di intrattenere rapporti anche con personaggi di rilievo del mondo economico; del pari, la presenza di C., che non era combinato come uomo d’onore, trovava spiegazione nel fatto che era stato proprio lui a provocare l’incontro.

La Corte ha replicato anche ai dubbi della difesa sulla collocazione temporale dell’appuntamento, condividendo la conclusione del Tribunale, resa con motivazione articolata, secondo cui, nonostante le incertezze di D.C. sul punto, quello fosse da collocare tra il 16 e il 29 maggio 1974.

Tale riferimento era in linea anche col racconto del D. che aveva fatto risalire l’arrivo di M. alla villa di (omissis) proprio nel maggio-giugno successivi. Ed era in linea con le risultanze anagrafiche che attestavano la iscrizione del M. tra i residenti di (omissis) a far data dal 1 luglio 1974.

La Corte ha argomentato anche le ragioni di dissenso riguardo alla tesi del PG che avrebbe voluto collocare l’arrivo di M. mesi dopo, evidenziando come fosse rimasto accertato che mesi dopo, e cioè da gennaio 1975, il M. si allontanò definitivamente dalla villa di (omissis).

La Corte ha poi replicato alle argomentazioni difensive secondo cui gli impegni processuali e giudiziari di Bo. e T. sarebbero stati incompatibili con la loro presenza a (omissis) nel noto periodo. E ha motivato sulle ragioni per le quali quegli impegni prevedevano degli “intervalli” che invece consentivano ai due, di fatto, di allontanarsi dal luogo di residenza per un giorno e mezzo circa, il tempo cioè della durata del soggiorno a Milano.

Tornando ad esaminare la valenza dell’accordo scaturito dall’incontro di Milano, la Corte ha specificato poi che l’accordo aveva ad oggetto interessi di grande rilievo per la sicurezza di B. e dei suoi familiari, interessi che Bo. garantì di voler tutelare indicando a B. la persona del D. come referente per “qualsiasi cosa”.

Il racconto di D.C., al riguardo, era proseguito- in termini di assoluta credibilità secondo la Corte – anche riguardo alla indicazione della ulteriore persona fisica che Bo. intendeva collocare presso B. per realizzare lo scopo prefisso: la persona cioè di M. di cui, all’esito dell’incontro, si fece espressamente il nome.

Dunque la presenza del M. trovava spiegazione, argomenta la Corte, nell’indicare ad eventuali altri malintenzionati, la presenza garante della mafia sulla famiglia e sugli affari di B..

I giudici hanno escluso poi la tesi della difesa secondo cui la presenza del M. sarebbe stata “imposta” a D..

Vi era al contrario la prova che D. aveva assunto il ruolo di colui che avrebbe consentito, con la propria iniziativa, alla mafia di entrare in rapporto diretto con uno dei più importanti imprenditori del nord, dando corpo alla presenza accanto a lui di un soggetto ( M.) che di li a pochi mesi sarebbe divenuto uomo d’onore (affiliato alla famiglia mafiosa di Porta nuova che all’epoca era aggregata a quella di Santa ***** del Gesù, comandata da Bo.St.) e che già all’epoca vantava una posizione di speciale considerazione all’interno della consorteria mafiosa (v.le dich. dei collaboratori Cu., S.F., p. 214 sent.).

La Corte ha reiterato più volte il giudizio di speciale credibilità del D.C., escludendo che potesse essersi avvantaggiato di notizie diffuse dalla stampa, per la originalità di taluni suoi contributi; e ciò, pur escludendo la bontà del riscontro che il Tribunale aveva trovato sul suo racconto quando aveva indicato la presunta (ma non esistente in realtà) corrispondenza tra la descrizione del luogo in cui sarebbe avvenuto l’incontro con B. e il palazzo in cui aveva sede la società di costui, Edilnord. La Corte ha affrontato quindi il tema, posto dalla difesa, della inesistenza di segnali di minacce ai danni di B., all’epoca, e ha indicato le prove, al contrario, della concretezza di quelle minacce (pag. 219 sent. imp.), provenienti essenzialmente dalle stesse dichiarazioni di D..

I giudici sono passati poi ad esaminare le dichiarazioni di Ra. e dell’imputato a proposito del fatto che essi vantavano amicizie mafiose e del fatto, altresì, che D., proprio facendosi accompagnare da un personaggio noto negli ambienti mafiosi come C., si era presentato da Ra. quando aveva iniziato la collaborazione con tale soggetto. Si affronta poi nella sentenza di appello (pag. 221) la prova (rappresentata da una conversazione telefonica – intercettata nel 1988 – di Be. con tal D. V. e da altra conversazione dello stesso imprenditore con D. del 1986) del fatto che anche negli anni ’70 egli era stato vittima di minacce a fine di ricatto e che faceva parte del suo modo di pensare l’idea di pagare agli estorsori piuttosto che denunciarli alla autorità giudiziaria. Infine la Corte cita la dichiarazione di D.C., sul fatto- appreso da C. – che la protezione garantita dalla mafia a B. aveva un prezzo:

quello di cento milioni che l’imprenditore aveva pagato, così dando corpo anche all’arricchimento che la consorteria aveva realizzato grazie al contatto con B. propiziato da D..

La Corte ha passato poi in rassegna l’episodio del fallito sequestro del principe D’., ai ritorno da una cena nella villa di (omissis), presente il M.. E ciò per replicare al rilievo difensivo secondo cui dopo l’assunzione dei M. erano proseguite le minacce a B., sicchè non poteva parlarsi di un patto di protezione realizzato da M..

Il fatto di rilievo è stato ritenuto, per l’appunto, quello del tentato sequestro al principe al termine di una cena alla quale B. lo aveva invitato, presso la Villa di (omissis).

Per quel sequestro tentato era stato condannato altro mafioso ( V.P., allora latitante, la cui patente era stata rinvenuta sul luogo del fallito sequestro)ma vi era coinvolto come basista il M. (vedi dich. dei collaboratori Mu. e Cu. che lo avevano appreso direttamente da M., ma anche quelle di C.S.) il quale aveva sfruttato gli eventi che egli vedeva svolgersi nella villa di (omissis), fornendo nel caso di specie ai sequestratori ravviso di uscita della vittima alla fine della cena. Si era trattato però di una azione criminosa che aveva visto come bersaglio un soggetto diverso da B. e che pertanto non poteva reputarsi in violazione del patto di protezione, in tale prospettiva apparendo generiche e in parte smentite anche le affermazioni di Cu. secondo cui l’originario bersaglio sarebbe stato il padre di B..

Il fatto del tentativo di sequestro dovette subito essere messo in relazione alla persona di M. anche dall’imputato, tanto che, dopo di esso lo stesso M. si allontanò – senza traumi- dalla villa di (omissis). Gli eventi dovettero comunque rafforzare in D. la consapevolezza della caratura mafiosa di M. con il quale, peraltro, non cessarono affatto i rapporti. E non cessarono neppure con C. come si ricava dalle dichiarazioni di D.C. e di O. che la Corte ha ritenuto apprezzabili soltanto come prova della continuità delle frequentazioni fra i due e non anche di eventi di rilievo penale, tenendo conto anche del fatto che la circostanza è ammessa sia da D. che da C. (pagg. 231 232 sent. imp.).

La Corte ha analizzato quindi, in sentenza, in punto di credibilità soggettiva e oggettiva, e tenuto conto delle specifiche critiche della difesa, le dichiarazioni di G. e Cu., che, anche in base al costrutto del primo giudice, rappresentano il riscontro alle dichiarazioni di D.C. sull’ormai noto incontro di (omissis).

Ha osservato che G., nipote di G.R. e amico di C., aveva da costui ricevuto confidenze al riguardo nel corso di un pranzo alla villa di CI. (nipote di C.) nel 1986, presenti g.D. e D.N.P. (capo della famiglia di M.).

C. aveva fatto un racconto straordinariamente convergente con quello di D.C., dicendo di essere stato richiesto di intervento direttamente da D. e di avere organizzato un incontro a (omissis), tra B., T. e Bo..

Tale impressionante collimanza non è stata ritenuta dalla Corte- diversamente da quanto sostenuto dalla difesa- frutto di preordinata combinazione tra G. e D.C. i quali erano stati detenuti assieme nel carcere (omissis), ossia un mese prima che G. facesse le proprie rivelazioni alla autorità giudiziaria.

La Corte non ha cioè creduto alla tesi dell’accordo doloso tra i due perchè ha condiviso il rilievo del Tribunale circa la elevatissima sorveglianza alla quale era sottoposto al tempo il D.C., divenuto collaboratore di giustizia poche settimane prima.

La Corte non ha creduto neppure alla ulteriore tesi della difesa secondo cui G. aveva riferito ciò che aveva letto sui giornali a proposito delle rivelazioni di D.C..

Ha rilevato in proposito dei particolari nella narrazione di G. (v. pag. 235 e segg, con particolare riferimento al dettaglio del momento in cui fu richiesto a B. di far pervenire una somma a Bo., in cambio del servizio) che starebbero ad indicare la autonomia della ricostruzione.

Le dichiarazioni di Cu. sono state a loro volta ritenute di rilievo come riscontro a quelle di D.C., riguardando spiegazioni che M. gli avrebbe dato circa la sua presenza ad (omissis), in linea col costrutto accusatorio. Invero M. gli aveva riferito di essere stato egli stesso, con atti intimidatori posti in essere contro B., a propiziare la reazione di questi e a farlo rivolgere a D. perchè attivasse i contatti con C. e in definitiva con soggetti dell’ambito mafioso: il tutto nell’ottica di essere egli stesso assunto dal momento che intendeva arricchirsi.

Dunque un racconto che non contempla affatto la riunione di Milano tra B., Bo. e gli altri, ma che sta ugualmente ad attestare l’inserimento di M. nel gruppo mafioso che negli anni settanta operava nel milanese, la funzione di garanzia che svolgeva alla villa di (omissis) e la catena di contatti attivata per giungere fino a lui da D. passando per C..

Il fatto che nel racconto di Cu. non è stato menzionato l’incontro di (omissis) di cui parla il D.C. non prova, ad avviso della Corte, che tale incontro non ci sia stato, posto che Cu. ha riferito quanto confidatogli da M. al riguardo e M. poteva anche non sapere di quell’incontro al quale non aveva partecipato.

La Corte non attribuisce particolare rilievo al fatto che M. abbia attribuito a se stesso le minacce che avevano indotto B. a rivolgersi a D.. Infatti D.C. sul punto non aveva reso affermazioni precise e diverse mentre era pacificamente accertato nel processo che quelle minacce erano state realmente poste in essere.

Rilevanti erano poi considerate le affermazioni del Cu. circa le somme di denaro (50 milioni l’anno) che furono versate da B. e inizialmente ritirate proprio da M. che le faceva pervenire al mandamento mafioso di Santa Maria del Gesù.

Secondo la Corte questa era la prova non solo che M. perseguisse anche propri interessi ma soprattutto che la sua azione si inseriva in un disegno più ampio che era quello non di rendere servigi a B. ma di sfruttarne al massimo le evidenti capacità economiche in una logica mafiosa di conseguimento di illecito profitto.

E la detta somma veniva pagata anche dopo che – fallito il tentativo di sequestro di D’. e destata negli inquirenti la attenzione sul personaggio M. che in quell’epoca, per altra causa, era finito anche, sia pur brevemente, in carcere – il M. stesso aveva deciso di allontanarsi dalla villa di (omissis) per togliere B. dall’imbarazzo di una ingombrante presenza.

La prova del proseguimento dei pagamenti veniva ancora da Cu. che lo aveva saputo da componenti della famiglia mafiosa di Santa Maria del Gesù. Sul punto aveva deposto anche S.F. che lo aveva saputo direttamente da M. durante un periodo di comune detenzione alla fine degli anni 80.

La Corte è passata quindi ad esaminare l’attentato alla villa di (omissis). Si tratta di un attentato che, posto in essere nel maggio 1975, starebbe a dimostrare, secondo la difesa, che non vi era affatto, in atto, una garanzia da attentati mafiosi in favore di B., il quale infatti si era anche allontanato dall’Italia per motivi di sicurezza.

La Corte tuttavia ha argomentato che l’attentato era da intendere nello stile della consorteria mafiosa che tende a non far allentare mai la tensione con la propria vittima onde evitare che questa cessi di pagare il prezzo delle estorsioni.

Di fatto i pagamenti di B. non cessarono, tenuto conto che le ragioni di sicurezza personali non erano le sole che giustificavano i pagamenti, come dimostrato anche dal comportamento analogo tenuto in occasione della successiva installazione in Sicilia dei ripetitori televisivi di interesse per Fininvest.

Ebbene, tornando ai commenti di B., D. e c. (conversazione del 29 novembre 1986) circa l’attentato alla villa di (omissis) (ripetuto nel 1986, poco prima della citata conversazione), B. rivelò la propria convinzione che entrambi gli attentati fossero stati opera di M..

Proseguiva dicendo che l’attentato appena subito (quello del 1986) egli lo considerava un segnale acustico di estorsione, proveniente dalla mafia: segnale che egli riteneva oltretutto “rispettoso e affettuoso” per la modestia dei danni cagionatigli.

Ebbene la conversazione viene citata dalla Corte come prova del fatto che, all’esito di essa il D. si era immediatamente attivato per verificare se i sospetti dell’amico B. su M. fossero fondati. Era rimasto provato che, per far luce sull’episodio si era rivolto all’amico C. e in 24 ore aveva potuto fornire a B. la sicura informazione della estraneità di M. all’attentato.

Si tratta di una risposta che presuppone fonti cognitive illecite, come è dimostrato anche dalla natura estremamente criptica della telefonata di D. a B. ed è la prova dei canali informativi che D. manteneva con ambienti mafiosi importanti, per il tramite di C., essendo stati quelli capaci di verificare in poche ore la reale natura e portata dell’attentato svoltosi a distanza di 2000 chilometri (da attribuirsi, secondo la ricostruzione accrediata, alla iniziativa di R.).

Si è aperto, a questo punto, il paragrafo della motivazione sulla continuità dei rapporti tra D. e M..

Si è ritenuto, cioè, provato, dalla Corte, che questi rapporti continuarono anche dopo l’allontanamento di M. da (omissis), dovuto al suo arresto e quindi all’imbarazzo che poteva creare a B..

Erano rapporti continuativi e cordiali che contrastano, per la oro natura, con la tesi difensiva dell’avere il D. inteso solo aiutare – facendo ricorso a talune conoscenze in Sicilia – l’amico B..

Non regge cioè secondo la Corte, la tesi che il D. subisse le chiamate di M. in ragione della personalità criminale di costui.

Proprio il colloquio telefonico che avvenne il 14 febbraio 1980 tra D. e M. quando costui era alloggiato all’hotel (omissis) dimostra che non solo l’imputato si diceva compiaciuto degli incontri che si andavano progettando ma soprattutto che si trattava di incontri soliti, consueti, in luoghi noti ad entrambi.

Quella telefonata (che nonostante la menzione di un termine – cavalli – usato in altre telefonate da M. per parlare di droga, non è stata ritenuta prova di affari illeciti) dimostrava però proprio la detta continuità di rapporti tra i due, rimasti sospesi solo durante la carcerazione decennale subita da M. tra il 1980 e il 1990.

La Corte ripercorre poi gli altri episodi già sottolineati dal Tribunale come indicativi della detta continuità di rapporti.

Ricorda cioè che c.A. aveva parlato di tale argomento citando un pranzo avvenuto dopo il (omissis) al ristorante (omissis), quando accompagnava il proprio fratello a (omissis), essendo costui uomo di vertice della c.d. “regione”, organismo direttivo di Cosa nostra in Sicilia. Ebbene a quella cena, tenutasi con M. e Gr. A., gli era stato presentato dal primo il D., indicato come suo “principale”. La conoscenza tra Gr. e D. era stata riferita del resto anche da D. C. che aveva indicato il Gr. come uno dei soggetti presenti all’incontro di (omissis), ma subito allontanatosi.

Il fatto della cena al menzionato ristorante- collocato dalla Corte nel 1976- era stato del resto confermato anche da D. (il quale aveva solo detto di essere stato presentato agli amici di M. di cui non conosceva i nomi e le identità) e sta a dimostrare che rapporti cordiali con M. erano proseguiti anche dopo che era pacificamente emersa (se ce ne fosse stato bisogno) la personalità criminale di costui e che il M. riteneva D. persona del tutto affidabile: tanto da presentargli altri sodali di rilevante spessore criminale come c.A. (presente a (omissis) anche per individuare avversari da eliminare nella guerra di mafia all’epoca in atto).

Altre conferme di tale assunto erano nella partecipazione di D. al matrimonio di Fa. a (omissis) con altri esponenti mafiosi, nella telefonata del 14 febbraio 1980 con M. e nella ammissione in tal senso da parte dello stesso imputato.

Il matrimonio di Fa.Gi. a (omissis) aveva avuto luogo il (omissis) e vi erano presenti, per ammissione dello stesso D., D.C., C. e T.G., le persone cioè presenti alcuni anni prima all’incontro di (omissis) con B.. D., in una intervista a Mu., aveva ammesso che tra gli invitati vi era Bo..

Era il segno della continuità dei rapporti tra i menzionati personaggi.

Il ruolo di d.M. si è rivelato dunque, secondo la Corte, come quello – grazie alle autorevoli conoscenze e parentele del fido amico C. – di mediazione e di collegamento tra la associazione mafiosa nella persona di Bo.St. e B.S., personaggio dai destini economici in rapidissima ascesa.

Il suo contributo alla associazione mafiosa è stato indicato dalla Corte, in linea con la sentenza di primo grado, nell’avere consentito, alla consorteria mafiosa, di agganciare B. che sarebbe divenuto per anni fonte cospicua di incassi per il sodalizio del tutto illeciti.

Restava così dimostrata la infondatezza della tesi difensiva dell’avere agito, il D., solo per garantire la sicurezza di B. e della sua famiglia. E il rapporto parassitario garantito a cosa nostra costituiva un elemento di sicuro rafforzamento e sopravvivenza della organizzazione criminale per due decenni.

Viceversa non avrebbe alcun senso logico constatare che chi intendeva agire per la tutela degli interessi dell’amico, soggetto passivo di intimidazioni ed estorsioni, poi continuava ad avere, negli anni, rapporti amichevoli con coloro che apparivano gli aguzzini del suo stesso amico e datore di lavoro. E non esitava a ricorrere ad essi anche per la rapida soluzione di problemi nati da attività criminali.

Di una cena con D. nella villa di Bo.St. nel (omissis) aveva parlato D.C. (pag. 262 sent. imp.), sicchè era da escludere fondamento alla tesi difensiva secondo cui l’imputato aveva commesso il “reato di amicizia” a causa del rapporto personale con C. e degli sporadici incontri con M..

Egli coltivava rapporti col vertice e garantiva il pagamento ad esso di somme di danaro sborsate da B..

E i pagamenti di B. dovevano, ad avviso della Corte- che sul punto ha ripetuto, ampliandolo, il ragionamento del primo giudice- ritenersi dimostrati in quanto di ciò era prova nelle plurime e concordanti dichiarazioni di collaboratori di giustizia sicchè la tesi negazionista della difesa sul punto è stata rigettata. Si era trattato di pagamenti iniziati negli anni ’70 per la protezione dei familiari di B. ed erano continuati negli anni ’80 con una causale, aggiuntiva, che era quella della “messa a posto” per la installazione delle antenne televisive di interesse per Fininvest in Sicilia.

Di tali pagamenti- ha proseguito la Corte- aveva parlato D.C. nel primo interrogatorio (1996) riferendo quanto saputo da C.: e cioè che era stato comandato dai vertici di pretendere da B., subito dopo la riunione di (omissis), la somma di L. 100 milioni, pretesa, questa, per lui fonte di notevole imbarazzo, tuttavia concretizzatasi con l’effettivo esborso della somma da parte di B..

Secondo Ga. A., invece, si sarebbe trattato non di una richiesta esplicita di C. ma di un regalo che B., comunque in veste di estorto, aveva inteso fare, nella misura di L. 50 milioni, in due rate, alla mafia. C. li ritirava direttamente allo studio di D.. La somma era diretta a Bo. e, dopo la uccisone di costui, ai fratelli P. che erano i rappresentanti della famiglia di Santa ***** del Gesù (che li ricevevano tramite Co.Pi. al quali li dava D.N. P., a sua volta coinvolto da C.).

Sulla divergenza dei particolari tra le due versioni la Corte ha sostenuto che esse non sono rilevanti e tantomeno decisive.

Il racconto di G., infatti, poteva essere impreciso perchè era il frutto di confidenze di C. fatte per giunta nella nota occasione della riunione del 1986, quindi a distanza di oltre dodici anni dal fatto.

Elemento comune ai due racconti è che comunque la dazione di danaro di B. avveniva e comportava il trasferimento della somma a C. con la intermediazione di D..

Anche Cu.Sa. aveva confermato il pagamento dei L. 50 milioni, con una versione ancora un po’ diversa, appresa dal racconto fattogli da M.. Il percettore però non era secondo costui C., bensì M. stesso, che ne versava una parte alla organizzazione di Santa ***** del Gesù.

S.F., dal canto suo, aveva riferito circostanze analoghe apprese dal M., aggiungendo che questi si lamentava della rapacità dei P.. Si trattava di dichiarazioni relative, evidentemente, ad un periodo successivo alla morte di Bo., quando l’affare era stato ereditato appunto dai P..

I pagamenti, secondo tale collaboratore, riguardavano gli affari in generale di B. e pertanto ben potevano essere continuati anche quando il patto di protezione personale era parso violato.

Questa pretesa violazione, poi, sosteneva la Corte che fosse tutta da dimostrare essendo al contrario emerso (dichiarazioni di Si.) che nella seconda metà degli anni 70 Bo.St. si era speso personalmente per bloccare un progetto di sequestro di persona coltivato dalle organizzazioni criminali calabresi v. pag. 270 e segg. Sent. imp.). Inoltre lo stesso Si. aveva parlato della protezione che i fratelli P. avevano garantito a familiari di B. da ingerenze calabresi. Per tale ragione si facevano pagare ingenti somme di danaro tanto che Bo. aveva commentato con Si. che stavano “tirando u radiconi” ossia lo stavano sradicando.

I rapporti di D. con Ra.Fi. avevano avuto luogo tra il (omissis), quando il prevenuto aveva lasciato la organizzazione di B., e il 1980, lavorando nelle more per la società di Ra.Br. in accomandita semplice.

I suoi rapporti con B. erano rimasti ottimi come ammesso dallo stesso imputato, il quale infatti, nel 1982 aveva accettato di tornare a partecipare con B. alla avventura della televisione, entrando negli organi direttivi di Publitalia.

Con Ra. non aveva intrattenuto rapporti risultati di natura illecita e in tal senso la originaria tesi della accusa era rimasta indimostrata.

Il separato procedimento avviato per riciclaggio era stato infatti archiviato e anche nel processo in esame erano stati acquisiti elementi in equivoci.

Tutte le richieste del PM, relative alla riapertura della istruttoria, formulate nell’appello incidentale, erano state infatti rigettate non per la assenza di elementi sui quali far luce,ma per la peculiarità dell’istituto della rinnovazione della istruttoria dibattimentale che si inserisce in un panorama di presunta completezza della istruttoria compiuta in primo grado. Mancava cioè il carattere della assoluta decisività degli accertamenti richiesti rispetto al quadro già delineato.

Il “pizzo per le antenne” è, poi, il titolo del paragrafo nel quale la Corte ha analizzato le vicende a sfondo estorsivo che sarebbero state poste in essere ai danni di B., in epoca in buona parte successiva all’omicidio di Bo.St., avvenuto nell’aprile del 1981, e alla sparizione di T.M., vittima della “lupara bianca”: dopo tali eventi, secondo la Corte, vi era invero la prova che i rapporti tra B. e la mafia, sotto l’egida di D. – C., erano continuati, essendo divenuti, i fratelli P., i successori nella esecuzione del patto di protezione e i collettori del relativo provento illecito come pure del c.d. pizzo per le antenne.

La ricostruzione degli affari di mafia aveva cioè dimostrato che il comando appartenente a Bo. era poi rifluito su R., il quale aveva designato i P. (traditori del loro stesso capo famiglia **. e presenti attivamente nel sodalizio mafioso già prima della morte di Bo., come ricostruito da Si.) al vertice, appunto, della famiglia di Santa ***** del Gesù.

Le somme da parte di Fininvest, comunque, erano cominciate a pervenire, sin dai primi anni ’80, secondo l’assunto esaminato ma non integralmente fatto proprio dalla Corte, anche per la installazione della antenne cui era interessata la Fininvest.

Prova di ciò era stata rintracciata, innanzitutto, nelle dichiarazioni del collaboratore D.C. il quale aveva riferito delle confidenze ricevute al riguardo dall’amico C.: costui gli aveva riferito che D. lo aveva investito del problema di come realizzare la “messa a posto” per la installazione delle antenne.

C. si era rivolto, dunque, per un consiglio, a D.C. perchè le antenne andavano collocate in un territorio non di competenza di Bo. e per tale motivo D.C. aveva invitato il C. a parlarne con i suoi parenti, legati alla famiglia mafiosa di Santa Maria del Gesù, perchè costoro avrebbero trovato la soluzione. Ed in effetti D.C. aveva poi saputo da C. che Bo. e T. avevano sistemato tutto.

La Corte d’appello ha sottolineato come anche le cadenze temporali del racconto fossero compatibili con la realtà storica della progressione delle iniziative della Fininvest: era, in altri termini, così dimostrato che D., grazie alle amicizie mafiose, continuava a risolvere i problemi che gli si presentavano e di ciò era conferma anche nelle dichiarazioni di altri collaboratori di giustizia.

Costoro erano g.C., A. e Ga..

Tutti costoro erano uomini d’onore appartenenti alla famiglia mafiosa della Noce capeggiata da G.R. ed hanno, in tale veste, appreso notizie che poi hanno riferito nel processo a proposito di somme di danaro pervenute a Cosa nostra da parte del gruppo imprenditoriale di B., nel periodo ora in analisi.

g.C. (figlio del capo mandamento R.) aveva saputo dal padre che C. (conosciuto presso la macelleria dei cugini Ga. al quartiere (omissis)) gli aveva riferito, nel 1984- 1985, della esigenza esternata da D., di aggiustare la situazione delle antenne televisive e mettersi dunque a posto. Nello stesso contesto C. aveva detto che D. si era lamentato di essere tartassato dai fratelli P., essendo uno di essi ( G.B.) il reggente della famiglia di Santa ***** del Gesù ( Gu.), dopo la morte di Bo..

g.C. proseguiva il racconto del padre che si era rivolto a R. il quale aveva deciso di estromettere i P. dalla vicenda affidandola al solo C.. Da quel momento i pagamenti erano stati effettuati non più ai P. ma direttamente a C. che, tramite D.N. e ga., li faceva pervenire a R..

Vi erano poi i racconti di A. e G. che avevano confermato la vicenda dei pagamenti effettuati da D. a C. anche per la questione delle emittenti televisive.

Il primo ( A.) era cugino di ga.Ca., divenuto reggente del mandamento assieme al cugino ga.Do., l’indomani dell’arresto di ga.Ra..

Ebbene A. aveva detto di avere saputo da ga.Ra. che C. riscuoteva da D., i denari in passato riscossi da Bo. e T.. A. aveva anche raccontato della narrazione fattagli da ga.Ra. circa un incontro da questi avuto nel 1985-1986 in una villa di (omissis), con C. e D. N..

Era stato in quella occasione che C. aveva parlato delle lamentele di D.M. a proposito delle vessazioni subite dai P., quale mandatario di B.. Il ga. aveva quindi deciso di parlarne con R. che aveva a sua volta assunto l’iniziativa di estromettere i P.. Secondo il racconto del ga., il R. aveva anche deciso il raddoppio della somma dovuta da B. (portata a L. 200 milioni) di cui una parte (L. 50 milioni) era comunque rimasta riservata ai P. e alla loro famiglia mafiosa.

Si trattava, secondo il collaboratore, di somme che materialmente versava D. ma che sostanzialmente provenivano da Fininvest, per la installazione, senza “problemi”, dei ripetitori in Sicilia.

Infine G. (nipote di ga.Ra. e Cugino di D. e g.C.) aveva raccontato di un colloquio sentito nella villa in cui D.N. trascorreva la latitanza verso la fine del 1986. Quello parlava con Ga.Mi. e C.G. che dichiarava di non volersi più recare a (omissis) a riscuotere di soldi da D., divenuto scostante.

Secondo tale ricostruzione, ****** (che era presente in sostituzione del padre detenuto) aveva deciso di informare R. fino a quel momento all’oscuro di tutto. R., dopo un po’ di tempo, e cioè nel 1987, aveva deciso alcune iniziative intimidatorie verso B. per aumentare la credibilità di C., tanto che D. lo aveva prontamente riconvocato a (omissis) per tentare di risolvere la questione.

Dall’interessamento di R. ad opera di G.C. era scaturita anche la successiva decisione del boss di raddoppiare la somma che B. pagava, portandola da L. 50 a 100 milioni l’anno, in cambio della protezione (e non quindi a titolo di pizzo per le emittenti). Si trattava di denaro che D. consegnava a C. a (omissis) e che questi recapitava a D.N., che lo consegnava a Ga.Ra.: costui lo divideva tra le famiglie mafiose.

I soldi, secondo tale collaboratore, erano stati riscossi fino al 1995 e in una occasione il dichiarante aveva assistito al passaggio di mano dei denari stessi (pag. 297 sent).

Riportate le tre ricostruzioni, oltre a quella di D.C., la Corte osserva che le prime coincidono nel nucleo essenziale e qui di rilievo: esse sono state tutte acquisite con riferimento al periodo compreso tra il 1984 e il 1986, e testimoniano di somme che Fininvest, con la mediazione di C. e D., pagava a cosa nostra per ottenere sia protezione personale che protezione sulle attività economiche.

Non vi sarebbe, secondo la Corte, neppure una discrasia tra le dette versioni e l’epoca (1980) in cui la Fininvest aveva cominciato ad avere interesse per la installazione delle antenne.

Infatti il 1984 e il 1986 erano le epoche in cui i collaboratori avevano appreso della esistenza di quei pagamenti, da collocare, viceversa, anche in epoche precedenti.

E si trattava di estorsioni visto che Ga.Ca. aveva parlato del fatto che D. li considerava “tartassamenti” ad opera dei P..

Inoltre la credibilità di G. sull’atteggiamento scostante di D. verso C. aveva trovato una serie di riscontri.

Il primo era costituito da una conversazione telefonica intercettata il 25 dicembre 1986 (contestualmente dunque alla riunione del 1986 nella villa di (omissis) nel corso della quale C. aveva formulato le sue lamentale sul conto di D.) tra D.A. (fratello dell’imputato) e C. (intercettazione invero acquisita da altro processo): ebbene in essa il C. faceva proprio riferimento al fatto che D. fosse ormai solito farlo aspettare o sparire.

Il secondo riscontro è indicato nel fatto che quelle lamentele avevano provocato la reazione di R. che aveva inviato G. D. a (omissis) ad effettuare intimidazioni telefoniche e per lettera a B., d’intesa con S.N. che in quello stesso periodo stava attuando (dal proprio territorio e cioè, appunto, da Catania) autonome iniziative intimidatorie ai danni di B..

In sostanza, secondo il racconto di G., R. voleva approfittare della situazione creata da S. aumentando il potenziale intimidatorio con iniziative proprie che però egli voleva far credere a B. provenissero dalla stessa matrice etnea.

Ebbene, effettivamente, in quel periodo (fine 1986) di un attentato vi è prova ed è quello alla villa di via (omissis) di B. ((omissis)).

Dalla conversazione che poche ore dopo B. ebbe con D. (29 novembre 1986, poco dopo mezzanotte) si evince che il primo aveva attribuito la iniziativa a M. e che D. si era mosso per prendere le proprie immediate informazioni.

Tali informazioni gli vennero da C. (in quel periodo presente a Milano per riscuotere da D. la tranche della estorsione già pattuita, così come riferito da Ga., A. e G.) il quale fu in grado in poche ore di fornire risposte precise e perentorie a D. (che le riportò a B.) circa il fatto che la matrice dell’attentato non era palermitana.

Ben poteva dunque essere di matrice catanese, come affermato da G..

E tali telefonate rappresentano, come già detto in altro passaggio della sentenza dalla Corte, una rilevante prova della natura effettiva dei rapporti tra D. e C. il quale sapeva di potersi rivolgere a tale personaggio per chiarire fatti di rilevante importanza criminale, così lasciando fuori le forze dell’ordine e rafforzando il canale comunicativo tra la organizzazione imprenditoriale di B. e Cosa nostra per la soddisfazione dei reciproci interessi.

Inoltre la richiesta di chiarimenti che D. rivolse a C. era la dimostrazione del riavvicinamento tra i due proprio l’indomani dell’attentato a via (omissis) e cioè la prova del raggiungimento del risultato perseguito da R. che era intervenuto proprio per superare la impasse nel rapporto tra i due esponenti, lamentato a suo tempo da C..

Quel riavvicinamento era la dimostrazione tangibile del prolungamento e della riaffermazione dell’assoggettamento di B. alle pretese illecite del sodalizio mafioso, concretizzatesi nel raddoppio della pretesa patrimoniale.

Troverebbe riscontro, secondo la Corte, anche la versione del G. sulla causale del pagamento di somme, a quell’epoca, da parte dei gruppi di B.: e cioè per la protezione personale e non per la collocazione dei ripetitori, secondo quanto raccontato da C.. A sostegno di tale ricostruzione la Corte valorizza la conversazione intercettata tra D. e C. la mattina del 16 gennaio 1987: C. annunciava il suo immediato ritorno a (omissis) per comunicare all’interlocutore il fatto che, per la questione della televisione “quelli non vogliono pagare”.

Una locuzione alquanto criptica che però secondo la Corte riscontra la tesi di G. secondo cui B. pagava somme per la protezione personale ma non anche per le emittenti televisive pretendendo che per quelle pagassero i titolari locali delle emittenti stesse.

F.G.B., dal canto suo, è indicato dalla Corte come ulteriore fonte a sostegno della tesi del pagamento di somme da parte della Fininvest a Cosa nostra.

Egli era uomo d’onore dal 1980, in carico alla famiglia mafiosa di San Lorenzo che all’epoca era parte dell’omonimo mandamento, retto da ****** (autista di R.), essendo detenuto il reggente g..

Ebbene il F., che non aveva mai conosciuto il D., ha però deposto sulla circostanza che per il suo capo mandamento g., Bi. riceveva, con cadenza fissa, somme provenienti da (omissis) che gli venivano consegnate da Ga.Ra., capo del diverso mandamento della N. (suo cognato).

Erano somme pervenute dal 1988-1989 fino al 1992 e di tale data finale egli si è detto sicuro. Egli assistette anche, in una occasione, alla consegna di L. 5 milioni.

Sul ruolo di Ga.Ra. vi è dunque assoluta convergenza delle dichiarazioni di F. con quelle di G..

La Corte, riguardo alle annotazioni di versamento di una somma da parte di (omissis) su due rubriche fatte recuperare da F., si è peraltro detta dubbiosa nel senso che non ha ritenuto infondate le critiche difensive sulla significatività delle annotazioni stesse (pag. 311 sent. imp.).

E in tale prospettiva ha reputato anche inutili eventuali approfondimenti sul tema delle annotazioni, anche perchè comunque non vi era garanzia della loro completezza ed esaustività.

Semmai la tesi della difesa, secondo cui la somma annotata doveva riferirsi al pagamento fatto in occasione della cessione di una emittente locale, rafforzerebbe l’assunto di G. che aveva riferito la risposta di C. (dopo l’incontro con D. l’indomani dell’attentato di via (omissis)) secondo cui B. accettava di pagare anche il raddoppio del pizzo chiesto da R. ma non quello per i ripetitori per i quali dovevano essere compulsati i locali.

Del versamento di somme da parte della Fininvest aveva parlato anche A. A. che aveva riferito di confidenze di ga. V. (pag. 313 sent. imp.).

La Corte spiega poi le ragioni per le quali, così come già il Tribunale, non ha ritenuto fonte di prova le dichiarazioni generiche di D.N. G. sul fatto che a partire dal 1995 quello avrebbe tenuto un libro mastro relativo alle estorsioni in cui avrebbe annotato la posizione di “(omissis)”.

Vengono ricordate poi anche le dichiarazioni convergenti, sul tema, di Cu. S., S. F. e Si. A..

Infine La corte ha citato quelle di Ca. S. per evidenziarne la scarsa affidabilità a causa della progressione accusatoria.

Costui, in linea con le altre deposizioni, aveva parlato della successione dei percettori (da Bo. a P.) e dell’epoca (fino a poco prima la strage di Capaci del 1992), assistendo in un caso anche alla divisione delle somme.

Tutto ciò premesso la Corte ha tirato le fila, come sopra preannunciato, della tesi accusatoria che essa ha accreditato, a proposito della configurazione del concorso c.d. esterno di D. e C. nella associazione mafiosa, fino al 1992.

E’ stata ritenta raggiunta la prova, cioè, della continuità dei rapporti tra D. e C., da un lato e Bo. e in seguito R., dall’altro, fino agli inizi degli anni ’90, per il pagamento- con causale estorsiva- di somme da parte di B. alla mafia.

I due imputati fungevano da tramite nel senso che C. era colui che materialmente riceveva le somme e D. (che dal 1983 era il consigliere delegato di Publitalia, il polmone finanziario di Fininvest) e costui era il tramite presso la fonte della erogazione.

In ultima analisi D. è stato inteso come colui che, intrattenendo rapporti cordiali e continuativi con i vertici di Cosa nostra, aveva garantito a tale organizzazione di accrescere il proprio spessore criminale avvantaggiandosi degli introiti e dei contatti diretti col gruppo imprenditoriale- di enormi capacità economiche- proprio di B..

A ribattere le perplessità della difesa sul fatto che sarebbero comunque state escogitate soluzioni per risolvere quei problemi, la Corte ha evidenziato che di fatto fu proprio D. a proporsi in concreto quale soggetto dotato delle capacità e delle conoscenze idonee, inducendo l’amico a soddisfare le ingenti pretese estorsive della mafia.

Cosa nostra, dal canto suo, sfruttando a sua volta i rapporti preferenziali ed amichevoli tra due suoi esponenti ( C. e M.) e D., aveva potuto avvantaggiarsi del canale di collegamento sempre aperto e proficuo per conseguire i propri scopi illeciti. La cordialità e continuità dei rapporti detti fa dunque giustizia, ad avviso della Corte, della tesi difensiva secondo cui il D. avrebbe agito solo per tutelare gli interessi dell’amico estorto.

Egli era, in altri termini, consapevole ed aveva accettato in pieno che, grazie al proprio comportamento, la mafia traesse i propri vantaggi dal rapporto con B..

E tale comportamento risulta accertato, secondo la Corte, e a differenza di quanto ritenuto dal Tribunale, non oltre il 1992: e ciò alla luce della interpretazione di dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia.

Non vi sarebbero, infatti, prove sufficienti della sua effettiva continuazione oltre tale data.

Nel senso detto aveva deposto Ca.Sa. (allora al vertice del mandamento di Portanuova fino al 1993, quando si costituì) che aveva indicato plausibilmente la data della strage di Capaci come quella, che per la inaudita gravità della azione violenta, mise fine a qualsiasi patto o trattativa allora in essere.

Nello stesso senso la Corte ha citato le dichiarazioni di F. che aveva anche avuto per le mani i soldi del pizzo pagato da Fininvest e che, viceversa, aveva attestato la continuazione dei pagamenti (nel 1993) da parte di altro soggetto estorto (la Sigros di (omissis)).

Dichiarazioni diverse non sono pervenute da altri collaboratori se non da G. A. il quale è il solo ad avere parlato di esborsi di B. fino al 1995.

La Corte non ha ritenuto però che tale affermazione, unica e priva di altri riscontri, potesse essere preferita a quella degli altri due collaboratori, tanto più che G. aveva riferito di richieste sul tema fattegli da D.N. (reggente della famiglia della Noce) e che quando era divenuto a sua volta reggente non aveva visto, per tutto il 1995, arrivare somme di denaro.

Dunque per il periodo successivo al 1992 la Corte non ha ritenuto che vi fosse prova del reato in contestazione, tenuto anche conto che tale prova deve consistere, secondo la costante giurisprudenza in tema di concorso esterno, in contributi concreti e non nella semplice disponibilità o vicinanza ai mafiosi.

Segue la trattazione di argomenti ritenuti dalla Corte, a differenza del Tribunale, non utili a delineare ulteriormente la qualità dei rapporti che D. avrebbe mantenuto con Cosa Nostra.

Si tratta, in primo luogo, della valutazione della vicenda relativa agli attentati ai magazzini (omissis), compiuti nel numero di cinque nel 1990 (essendo quei magazzini di proprietà della Fininvest): una serie di eventi che la Corte, svalutando la credibilità delle dichiarazioni di ciascuno dei collaboranti che ne avevano parlato come causa della riattivazione dei rapporti di D. con Cosa nostra, ha escluso dal novero di quelli significativi nella prospettiva della dimostrazione di ulteriori intromissioni e mediazioni da parte di D. a favore di Cosa nostra e dei gruppo di B..

Quegli attentati erano stati oggetto di un separato processo (c.d. Orsa Maggiore) celebrato a (omissis) e concluso nel 2001 con la condanna, quali mandanti, di S.N. e del nipote E.A..

L’estorsione sottostante era rimasta nella forma del tentativo e i giudici avevano escluso, ad avviso della Corte, che fosse configurabile, nella vicenda, un movente politico rappresentato dal tentativo di agganciare Con. C.B., tramite B..

La Corte ha disatteso, dunque, la tesi del Tribunale secondo cui, riguardo a tali attentati, D. si sarebbe attivato con Cosa Nostra per trovare una soluzione pacificatrice. Una simile trattativa risulterebbe infatti esclusa in primo luogo dalla Corte di assise di Catania che ha giudicato quei fatti.

Il coimputato Sa.Cl., aveva a sua volta ammesso il solo fine estorsivo dei danneggiamenti.

Altro collaboratore, Pa., era stato ritenuto scarsamente indicativo già dal Tribunale. Ed anzi la Corte ha evidenziato il contrasto tra le più versioni da esso rese in proposito. Versioni in parte connotate anche da tardività (riguardo ai rapporti tra D. ed E. nel 1993).

Ugualmente negativo è il giudizio sulle dichiarazioni del collaboratore m. F., soggetto che aveva operato con *****., (omissis). Egli aveva reso, secondo la Corte, dichiarazioni incerte quanto alla vicenda degli attentati alla Standa e soprattutto aveva coinvolto la persona di D. non nel 1994, quando aveva iniziato la collaborazione, ma solo in occasione del presente processo: e di tale rilievo si era fatto carico anche il Tribunale che aveva evidenziato la progressione accusatoria, per poi tralasciare la notazione. Invece la Corte ha giudicato false le accuse mosse tardivamente da m. a D..

I giudici hanno esaminato poi le dichiarazioni di Pu. G., appartenente alla famiglia mafiosa di S.N..

Egli aveva attribuito a quest’ultimo la iniziativa degli attentati ed aveva riferito di una riunione mafiosa, avvenuta nel 1991, nella quale si era conferito ad altro esponente del sodalizio, Tu.

S., l’incarico di contattare nuovamente D. per ottenere il pagamento dell’elevato pizzo richiesto.

Anche in questo caso si era registrata una sospetta tardività della dichiarazione, resa nell’ambito del processo Orsa maggiore, nel maggio 1996, a distanza di oltre un anno e mezzo dall’avvio della collaborazione.

Pur sostenendosi, da parte della accusa, che vi erano altre tracce di quelle accuse, il PM, secondo quanto affermato dalla Corte (pag. 339) non aveva dato prova dei presunti precedenti interrogatori in tal senso mentre aveva prodotto un quaderno con appunti manoscritti che, sottoposti a perizia, non avevano rivelato riferimenti al fatto in esame.

Di oltre quattro anni poi era stato il ritardo con cui Pu. aveva parlato agli inquirenti del fatto che gli attentati alla Standa avrebbero visto coinvolta la mafia palermitana. D’altra parte, nelle pur tardive dichiarazioni del 1996 il collaboratore aveva parlato della interlocuzione di D. a proposito della vicenda degli attentati Standa ma non anche del tramite, Tu., attraverso il quale si sarebbe dovuto contattare D..

Solo nel presente processo il collaboratore aveva parlato di un rapporto tra Tu. e D. in atto sin dai 1982 con il pagamento di uno stipendio di L. 3 milioni per la protezione della Standa.

Di un simile rapporto economico e della causale il Pu. non aveva riferito quando era stato sentito dalla Autorità di Catania nel 1996 avendo parlato solo del fatto che Tu. era in rapporti con un direttore della Rinascente ( Tr.) e che, nella nota riunione mafiosa, era stato indicato come colui che avrebbe dovuto parlare con Tr. il quale a sua volta avrebbe dovuto contattare “uno di Milano” per il pagamento a sua volta del pizzo.

Era stata cioè presentata come mera congettura del collaborante quella del riferimento a D. come il personaggio di Milano da contattare.

In conclusione il giudizio sulla attendibilità di Pu. è stato negativo sia per la sua tardività sia perchè del tutto falsa è stata ritenuta la menzione dello stipendio che Tu. avrebbe percepito da D. per la protezione della Standa sin dal 1982, tenuto conto che quei magazzini sono stati acquistati da Fininvest nel 1988.

La Corte ha ritenuto poi del tutto incerta la tesi della accusa (fondata sulle affermazioni di Si.) circa il fine politico degli attentati alla Standa compiuti da S.: quel fine può infatti ritenersi dimostrato con riferimento ai mafiosi palermitani che miravano, dalla metà degli anni ’80, ad avvicinare anche l’on Cr.Be.. Ma si trattava di un fine del tutto vago se è vero che Br. (v. dich. di Si.) incitava S. nel 1991 ad azioni intimidatorie contro B. e che R. avviò la stagione stragista tra il 1992 e il 1993, segno di assenza di contatti politici.

Negativo è infine il giudizio della Corte sulla credibilità del collaboratore di area catanese A. M..

Il giudizio era già stato negativo nel processo Orsa Maggiore quando quello aveva parlato dei rapporti tra D. e Tu. finalizzati alla mediazione dopo gli attentati Standa.

Uguale giudizio è stato ribadito dai giudici dell’appello i quali hanno posto in evidenza fatti indicativi della negativa personalità dell’uomo (pag. 347).

Si è passati poi ad esaminare, sempre sul tema degli attentati e della loro possibile rilevanza ai fini che ci occupano, le dichiarazioni di ga.Vi., rese nel 2000.

Costui aveva riportato le confidenze di ******** (cognata dell’imputato) a proposito del fatto che costui avrebbe sistemato la vicenda degli attentati alla Standa parlando, in Sicilia, con tale pa..

Ebbene il Tribunale aveva evidenziato gli elementi di fatto che rendevano plausibile che un personaggio con quel nome esistesse e godesse di una posizione – per conoscenze- tale da porlo in rapporti sia con l’imputato che con Tu. e con E.. Ma, ha diversamente notato la Corte, tali ultimi rapporti risultano riscontrati solo in epoca decisamente successiva ai fatti di interesse e cioè successivamente al 1990.

Il Tribunale aveva invero valorizzato in proposito la prova di due viaggi aerei compiuti da D. in Sicilia nel primo semestre del 1990 e quindi in epoca immediatamente successiva agli attentati di gennaio- febbraio. Tuttavia si era trattato di elementi indiziari privi di consistenza cui la Procura generale aveva tentato di trovare riscontri con richieste istruttorie, (rigettate dalla Corte perchè all’evidenza inidonee ad apportare elementi sicuramente utili al chiarimento della vicenda.

I soggetti invece sentiti sul punto, su richiesta formulata ai sensi dell’art. 603 c.p.p., sono stati lo stesso pa. e il teste di riferimento L.M.M.P..

Il primo ha categoricamente escluso si essersi a qualsiasi titolo interessato della vicenda degli attentati alla Standa, affermando di avere conosciuto l’imputato, per la prima volta, anni dopo e cioè nel 1993. Ha anche negato anche di avere avuto colloqui, sul tema, con la L.M.. Il pa. ha anche chiarito di avere avuto, con E.A., un solo incontro per motivi di lavoro (essendo la moglie di costui titolare di una attività commerciale) e traccia di tale incontro è stata effettivamente rinvenuta in una conversazione intercettata il 27 marzo 1992. Non può ritenersi al contrario – ha proseguito la Corte – che i rapporti tra E. e pa. fossero stati comprovati dalle affermazioni di Pa. F.: costui era stato autore di dichiarazioni già giudicate manifestamente tardive anche in relazione ad altre circostanze riguardanti D. e ai suoi rapporti con E..

Si era trattato comunque, a parere della Corte, di affermazioni del tutto generiche (pag. 355).

In conclusione la tesi dell’avere ricevuto ga. confidenze sui pretesi rapporti di mediazione e di intesa tra D. e pa. non ha trovato alcun sostegno probatorio e la contraria convinzione del Tribunale sul punto è stata ritenuta dalla Corte, priva di ogni fondamento. Non sono state neppure apprezzate dalla Corte prove diverse del predetto rapporto pa. – D., rapporto negato da entrambi i protagonisti e rimasto affidato alle dichiarazioni della teste Mo. (Polizia giudiziaria) che condusse le indagini sul punto ma che, all’esito dell’esame in dibattimento, ha anche dovuto ammettere la scarsezza dei risultati probatori. La teste ha dovuto fare retromarcia anche sulla affermazione dell’avere avuto, il ga., un ufficio dentro Publitalia, essendo rimasto confermato solo che poteva avere avuto un ufficio a (omissis).

Anche L.M.M.P., sentita a dibattimento, ha negato qualsiasi confidenza e qualsiasi conoscenza di possibili rapporti anche solo indiretti tra pa. e l’imputato a proposito degli attentati alla Standa.

La Corte ha quindi concluso osservando che non vi è motivo per non credere a pa., soggetto incensurato e che ha visto pronunciare nei propri confronti sentenza assolutoria con formula piena relativamente alla imputazione inerente la legge armi e l’art. 416 c.p. (pag. 358), dopo essere stato arrestato, con gran clamore nel 1995, a seguito di indagini affidate anche alla M..

La vicenda dei viaggi aerei è dunque priva di valenza indiziaria.

Del pari è del tutto priva di fondamento quella che per il Tribunale sarebbe la prova logica dell’interessamento di D. in relazione alla vicenda degli attentati: e cioè la loro improvvisa cessazione, non potendo, questa, essere posta in alcun modo, in relazione, ad iniziative comprovate dell’imputato.

La Corte ha passato quindi in rassegna, per escluderne parimenti qualsiasi fondamento probatorio, a differenza di quanto ritenuto dal Tribunale, anche la questione dei rapporti che D. avrebbe intrattenuto con i fratelli mafiosi G. e Gr.Fi., rapporti che l’accusa aveva ritenuto di dimostrare attraverso la circostanza che un sodale e favoreggiatore dei Gr., D., con costoro tratto in arresto, aveva ottenuto che questi esercitassero una pressione sull’imputato per far sì che fosse concesso un provino calcistico al figlio minorenne dello stesso D..

Ebbene, non si è discusso del fatto che i Gr. fossero al vertice di Cosa nostra nel mandamento di ********** e che fossero stati arrestati a (omissis) nel gennaio 1994, unitamente a S. S. e D. G., accusati di avere favorito la latitanza dei Gr..

D. aveva subito riferito di essere giunto a (omissis), già qualche tempo prima, al seguito dell’amico Ba.Ca. che gli aveva assicurato di trovargli un lavoro tramite un tale sig. D.. Proseguiva anche affermando che il Ba. era deceduto e l’interessamento non c’era stato.

A breve distanza di tempo il D., con una lettera inviata al Gip di Milano, aveva anche affermato che quando era venuto a (omissis) con Ba., nel 1992, lo aveva fatto essendo ospite del Milan- calcio perchè suo figlio, ancora un bambino, doveva essere sottoposto ad un provino.

E il Ba. gli aveva promesso interessamento, conoscendo il D..

Il Ba. aveva dunque tentato senza fortuna di mettersi in contato con D. e del provino che il bambino avrebbe dovuto sostenere era infatti traccia in annotazioni della segretaria di D., sulla agenda i questi.

Orbene, D. è stato creduto dalla Corte quando in un primo momento ha sostenuto di non ricordare neppure chi fosse Ba.

C., che in realtà non era riuscito a parlargli. Anche D., quando nel 1994 era stato arrestato di nuovo con accusa di partecipazione ad associazione mafiosa, aveva escluso in modo categorico che D. fosse entrato nella vicenda in esame.

La Corte d’appello ha concluso dunque sostenendo che non vi è prova alcuna della tesi accreditata dal Tribunale secondo cui invece D. si sarebbe interessato al provino calcistico del figlio d D. e ciò avrebbe fatto su richiesta dei fratelli Gr. di **********.

Infatti tale infondata conclusione poggia, ad avviso della Corte, su una presunzione e cioè sul rilievo che nel 1994, quando D. padre era stato alfine arrestato per la sua vicinanza ai fratelli Gr., vi sarebbe stato un secondo provino, questa volta caduto sotto l’egida dei Gr., che si sarebbero rivolti a D. il quale a sua volta si sarebbe rivolto al tecnico Z..

Ma il Tribunale ha ignorato – prosegue la Corte- che il preteso rapporto tra D. e i Gr. lo stesso D. ha negato sia con riferimento al 1992 che al 1994. D. ha parlato invero dell’interessamento dei G. solo per trovare un lavoro a (omissis) e tale tesi è la stessa sostenuta nella fase delle indagini.

Neppure il riferimento al luogo del lavoro promesso (presso l’Eurocommericale) troverebbe riscontro nel nome dei magazzini posseduti da Fininvest che si chiamavano Euromereato.

D’altra parte la Corte non ha creduto alla ipotesi che D. possa avere voluto nascondere i propri rapporti con D. tenuto conto che, anzi, sin dal primo momento, ne fece il nome come quello del soggetto cui il suo amico Ba. aveva promesso di rivolgersi.

In senso contrario la Corte non ha ritenuto che potessero valere le affermazioni di S. arrestato nel 1994, assieme a D.:

tale soggetto (pag. 371) aveva reso invero dichiarazioni non credibili per la loro progressione accusatoria e per il totale contrasto con quanto riferito nelle indagini preliminari.

Anche il tecnico Z., sentito, ha fornito elementi per giungere alla conclusione certa che il provino risalì al 1992.

Dell’ulteriore provino del 1994, in conclusione, ad avviso della Corte non vi è traccia probatoria.

Anche il teste Bu., le cui dichiarazioni secondo la Corte risulterebbero mai formalmente acquisite e quindi inutilizzabili (pag. 375) ha negato che si fosse potuto svolgere il nuovo provino.

Le affermazioni sul presunto interessamento di D. al provino del giovane D. provenienti da p.G., d’altra parte, sono risultate frutto di considerazioni personali della sua fonte ( Lo.).

I fratelli Gr., dal canto loro (anzi il solo F., dato che G. si è avvalso della facoltà di non rispondere) hanno negato i rapporti con D. in relazione alla vicenda de quae più in generale.

La tesi della raccomandazione dei G. presso D.,in favore di D., fondata su presunzioni e su dichiarazioni di un paio di collaboratori non attendibili,e viceversa smentita da una serie di contrarie emergenze, non ha trovato, dunque per la Corte, contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale, alcuna conferma.

Sono poi state passate in rassegna (pag. 379), con identica conclusione, le vicende dell’interessamento, da parte di D., per conto di B., all’acquisto di un immobile di (omissis), immobile alfine acquistato da tale pi., soggetto vicino ai Gr. che avrebbero fatto pressioni per far ritirare altri interessati. Sul punto è anche intervenuta una indagine conclusa con archiviazione.

La Corte d’appello ha affrontato quindi, nell’ottica della contestazione del concorso eventuale in associazione mafiosa, l’ulteriore tema di prova costituito dai presunti rapporti tra mafia e politica, aprendo, sul piano logico e in parte anche della ricostruzione storico-giudiziaria, alla tesi che un “interessamento” da parte di R. verso B., a causa della sua amicizia con Cr., sia plausibile. Ha però ritenuto di potere concludere sull’argomento, alta luce di quanto riportato dai collaboratori (pag.

383), che non è stata raggiunta prova di un “patto politico” con Cosa nostra.

Dal 1987 si era deciso, infatti, di appoggiare dapprima il partito socialista abbandonando la democrazia cristiana: e si era trattato di un periodo nel quale nè B. nè D. avevano formulato progetti politici, mutando rotta solo nel 1993.

Quindi, per le elezioni politiche tenutesi nel 1992, l’appoggio al PSI era stato revocato perchè era risultato improduttivo ed aveva avuto inizio la strategia della guerra diretta allo Stato, tanto più che era appena passata in giudicato la prima sentenza del maxi processo contro la mafia, evento che aveva cagionato l’omicidio dell’allora sostituto Procuratore Generale Sc. che aveva sostenuto l’accusa.

In quel periodo, attorno al 1993, era poi maturata, invece, la scelta di creare un partito autonomista e ciò dimostrava, ad avviso della Corte, che non vi erano per la mafia, all’epoca, significativi contatti con ambienti politici.

Invero- ricorda la Corte d’appello- si era tentato, su iniziativa di Ba., all’epoca latitante, di dare vita ad un simile partito, dando mandato a ca.Tu. che non era uomo d’onore ma aveva curato la latitanza di Ba. fino al 1995, data del suo arresto.

Ba. era, in precedenza, succeduto al cognato R., catturato nel 1993.

La conoscenza di ca. con Ba. era derivata dalla comune frequentazione del quartiere di ********** di Palermo unitamente ai fratelli Gr..

Erano stati costoro a richiedere a ca. di ospitare il latitante Ba. nel suo residence in loc. (omissis) e in quella occasione il capomafia gli aveva dato incarico di provare a formare un nuovo partito.

Fu effettivamente fondato, nell’ottobre 1993, il movimento politico Sicilia libera, voluto dunque da Ba. e contestualmente avevano visto la luce anche altri movimenti analoghi, ben presto (gennaio 1994) destinati ad essere abbandonati: ciò soprattutto in ragione del fatto che Cosa nostra aveva, di lì a poco, deciso di appoggiare Forza Italia.

Il ca. aveva dichiarato che, secondo quanto riferitogli da Ba., questi aveva agganci nel nuovo partito.

In realtà però questi agganci non erano emersi dato che, quando ca. aveva fatto pressioni su Ba. per far inserire esponenti di Sicilia Libera nelle liste di Forza Italia, il tentativo di avvicinare il responsabile ( Mi.) non era andato a buon fine. E, soprattutto, ca. ha riferito che egli stesso, con una mera supposizione personale (“un peccato di pensiero”) aveva pensato che Mi. potesse subire la influenza di D., al riguardo.

Sul punto la Corte ha invero disatteso del tutto la tesi del PG riguardo al fatto che ca. abbia riferito agli inquirenti meno di quello che realmente sapeva a proposito del reale ruolo svolto da D., sottolineando la assenza di prove in tal senso.

Lo stesso ca., che pure ha menzionato il nome di M. come possibile implicato nella vicenda delle liste, è stato ritenuto, sul punto, privo di affidabilità dalla Corte.

Sono poi state esaminate le dichiarazioni sul tema di Ca.

A., autista di Ba., con lui arrestato nel 1995.

Ebbene, Ca. A. aveva confermato la iniziativa di Ba. riguardo alla formazione di un partito tutto di Cosa nostra, nel 1993: quel progetto era finalizzato ad adottare iniziative soprattutto legislative favorevoli alla mafia ma era stato abbandonato per problemi finanziari e per la sopravvenuta decisione di votare Forza Italia. Ancora una volta, però, nota la Corte, senza che risultino stipulati patti al riguardo tra mafia e politica.

La ragione dell’appoggio al partito di F.I. era infatti nella linea garantista che lo stesso propugnava e che poteva tornare utile alla mafia.

Anche Ca. aveva fatto invero il nome di M. come della persona di cui aveva sentito parlare da Ba. : quello doveva, cioè, servire a sostenere il ca. nella nuova iniziativa partitica perchè aveva “infarinature” di politica essendo stato lo stalliere di B.. Era stato per contattato da Ba. che lo aveva poi riferito a Ca..

Sul punto, peraltro, la Corte registra una divergenza radicale con quanto riferito da ca. che, pure officiato da Ba., non aveva mai affermato di essere stato posto in collegamento con M. per la fondazione di Sicilia Libera.

Nelle parole di Ca. la Corte di appello ha registrato comunque la indicazione del coinvolgimento di M. nelle vicende di interesse per la mafia, dopo l’affermazione politica di Forza Italia nel 1994, quando, per questo, Ba. aveva revocato la condanna a morte pronunciata a carico di M. stesso, che “ancora poteva servire”. Ma senza alcun riferimento al partito o a B.. Tantomeno a D..

Nelle parole di Ca., in sintonia con gli altri collaboratori, è infatti la ben più semplice affermazione che la adesione di Cosa nostra a Forza Italia fu dovuta ai principi garantisti di cui tale partito si faceva propugnatore: quindi una adesione spontanea.

La Corte non si è sottratta peraltro alla indagine sul se possa esserci stato, comunque,in occasione dei detti sommovimenti partitici, un reale interessamento di D. in favore di Cosa nostra, nella forma di una promessa da parte sua.

Secondo la tesi della accusa, rileva la Corte che la risposta dovrebbe essere affermativa, ma i giudici di secondo grado non hanno convalidato un simile assunto osservando che tale genere di prova non può essere certo fatta discendere dalla sola circostanza che D. fu innegabilmente, nel settembre 1993, (a differenza di c. e L.) un sostenitore della idea di B. di fondare un nuovo partito: idea, le cui motivazioni esulano dal tema oggetto di prova. Nè la stessa prova può farsi discendere, sul piano logico, dal mero rilievo che negli anni precedenti D. si era adoperato per far pervenire a Cosa nostra lauti incassi di somme oggetto di azioni criminose ai danni di B..

Una prima risposta negativa, di tipo logico, a tale domanda, la Corte la ha ricavata dal rilievo che Forza Italia conseguì, all’esito delle elezioni politiche del marzo 1994, un successo su tutto il territorio nazionale e dunque non solo in Sicilia ove operava la associazione mafiosa.

D’altra parte era rimasto provato anche che, ancora alla fine del 1993, Cosa nostra cercava nuovi contatti politici e, non avendoli trovati, si era orientata verso la fondazione di un partito siciliano autonomista a caratterizzazione mafiosa.

Solo alla fine del 1993 e all’inizio del 1994, la idea del partito autonomista era stata abbandonata e quindi, prosegue la Corte, quantomeno fino a tutto quel periodo deve escludersi che Cosa nostra possa avere conseguito i ricercati canali politici nazionali, in special modo quello rappresentato da D..

La Corte ha peraltro anche ricordato che sono state acquisite, in senso contrario, le dichiarazioni del collaborante gi. A. (arrestato nel 2002 ma tornato in libertà nel 2003), uomo vicino a R. e Pr.. gi. aveva esordito parlando della ricerca di canali politici nazionali da parte di Cosa nostra fino al 1993, ma poi aveva reso dichiarazioni a sostegno della tesi accusatoria connotate da evidente progressione accusatoria e quindi non ritenute valide prove (per la parte di novità di quelle successive) sia nel giudizio Tribunale che in quello della Corte.

Le sue conoscenze sul tema derivavano dalla confidenze ricevute da Pr. quando gi. era tornato libero nel 2003. Aveva cioè appreso della volontà di Pr. (in contrasto con quella della fazione Ba., G., Br.) di cercare referenti politici istituzionali, referenti da sempre ricercati da Cosa nostra nei “vincitori” alle elezioni e non creati come un progetto politico proprio di Cosa nostra (pag. 408).

Nello stesso senso si era del resto già espresso C. che aveva parlato di una scelta spontanea, da parte di Cosa nostra, di votare il Partito di Forza Italia per il favorevole programma politico da questo coltivato.

Tale spontanea scelta non era stata accompagnata, secondo le conclusioni raggiunte dalla Corte, da un comprovato “aggancio” da parte di Cosa nostra di referenti all’interno di Forza Italia.

Infatti, le dichiarazioni sul punto di gi., a proposito delle “sicurezze” che Pr. aveva detto di avere ricevuto da parte del nuovo partito da votare, sono apparse alla Corte intrinsecamente contraddittorie, perchè connotate da evidente progressione accusatoria nei riguardi di D.M..

La Corte ha passato analiticamente in rassegna le ragioni di tale suo convincimento a partire da pag. 411 della sentenza ponendo in evidenza come .giuffrè ,.n.p.i.d.

2.a.p.s.g.d.g.r.d.

.**********.

A.e.i.q.s.c.i.c.m.a.a.c. s.d.c.e.f.v.a.c. D.p.a.s.n.d.”.c.s.d.

c.l.C.s.e.s.p.s.c.e.

i.”.f.”.e.n.a.

I.t.l.l.C.h.e.c.i.q.

a.d.e.i.c.a.r.e.c. .********** a.f.n.e.r.”.

L.C.e.p.q.a.n.c.t.v.a.

r.u.p.s.m.l.n.2.n. c.d.s.i.I.e.i.c.a.

a.c.a.e.c. P. avesse fatto nomi ma aveva aggiunto che il suo sodale G.C. aveva fatto lui i nomi (del costruttore I. per conto dei fratelli Gr.).

Pr., nei comunicare la scelta politica di Cosa nostra, era sembrato quasi fatalista (…che *** ci aiuti”).

Poi però incalzato da domande anche suggestive del PM, aveva dapprima omesso di fare nomi e in seguito aveva detto di vedere affiorare nuovi ricordi, attribuendo a Br. il fatto di avere nominato, nel senso che qui interessa, l’avv. ******* di B.. In terza istanza, su domande del PM riguardanti proprio M.V., aveva risposto confermando il coinvolgimento di costui e per la prima volta di D.M., indicato però soltanto come oggetto di una personale supposizione (su indicazione asseritamente proveniente da Br.).

Sulla base di tutti gli elementi fin qui considerati la Corte ha espresso il motivato avviso che, prima del dibattimento, gi. non conoscesse alcunchè di concreto capace di coinvolgere l’imputato, avendo oltretutto fatto il nome di D. solo come di colui che si occupava del nuovo partito, mentre a M. esclusivamente aveva attribuito il ruolo di canale di collegamento con i vertici del partito stesso.

Per tale ragione la Corte non ha ritenuto di potere attribuire credibilità alle dichiarazioni apertamente accusatone rese da gi. in dibattimento e in insanabile contrasto con quelle formulate durante le indagini. Durante il dibattimento aveva infatti attribuito a D. la inequivoca patente di persona molto vicina a Cosa nostra, autore di garanzie politiche in favore della associazione mafiosa. Il ruolo primario di D., secondo quanto affermato da gi. in dibattimento, era stato descritto da Pr., A. e Gr.. Nella stessa occasione era stato descritto l’altrettanto importante ruolo di M..

Il ruolo di M. in Cosa nostra nel 1993-1994 era stato tuttavia ritenuto di importanza centrale dal Tribunale, come ricordato nella prima parte della presente esposizione, tanto da superare i limiti di credibilità del gi.. M., all’atto della sua scarcerazione nel giugno 1990 (dopo dieci anni di restrizione anche per grave reato) era divenuto, in breve (e cioè dopo la decisione di Ca. di costituirsi nel luglio 1993) il reggente della famiglia di Porta nuova (così avevano dichiarato C. e Cu.) perchè era il solo soggetto in grado, in quel momento, di sostituire il capo avendone condiviso le conoscenze.

Ebbene, secondo quanto riferito da G. (per averlo appreso da Cu.), dopo le elezioni del 1994 quest’ultimo aveva proposto di inviare M. a (omissis) per parlare con D.M., allo scopo di conseguire promesse di leggi favorevoli. Ignorava comunque il dichiarante se l’incontro fosse avvenuto o meno.

Peraltro tale dichiarazione conferma ulteriormente, ad avviso della Corte, che fino all’avvento di Forza Italia (ed anzi fino a quando Cu., scarcerato nel giugno 1994, non fece tale proposta, quindi dopo la vittoria alle elezioni) era ancora in essere la frangia di Cosa nostra che, invece di trattare con gli esponenti politici nazionali, propendeva per coltivare le iniziative stragiste.

Ma, nota la Corte territoriale, con tale ricostruzione contrasta, dal punto di vista cronologico, quella di L.M. F. (appartenente alla famiglia mafiosa di Porta nuova, ed in stretto contatto con M. a partire dal 1993): tale soggetto aveva collocato il viaggio di M. a (omissis) venti giorni prima delle elezioni del 1994, essendo quello tornato dicendo che tutto era a posto, ma senza fare il nome dell’imputato.

Tornando alle dichiarazioni di Cu. sugli incontri D. – M., questi, a sua volta, aveva dichiarato di essere stato, dopo la sua scarcerazione del giugno 1994, affiancato da **.

P. a M.V. che, pur non riscuotendo la fiducia di Ba., era ritenuto utile per i contatti con D..

Comunque, secondo le parole dirette di C., non era stato lui (come invece riportato da Ga.) a proporre di mandare M. a (omissis) ma si era trattato di una iniziativa autonoma di Br. e Ba..

La Corte ha tuttavia argomentato le ragioni, molteplici, per le quali ha ritenuto che il racconto di C. non fosse idoneo nè utile a supportare la tesi accusatoria del patto politico-mafioso.

La suddetta discrasia rappresentava, infatti, ad avviso della Corte, in contrasto con l’assunto del Tribunale, un primo motivo per dubitare delle sue affermazioni.

Un secondo motivo di inattendibilità derivava, ancora secondo la Corte, dal fatto che il racconto di Cu. era proseguito riferendo dei fatto che M. gli aveva detto di essersi recato a (omissis) da D. alla fine del 1994 – prima della scarcerazione dello stesso Cu. – ottenendo da costui la promessa di iniziative legislative molto favorevoli, per il gennaio 1995.

Sui tempi, però, tali dichiarazioni non erano risultate credibili alla Corte: non fosse altro perchè Cu. era stato scarcerato nel giugno 1994 mentre aveva sostenuto che l’incontro a (omissis) tra M. e D. sarebbe avvenuto ne dicembre 1994, ma prima della sua scarcerazione.

Una simile discrasia il Tribunale aveva ritenuto superabile considerandola frutto di un lapsus, ritenendo che l’incontro a (omissis) potesse essere collocato nel dicembre non del 94, ma del 93.

Ma anche un tale assunto, secondo la Corte non reggeva, considerandosi che, ancora secondo il racconto di Cu., l’incontro di (omissis) sarebbe avvenuto dopo la emanazione del decreto Bi.sulla custodia cautelare, decreto risalente alla estate 1994.

Deve allora ritenersi, secondo la Corte, che la conclusione del Tribunale fosse comunque sbagliata e più probabile risultasse la tesi dell’incontro avvenuto nel dicembre 1994: cioè, contrariamente a quanto detto da Cu., non prima ma dopo la sua scarcerazione.

Ma la confusione di Cu. non si esaurisce qui.

Secondo Cu. il D. si sarebbe impegnato di li a due mesi a formulare proposte legislative molto favorevoli, dimenticando però il Tribunale (che ha collocato rincontro a dicembre 1993) che nel gennaio 1994 le elezioni non si erano ancora tenute e che nessuna promessa concreta poteva essere fatta. Allora la Corte, che ha reputato la intera ricostruzione fatta dal Tribunale zeppa di contraddittorietà, è passata ad esaminare quella del PG che aveva collocato rincontro tra M. e D. nel dicembre 1994. E ha rilevato che anche tale tesi è poco plausibile, considerandosi che a dicembre 1994 il Governo aveva rassegnato le dimissioni: non aveva in altri termini alcun senso, in epoca di turbolenze politiche, che venissero fatte promesse alla mafia. La Corte ha dato peraltro atto del fatto che Cu. ha parlato solo di “tentativi” e di “interessamenti” e non di risultati.

La Corte ha anche ricordato come, secondo il Tribunale, la promessa politica di D. si fosse effettivamente concretizzata. E, collocando i fatti narrati da Cu. alla fine del 1993, i primi giudici avevano evidenziato che vi sarebbe anche una prova oggettiva (indicata nel paragrafo che segue) della effettività di due incontri tra M. e D. alla fine del 1993. La Corte non ha mancato, tuttavia, di sottolineare che tutto il costrutto del Tribunale è stato fondato sull’assunto – rivelatosi errato- che quegli incontri sarebbero avvenuti alla fine del 1993.

La Corte ha poi esaminato l’indizio (che avrebbe dovuto costituire il riscontro alla ricostruzione del Tribunale circa gli incontri tra D. e M. nel 1993) costituito dalle annotazioni nelle agende della segretaria di D. annotazione che starebbero a dimostrare, secondo la tesi accolta dal Tribunale ma avversata dalla Corte, che il 2 e il 30 novembre 1993, vi sarebbero stati i noti incontri.

I giudici hanno invero argomentato, con articolate critiche al contenuto di quelle annotazioni (v. pag. 444 sent), che esse non possono considerarsi realmente indicative di appuntamenti concretizzatisi.

Anche le ammissioni di D. sul punto sarebbero state vaghe e comunque indotte da contestazioni errate del PM. Non vi sarebbe stata, secondo la Corte, alcuna chiara e inequivoca ammissione da parte di D. sulla effettività di quei due specifici incontri con M..

Le annotazioni hanno però dimostrato, ad avviso della Corte, la perduranza dei contatti tra D. e M. (dal 1990 al 1995, data del suo nuovo arresto) anche quando era chiaro lo spessore criminale del personaggio che aveva patito una carcerazione di dieci anni.

La Corte ha quindi ricordato come le dichiarazioni di Cu. – con tutti i limiti già evidenziati- fossero state ritenute, dal Tribunale, riscontrate da quelle di D.N..

Nel riportarne i termini, la Corte ha però evidenziato la genericità della rievocazione del collaboratore e la non coincidenza cronologica con la ricostruzione di altri dichiaranti.

Costui era risultato in rapporti, nel 1994-1995 (poi fu arrestato) con gu. G. (reggente di Re.) e con Ba., in favore dei quali aveva messo a disposizione un proprio ufficio dove esponenti mafiosi si incontravano.

Quello, con ricordo poco nitido, aveva parlato di incontri di gu. con il genero di M.V. ( D.G.) e con lo stesso M.; aveva anche riferito di avere saputo da gu. che costoro si interessavano per limitare il fenomeno del pentitismo.

In una occasione gu. era tornato euforico da un incontro con M. e voleva far sapere a Ba. che tutto si stava sistemando. La fonte di tale rassicurazione che proveniva dal M. non era stata ricordata inizialmente ma solo su contestazione del PM e indicata in D.M..

Il D.N. non è riuscito a ricordare di più.

Egli ha comunque collocato questo evento “dopo le elezioni” del 1994, nell’estate e dunque in dissonanza con la tesi accreditata dal Tribunale secondo cui il patto politico mafioso sarebbe stato stretto tra D. e Cosa nostra prima delle elezioni.

Per questo è parso alla Corte difficile sostenere, come aveva fatto il Tribunale, che D.N. costituisca fonte dichiarativa capace di dare riscontro alle affermazioni di Cu. che a sua volta aveva collocato l’incontro delle garanzie nel novembre 1993.

La Corte non ha mancato poi di notare che anche altre dichiarazioni ritenute dal Tribunale elemento di riscontro – quali quelle di ******** – avevano collocato il viaggio di M. a (omissis) venti giorni prima delle elezioni politiche del marzo 1994.

Infine è appena il caso di ricordare che persino S. G., di cui poi si dirà, aveva descritto un comportamento euforico di Gr. G., a causa delle rassicurazioni ricevute, prima delle elezioni, nel gennaio 1994.

La Corte chiosa, infine, i forti contrasti rilevati sul piano della ricostruzione cronologica escludendo che gli incontri in questione possano essere stati ripetuti nel tempo e plurimi, da collocare dunque sia prima che dopo le elezioni posto che nessun collaboratore ne aveva parlato in tal senso.

Dal punto di vista, poi, della capacità di simili incontri, di rappresentare un rafforzamento per il sodalizio, la Corte ha rilevato la opinabilità di una simile convinzione del Tribunale, originata comunque e solo dalla rievocazione di promesse quanto mai generiche e future, invece descritte come concreto impegno elettorale, nella sentenza di primo grado.

La Corte è quindi passata, nell’ottica di tale accertamento, all’esame del contributo di Sp. G. sentito in appello, il 30 ottobre 2009.

Costui apparteneva alla famiglia di ********** sin dal 1980 ed era stato formalmente affiliato nel 1995, ma con carica di reggente, a dimostrazione, quindi, della pregressa e affidabile militanza.

Era stato arrestato nel luglio 1997, essendo stato in precedenza uno dei protagonisti materiali della stagione stragista del 1992 -1993 portata a danno di (omissis).

Aveva cominciato a collaborare dopo oltre un decennio di detenzione nel gennaio 2008, formalizzando tale sua volontà il 26 giugno 2008.

La Corte ha dunque evidenziato come il cammino di collaborazione intrapreso ai sensi del D.L. n. 8 del 1991 lo abbia portato a firmare i noti verbali illustrativi di collaborazione che sono stati redatti, dopo un semestre, dalle Procure di Palermo, Firenze e Caltanissetta.

Nel sottoscrivere quei verbali (dicembre 2008) egli aveva attestato di avere dato notizia di quanto fosse a conoscenza nonchè dei fatti di maggiore gravità ed allarme sociale a lui noti e di non essere in possesso di altre informazioni.

Ebbene, la Corte, premesso che i verbali redatti dalle Procure non sono stati acquisiti avendoli il PG solo esibiti, ha osservato come le uniche dichiarazioni di Sp. oggetto di valutazione – quelle del dicembre 2009- contenessero il riferimento ad una riunione tenutasi alla fine del 1993 a (omissis), nel corso della quale G.G., parlando dei progetti stragisti ancora da attuare a (omissis), aveva affermato che questi sarebbero serviti a chi si doveva dare una smossa.

Dopo tale evento, nel corso del quale non erano stati fatti nomi, gli interessati si erano recati appunto nella capitale ove l’attentato doveva essere realizzato e ivi, lo Sp. era andato a prelevare Gr.Gi. che si trovava al bar (omissis), notando che aveva un atteggiamento gioioso “come di chi ha vinto l’enalotto”. Quello aveva quindi spiegato a Sp. che l’accordo era stato raggiunto grazie alla serietà di persone che avevano messo l’Italia nelle mani di Cosa nostra: si trattava di B. e di un compaesano, D..

Pochi giorni dopo, nel gennaio 1994, il Gr. e il fratello erano stati arrestati a (omissis) e questo aveva consentito ai giudici di collocare l’incontro al bar (omissis).

Lo Sp. aveva però affermato che era stato un suo personale collegamento quello fatto tra il discorso di Gr.Gi. a (omissis) e quello fatto al bar (omissis).

Però era poi iniziata la comune detenzione e Sp. ha riferito di due colloqui avuti in carcere con Gr.Fi., nel 1999 e nel 2004 in cui quello aveva manifestato dapprima ancora fiducia nei benefici che si potevano ricavare dalla politica, ma poi anche una intensa delusione, indicando la volontà di collaborare con la giustizia.

Anche in questo caso egli aveva messo in relazione la delusione di Gr.Fi. con le promesse di cui aveva parlato Gr.

G. anni prima al bar (omissis), con ciò rendendo evidente che non poteva attribuirsi a Gr.Fi. il fatto di avere anche solo alluso a D..

In tutti quegli anni, anzi, solo una volta, nel 1995, aveva avuto modo di parlare della persona di B. come comune referente per il sodalizio, con Gi.Fr..

S. era stato poi, ad avviso della Corte, quanto mai vago anche nel descrivere quelli che secondo lui erano stati gli interessi economici in comune tra i Gr., D. e B.:

aveva cioè fatto riferimento alla apertura di un magazzino (omissis) ritenendo che fosse di fatto gestita dai Gr.: il tutto però come mera personale congettura basata sul dato del tutto errato che quello fosse l’unico magazzino (omissis) all’epoca ((omissis)).

Anche per altri fatti, prosegue la Corte, egli ha sostenuto di avere dato corpo a proprie personali deduzioni sulla base di fonti giornalistiche.

Del tutto inconsistente, come affare condotto dai Gr. insieme a D., sarebbe del resto, secondo la Corte, il riferimento all’affare dei tabelloni pubblicitari (vedi pa. 471 e segg.).

In conclusione le affermazioni di Sp. sono parse alla Corte in primo luogo spesso connotate da estrema approssimazione e genericità.

Ma soprattutto sono risultate provenire da un soggetto che le ha rese dopo avere dolosamente taciuto ai Pubblici Ministeri che lo interrogavano, fatti di notevole rilevanza a sua conoscenza.

La Corte ha evidenziato cioè che le propalazioni sono pervenute da Sp. dopo lo spirare del termine di cento ottanta giorni che la legge fissa per assicurare ad esse la credibilità e la utilizzabilità processuale.

In precedenza, ai PM aveva sempre escluso di sapere i nomi di coloro cui, alludeva Gr..

Ed ha evidenziato la Corte, la assoluta mancanza di riscontro alla tesi enunciata dal collaborante secondo cui egli si era deciso a parlare dei soggetti politici non avendolo mai fatto prima, verso altri PM, per paura (vi sarebbe stato, infatti, un vice di D. a capo del Ministero della Giustizia) e secondo cui, inoltre, quando non aveva parlato lo aveva fatto con la riserva mentale di farlo successivamente.

Pertanto la Corte, pur prendendo atto della decisione delle Sezioni unite del 2009 secondo cui anche le tardive dichiarazioni rese dal collaborante nel dibattimento sono utilizzabili, ne evidenzia il limite di credibilità soggettiva e oggettiva.

La conclusione per i giudici di secondo grado è stata che le dichiarazioni rese al dibattimento da Sp. non hanno superato il giudizio di credibilità. Si è trattato, comunque, ad avviso degli stessi giudici, nel merito, di poche frasi, generiche, dette da Gr., cui il collaborante non rivolse alcuna domanda di spiegazione o di approfondimento: frasi che alludevano ad un personaggio, il D., mai sentito nominare prima da Sp..

Ma soprattutto la Corte ha evidenziato la assoluta ingiustificatezza dei ricordi nel senso riferito dal collaborante, se è vero che l’oggetto principale delle garanzie che il D. avrebbe dato sarebbe stato il famoso regime carcerario dell’art. 41 bis e che tale regime non è mutato nel senso auspicato dai mafiosi, nè nel 1994, quando i Gr. erano stati arrestati, nè nel 2004 quando Gr.Fi. sembrava ancora, nel racconto del collaborante, attendere un risultato.

Pare strano d’altra parte – osserva la Corte – che Sp. non abbia inteso mai chiedere chiarimenti in carcere a G.F. sulla vicenda D. riferitagli da Gi..

Di non poco rilievo, ad avviso della Corte, è il fatto che, sentito in dibattimento, poi, Gr.Fi. ha smentito il suo ex sodale sulla volontà di una dissociazione.

Non vi sono del resto riscontri individualizzanti.

La Corte è passata quindi a illustrare le ragioni del rigetto della richiesta di esaminare altro collaboratore Gr. S., mancando il presupposto della decisività della prova.

Per quanto concerne il tema delle intercettazioni eseguite nel 1999 e nel 2001 e che, nella ricostruzione accreditata dal Tribunale, avevano costituito uno dei riscontri alla tesi dell’accordo politico- mafioso del 1993-1994, la Corte ne ha invece escluso tale portata dimostrativa.

Si era trattato di conversazioni che avevano riguardato le candidature (con esito positivo) di D. alle elezioni europee del 1999 (non si era candidato precedentemente a quelle del 1994, mentre lo era stato, con esito positivo, alle politiche del 1996) a alle elezioni del 2001 in cui si era candidato (ancora con esito positivo) al Senato.

Ebbene, la Corte ha ritenuto che in quelle conversazioni non fosse presente alcun richiamo utile al tema qui di interesse e cioè al preteso patto di D. con M., nel 1993.

Semmai, prosegue la Corte, esse potrebbero dimostrare l’esistenza di accordi per le elezioni successive. Ma anche in questo senso la prova non raggiunge alcun effetto in riferimento alle elezioni del 1994 in cui come detto l’imputato non si candidò; per quelle del 1999, d’altra parte, non c’è traccia di un effettivo impegno di Cosa nostra posto che D. fu eletto non nel collegio Sicilia- Sardegna, nel quale pure si era presentato, ma in altro del nord. Le intercettazioni del 1999 (eseguite in occasione delle indagini per la cattura del latitante Pr.) non dimostrano invero alcunchè.

Esse erano state realizzate presso la autoscuola gestita da tale Am.Ca., persona di fiducia di pa. e punto di riferimento di Pr., luogo frequentato da esponenti mafiosi.

Ebbene in quelle conversazioni vi erano effettivamente riferimenti tanto ad esponenti mafiosi che a D..

Ed emergeva in esse altresì l’impegno dell’ambiente mafioso di appoggiare D. alle elezioni, onde sottrarlo agli inquirenti.

Il Tribunale aveva posto quell’impegno, in relazione all’impegno a sua volta assunto anni prima, nel 1993-1994, dall’imputato e lo aveva ritenuto prova della esistenza del patto politico mafioso oggetto della imputazione.

Ma, dato il lungo lasso di tempo trascorso, la Corte non ha ritenuto di poter giungere alla stessa conclusione: le conversazioni del 1999 dimostrano, invero, per la Corte d’appello, che vi fu un impegno di Cosa nostra a sostenere la candidatura di D. per quell’anno ma non anche che tale mobilitazione fu in sinallagma con precisi impegni di aiuto assunti da D. in favore del sodalizio.

Questi ultimi impegni, infatti, avrebbero dovuto essere connotati dal requisito della concretezza e della serietà (sentenza SS.UU. *******) e non pare che lo siano. Basti pensare, al riguardo, a quanto riferito da gi., ad esempio, sul fatto che la decisione di appoggiare un candidato politico spesso derivava dalla percezione degli umori diffusi nella gente ; può altresì essere valsa, secondo la Corte, la pressione notevole che la Procura di Palermo esercitava con le proprie inchieste sull’imputato.

Le conversazioni captate nel 2001, d’altra parte, avevano avuto luogo nella abitazione di Gu., reggente del mandamento di **********. Ebbene il Gu. parlava con l’amico medico Ar. S. del fatto che D. e Mu. avevano preso impegni per le elezioni del 1999 e non li avevano mantenuti: ciò che dimostrerebbe, ad avviso della Corte, semmai, che nessun impegno era stato comunque rispettato dall’imputato.

Comunque lo stesso Gu. era stato generico nelle sue affermazioni perchè aveva mostrato di non sapere neppure chi avesse potuto contattare D.: al centro delle conversazioni di Gu., del resto, vi era una persona che veniva accusata di non avere mantenuto gli impegni e che non poteva essere D. perchè si diceva che era stata eletta col voto di Cosa nostra mentre è noto che D. fu eletto in circoscrizione diversa da quella della Sicilia.

Anche il riferimento contenuto in altra conversazione di Gu., all’impegno che D. avrebbe preso con tale C.G., è rimasta un flatus vocis. Le dichiarazioni di D.G. M. sentito dalla Corte nel 2007 a titolo di supplemento della attività istruttoria,anche mediante confronto con gi., nulla hanno aggiunto al quadro già delineato e fin qui esaminato.

Ebbene l’uomo (al vertice di cosa nostra agrigentina) aveva come referenti palermitani Gu. e gi..

Aveva riferito che il secondo gli aveva inviato V. per ordinargli di far votare D. per le elezioni del 1999.

Ebbene D.G., pur sostenendo che tramite gi. sarebbe potuto giungere a D., ha escluso di avere avuto conoscenza di un accordo con D., avendo saputo solo che dalla elezione di costui potevano derivare finanziamenti per la Sicilia.

Finanziamenti peraltro mai giunti.

Comunque è significativo per la Corte che gi. – già sospetto di per se per la progressione accusatoria nei confronti di D. – abbia smentito dinanzi al Tribunale di avere mai appoggiato D. nelle competizioni elettorali. Affermazione ribadita nel confronto disposto dalla Corte nel 2008.

La Corte ha escluso anche che V. possa avere effettuato millanterie, tenuto conto della importanza del ruolo di gi. nella organizzazione mafiosa.

Dalle dichiarazioni di D.G. emerge comunque che in Cosa nostra, dopo l’impegno sostenuto a favore di Forza Italia nel 1994, erano diffusi malumori alla fine degli anni 90 per la legislazione pesante che doveva continuare a subire. Circostanza che starebbe a dimostrare che anche eventuali impegni assunti da D. non ebbero comunque seguito.

Così si era espresso D.N. G.: questi aveva ammesso che c’era stata una vera e propria distruzione di Cosa nostra con i massicci arresti del 1994.

Egli ha riferito inoltre degli atteggiamenti ingiustificatamente fiduciosi che esponenti di Cosa nostra (come D.T., della famiglia di Re.) continuavano ad avere in carcere con i sodali.

La Corte ha quindi esaminato la possibilità che fosse fondata la tesi (difensiva) della pura millanteria di M. V. a proposito dei rapporti vantati con D. con riferimento al periodo in esame. E non la ha esclusa, ponendo quale presupposto del ragionamento, il rilievo della assenza di prove sul patto politico- mafioso del 1993: un patto comunque rimasto assolutamente incerto anche nella cronologia.

Hanno osservato i giudici che M. poteva avere interesse a millantare presso Ba. e Br. volendo accreditarsi come canale utile di collegamento presso D. una volta che su di lui si erano formati giudizi negativi (vedi dich. D.C.) soprattutto con la condanna a morte pronunciata da Ba..

Il fatto che vi sarebbero prove di contatti tra D. e M. nel 1993, infatti, nulla dimostra circa l’oggetto degli incontri medesimi e il loro contenuto.

Neppure possono costituire prova della effettività degli impegni il fatto che anni dopo il D. effettivamente abbia vinto competizioni elettorali o il fatto che nelle conversazioni intercettate di Gu. risulterebbero contatti con Ca..

La Corte si è diffusa poi sulle numerose testimonianze relative al fatto che M. fosse considerato, all’interno di Cosa nostra, un chiacchierone, uno che aveva il vizio di pavoneggiarsi (pag. 523 e segg.).

Egli del resto non aveva avuto remore a sottrarre denaro a Cosa nostra, ragione per la quale era stato destinatario di una condanna a morte infintagli da Ba. che la aveva anche sospesa perchè lo riteneva utile a causa dei contatti milanesi.

Lo stesso Br., nel parlare dei contatti che M. si attribuiva con i personaggi di (omissis), aveva parlato solo di tentativi che poi si erano arenati.

La Corte argomenta quindi sulla ritenuta insussistenza del patto politico-mafioso alla luce dei principi enunciati nella sentenza ******* delle SSUU. Sentenza che, in tema di concorso esterno, pretende la prova dello specifico contributo che il concorrente esterno deve avere apportato alla conservazione o al rafforzamento del sodalizio mafioso.

La Corte ricorda anche come la sentenza Mannino non reputi sufficiente un contributo atipico con prognosi di pericolosità ex ante, quando la verifica ex post non dia risultati.

E’ sufficiente in tale ottica, si, la mera promessa senza che vi sia bisogno di prova della sua esecuzione. Deve però darsi dimostrazione, poi, non solo della sua concretezza ma anche della capacità di incidere in concreto sulle potenzialità operative della consorteria criminale : prova che non può essere confusa con quella della “casualità psichica” del rafforzamento ossia della convinzione, raggiunta dai membri del sodalizio, riguardo alla serietà della promessa.

Di tutto ciò non è prova sufficiente nel processo, riguardo quindi alla ipotesi di concorso esterno realizzato con il patto politico mafioso del 1993-1994. Gli impegni assunti eventualmente da D., prosegue la Corte, non sono stati provati come concreti e precisi, essendo consistiti, al più, in generiche promesse di interventi legislativi.

Tale era la tesi del resto sostenuta anche da L.M. F., gi. A., Ca. A. (pag. 536 e seg.).

Secondo G., poi, Cu. avrebbe solo proposto l’invio di M. a (omissis), per prendere contatti con la politica.

Cu. dal canto suo, nel parlare di proposte legislative da presentare nel gennaio 1995, ha reso un racconto poco credibile per il rilievo che a quell’epoca le elezioni erano da tempo vinte, che il governo era dimissionario e che era difficile immaginare la ragione di una reale mobilitazione elettorale di Cosa nostra (pag. 540).

Anche Cu. ha comunque parlato di soli tentativi ignorando cosa sia realmente accaduto.

Le dichiarazioni di D.N. sull’euforia di gu., sono risultate infine generiche a proposito della fonte di tale stato d’animo e sui tentativi di sistemazione.

Non c’è in conclusione, ad avviso della Corte, nessuna prova della capacità degli interventi di D. di incidere concretamente sull’assetto di Cosa nostra.

La Corte infine, è giunta ad illustrare le ragioni del rigetto della richiesta istruttoria (reiterata) di assumere Ci. M. (pag.

545 e segg.): ragioni essenzialmente rappresentate dalla scarsa affidabilità oggettiva delle affermazioni da acquisire, di natura de relato di secondo grado, e soggettiva essendo già le dichiarazioni rese ai PM connotate da evidente progressione accusatoria.

Anche la giustificazione che Ci. aveva dato a proposito di tale progressione (e cioè il fatto che il PM gli avesse mostrato un c.d. pizzino, ossia il frammento di un foglio, e cioè di una missiva che il padre gli avrebbe affidato, contenente il nome di B. ma non anche di D.) non è logica a parere della Corte.

Infatti già prima della contestazione di quel foglio e cioè già nel 2008 risulta che, sia pur genericamente, il Ci.Ma. avesse parlato ad un PM dei rapporti del padre con D..

Questa, dunque, la conclusione in ordine alle dichiarazioni che Ci. sarebbe stato chiamato a rendere circa i rapporti tra suo padre, D., Cosa nostra e Pr..

Ma ad analoghe conclusioni la Corte giunge a proposito della deposizione che Ci. avrebbe dovuto rendere in ordine agli investimenti compiuti nella costruzione del quartiere di (omissis) e agli interessi in esso di esponenti di Cosa nostra, quali lo stesso Ci.Vi.. In particolare, gli investimenti effettuati da Bo. e Bu. non è chiaro neppure per C. M. da chi furono sollecitati mentre è certo che il Ci. ha escluso investimenti in comune tra V. C. e D..

La Corte ha quindi esaminato le dichiarazioni di L.P.V., nipote del capomafia A.G., acquisite allo scopo di dimostrare la eventuale esistenza di relazioni pericolose dell’imputato con soggetti legati a M., nel periodo successivo all’aprile 1995.

L.P. aveva parlato di un finanziamento di D. a favore di un traffico internazionale di stupefacenti in concorso con Br., Cu. e M..

L.P. aveva anche parlato di un interessamento di D. a favore di M. per migliorare le condizioni carcerarie di costui, arrestato nel 1995.

Si tratta di dichiarazioni – le prime- già in primo grado giudicate prive di conferme estrinseche e seguite dal decreto di archiviazione del febbraio 2001. Anche le accuse di favorire M. non hanno trovato nessun riscontro.

L.P. ha poi parlato di viaggi compiuti dopo l’arresto di M.: a (omissis), con il genero di costui ( D.G.), incontrando D. e altri soggetti identificati come Sa. e CU..

Circa i rapporti tra D. e Sa., risulta, sulla base di un pedinamento eseguito dagli inquirenti che nell’ottobre 1998 i due avevano avuto un incontro seguito da una telefonata di Sa. al nipote di M., F.: Sa. aveva parlato di una reazione fredda di ***** è lecito ritenere che in quell’incontro egli avesse inteso informare D. della probabile collaborazione di un nuovo soggetto.

La reazione incredula dell’imputato dimostra semmai, ad avviso della Corte, che egli non temeva nulla e solo, semmai, che aveva contiguità riprovevoli con ambienti vicini al sodalizio criminoso, privi di rilevanza.

Non ultimo è il rilievo che le dichiarazioni di L.P. su Sa., CU., F. e D.G. hanno sortito l’effetto di altrettante sentenze di assoluzione, rispettivamente, dai reati di cui all’art. 416 bis c.p. e D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74.

La vicenda della pallacanestro Trapani, da ultimo ripresa dalla Corte d’appello,è quella della sponsorizzazione ricevuta da tale società con l’intermediazione di Publitalia e la susseguente richiesta da parte di quest’ultima di ottenere, in nero, il pagamento della mediazione pari a metà del finanziamento. Per tale vicenda, ricorda la Corte, pende processo dinanzi alla Corte d’appello di Milano, a carico di D. in concorso con V., per tentata estorsione in danno di ga.Vi., presidente dell’associazione pallacanestro Trapani. Pertanto tale evento ha costituito oggetto di vantazione soltanto per la definizione della personalità di D. e non come prova del reato in esame. Orbene,osservano i giudici che in primo grado è stata pronunciata condanna in ordine al fatto che D. tentò di farsi versare dal ga. la somma di L. 800 milioni. La minaccia sarebbe stata proferita sia da D. personalmente che inviando alla vittima il capo- mandamento di Trapani, e Bu.Mi..

Tali fatti si erano verificati tra la fine del (omissis) i primi mesi del (omissis). La Corte d’appello ricorda però che la condanna, pure confermata in appello, è stata annullata dalla Cassazione e, in sede di rinvio, ritenuto l’art. 56 c.p., comma 3, è stata pronunciata prescrizione per la residua fattispecie di minaccia grave.

Anche tale sentenza è stata annullata dalla Cassazione nel 2010 e, nota la Corte territoriale, nella sentenza di annullamento sarebbe stato dato atto della formazione del giudicato sull’attendibilità del ga. e quindi sulla esistenza della richiesta e l’ingiustizia del profitto escludendo l’ipotesi della desistenza volontaria.

Vi sarebbe prova anche del fatto che il comportamento minaccioso di V. e Bu., invero negato dal ga., era stato però testimoniato dai suoi stretti collaboratori R. e Ve., ai quali il ga. aveva fatto le proprie confidenze nell’immediatezza dell’incontro apparendo notevolmente preoccupato.

La difesa ha evidenziato che l’incontro di ga. con D., collocato temporalmente alla fine del 1991 e quindi prima dell’elezione di ga. al Senato nell’aprile 1992, non poteva essere avvenuto perchè la conoscenza dei due risultava realizzata nell’estate 1992, grazie alla mediazione di L.M. M.P. e di Ra.Fi. i quali avevano conosciuto ga. dopo la sua elezione al Senato.

La Corte argomenta in contrario citando le prove (dichiarazioni spontanee dell’imputato e il telegramma con cui ga. chiedeva la fissazione dell’appuntamento) che dimostrano la effettività dell’incontro fra i due alla fine del 1991.

Del pari la corte ritiene provato che V. fosse stato inviato dal ga. proprio da D..

La versione fornita da ga. è risultata confermata, secondo la Corte, anche dal collaboratore Si.Vi. (pag. 593 e segg.) il quale aveva riferito di un proprio intervento su ga. con la stessa finalità, ordinatogli da M.D., in epoca ((omissis)) in cui ga. non ne aveva ancora parlato agli inquirenti.

L’intera vicenda sta a dimostrare, prosegue la Corte, ancora una volta, che fino ai primi mesi del 1992, almeno, D. ha mantenuto contatti con ambienti mafiosi ai quali faceva ricorso per risolvere problemi personali che nella specie erano rappresentati dalla volontà di creare fondi occulti, evenienza dimostrata anche da una condanna subita dal D. a (omissis) per reati di tal genere.

La vicenda dimostra anche l’intento di D.M. di sfruttare tali rapporti essendo viceversa escluso che ne fosse semplicemente vittima, nell’intento di aiutare il suo amico B.S..

Anche i contatti di D. con Ci. e Ch. sono stati analizzati dalla Corte, nella medesima prospettiva e cioè quella della valutazione della personalità di D. che avrebbe tentato l’inquinamento delle prove nel processo.

Tali fatti sono oggetto di un processo distinto dinanzi al Tribunale di Palermo che ha visto D. imputato di calunnia aggravata ai danni dei collaboratori di giustizia D.C., Gu. e O. in concorso con i predetti Ci. e Ch..

La Corte ha ricordato anche, però, che il giudice competente- successivamente alla pronuncia di primo grado relativa al presente processo- ha assolto D. del reato in questione, per non aver commesso il fatto, con decisione peraltro impugnata dal pubblico ministero. La assoluzione ha riguardato, cioè, il tentativo di far apparire le dichiarazioni di quei collaboratori (che avevano accusato D.) frutto di un accordo doloso.

Il Ci. è deceduto e nei suoi confronti è stata dichiarata l’estinzione per tale reato.

Invece la assoluzione è stata piena sia nei confronti di D. (nei confronti del quale, per questi fatti, era stata avanzata richiesta di autorizzazione alla Camera, ad eseguire una ordinanza di custodia cautelare, richiesta rigettata) che del deceduto Ci., in riferimento all’ulteriore ipotesi di calunnia dovuta al tentativo di convincere altri collaboratori a confermare le accuse di Ci..

Il solo Ch. ha patteggiato la pena nel 2001.

In conclusione ha ritenuto la Corte che l’intera vicenda non abbia alcuna valenza in relazione al processo qui in esame, non essendo rimasta dimostrata una condotta del D. di appoggio ad iniziative calunniose eventualmente poste in essere da Ci. e Ch..

L’iniziativa di Ci. aveva tratto origine da una lettera inviata ai PM nel 1997. Prima di tale data non risultano accertati contatti tra l’imputato e Ci..

Nella fase successiva risulta soltanto che D., informato da Ci. delle conoscenze acquisite, a sua volta rese edotti i propri difensori che immediatamente inserirono il nominativo del Ci. nella lista testimoniale. Nel settembre ’98 quindi, D. aveva fatto riferimento anche a contatti con Ci., nel corso delle dichiarazioni spontanee rese al Tribunale, con l’intenzione, oltretutto,di rendere noto che il collaboratore subiva delle violenze morali in carcere per ritrattare le proprie dichiarazioni.

La Corte ritiene di poter escludere, sul piano logico, che D. possa essere stato l’ispiratore delle denunce di Ci., osservando che nel caso contrario avrebbe avuto tutto l’interesse a rimanere defilato e a non informare subito, del fatto, i propri difensori.

Sono state infine passate in rassegna le dichiarazioni di Or.

M. sentito per la prima volta in appello su richiesta del Procuratore generale. Or. era collaboratore di studio dell’avvocato D.F.A., legale di Ci.. La prova dichiarativa avrebbe dovuto dimostrare che vi era stato uns accordo tra D. e Ci. riguardo alla falsa testimonianza che questi avrebbe dovuto rendere a vantaggio del primo.

In particolare O. era a conoscenza del fatto che la D. F. sapeva di contatti del proprio cliente con l’imputato e del fatto che il primo le aveva detto di essersi accordato col secondo. E per tale motivo il segretario di D.N., F. avrebbe invitato la donna ad anticipare al Ci. il denaro di cui quello aveva bisogno, denaro che poi le sarebbe stato restituito.

A riprova di ciò l’ O. sosteneva di aver sentito una telefonata nel corso della quale la D.F. aveva chiesto a D. del denaro ma l’interlocutore aveva risposto di essere costernato.

Ha rilevato a questo punto la Corte che le dichiarazioni dell’ O. dimostrano semmai che D. non riteneva di dover denaro all’avvocato, tenuto conto altresì che il dichiarante non aveva riferito di aver sentito parlare, in quella telefonata, di accordi o di presunti patti da rispettare.

La scarsa attendibilità delle dichiarazioni dell’ O. derivava, del resto, secondo la Corte, sia dalla personalità del dichiarante, condannato per fatti di droga, sia dal tempo trascorso tra la formalizzazione delle accuse di Ci. e il momento in cui la D. F. gli avrebbe fatto le sue confidenze (2004); sia infine dalla smentita opposta della D.F. in dibattimento e comunque dalla genericità delle risposte di O..

Alla D.F. peraltro era pervenuta effettivamente la somma di Euro 30.000 circa, inviata da tale Za.Fr., ma a titolo di prestito e senza che risultasse un interessamento di D..

Il fatto era, come ammesso dalla D.F., che essa era sempre in cerca di denaro dovendo pagare i fornitori di droga a causa dei debiti contratti dall’ O..

Anche i testi Fo., capo della segreteria dell’imputato, e F.C. avevano confermato la tesi dei ripetuti e vani tentativi della D.F. di entrare in contatto con D. per ottenere la nomina a suo legale e conseguire vantaggi economici.

La logica induce a ritenere – prosegue la Corte – che se D. avesse effettivamente raggiunto un accordo con Ci. su una sua falsa testimonianza in proprio favore, non avrebbe contrariato il suo avvocato negandole ripetutamente un’appuntamento.

Residua il solo dato obiettivo di un incontro effettivamente avvenuto tra D. e Ch. nel 1998, documentato dal servizio di pedinamento della polizia giudiziaria.

La Corte lo ha ritenuto spiegabile per l’interesse che aveva D. alla preparazione di un’utile strategia difensiva, in tutta buona fede, tenendosi anche conto che l’imputato aveva anche informato l’autorità giudiziaria del suo contatto con Ch..

In altre parole i contatti avuti da D. con Ch. (in numero di quattro secondo quest’ultimo) possono ritenersi rituali e forse con contenuti anche non leciti ma non costituiscono prova a sostegno della accusa in esame.

La Corte ha dedicato l’ultimo capitolo della motivazione ad un riassunto delie conclusioni raggiunte che consistono nella conferma della condanna di D. per le sole condotte accertate fino al 1992: condotte consistite nello svolgimento, grazie all’intervento dell’amico C. e delle sue autorevoli parentele, di un’attività di mediazione tra l’associazione mafiosa Cosa Nostra, nella persona di Bo.St. da un lato, e B.S., dall’altro, per favorire gli interessi non solo di quest’ultimo ma anche del sodalizio mafioso che D. ha aiutato a perpetrare un’intensa attività estorsiva. E tale attività D. ha proseguito anche dopo il 1981, quando ****** è stato eliminato, fino al 1992.

Mancano invece secondo la Corte prove sufficienti di analoga condotta per il periodo successivo al 1992, dovendo tale prova cadere su un contributo del concorrente all’associazione mafiosa diverso dalla mera disponibilità o vicinanza, così come insegnato dalle sezioni unite nella sentenza *******. In particolare è rimasta incerta la natura dei rapporti dell’imputato con i fratelli Gr. data l’inconsistenza del contributo offerto dal collaboratore Sp. G..

Del pari insufficienti sono le prove addotte dall’accusa per supportare la tesi della stipula da parte di D., nel 1994, di un accordo politico mafioso con cosa nostra in termini rilevanti per la ipotesi criminosa di cui agli artt. 110 e 416 bis c.p..

 

MOTIVI DI RICORSO DELLA DIFESA:

Avverso la sentenza della Corte di appello di Palermo ha presentato i seguenti motivi di ricorso la difesa di D.:

1) con ricorso principale.

1A. avverso le ordinanze dibattimentali del 27 ottobre 2006, 1 dicembre 2006, 28 gennaio 2008, 15 gennaio 2010.

Si tratta di ordinanze della Corte d’appello con le quali sono state rigettate – per quanto qui di interesse- le richieste di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale volte ad escutere P. S., Pa. S., Ri. I., V. V., il ten. Col.

be., B. S., Z., H. – testi in parte assunti nel corso di indagini difensive dopo la sentenza di primo grado – ed acquisire atti del casellario giudiziario nonchè la video- registrazione della intervista a BO. che distribuiva materiale ai giornalisti.

I primi testi avrebbero dovuto, in base allo specifico ruolo svolto, deporre circa l’esatto momento dell’arrivo di M. ad (omissis), essendo, tale data, decisiva per saggiare la credibilità di D. C. che aveva riferito del famoso incontro svoltosi a (omissis), propedeutico all’assunzione di M. ad (omissis). La decisione della Corte, sul punto (pagina 213), era stata illegittimamente negativa.

Decisiva sarebbe stata anche l’audizione di R., un ingegnere occupatosi dell’installazione delle antenne televisive nell’isola, in grado di deporre sull’assenza di richieste estorsive al riguardo.

B. (come ribadito nei motivi nuovi di ricorso) poi avrebbe utilmente deposto sulla effettività o meno dell’incontro che si sarebbe svolto a (omissis) nel suo studio fra il (omissis).

La Corte al riguardo aveva opposto che B. si era avvalso della facoltà di non rispondere e che la difesa aveva rinunciato al teste ma tale circostanza non precludeva una diversa decisione della difesa e del teste in grado di appello.

I testi Z. e H. sarebbero stati di grande importanza per valutare ulteriormente la credibilità di D.C.: costui aveva descritto, nel corso del dibattimento di primo grado, l’immobile in cui sarebbe avvenuto il famoso incontro tra B. e i mafiosi.

Il Tribunale aveva affermato la credibilità del teste ritenendo riscontrata da foto la descrizione dell’edificio che quello aveva effettuato. Per tale motivo la difesa era stata costretta a produrre documentazione che aveva dimostrato l’erroneità della conclusione dei primi giudici e la non corrispondenza della descrizione effettuata da D.C. rispetto agli uffici della società Edilnord di B.. La Corte, al riguardo, pur riconoscendo la menzionata non corrispondenza, non aveva valorizzato tale evenienza per screditare il D.C..

Per questo doveva ritenersi decisiva la testimonianza dei soggetti da ultimo menzionati i quali avrebbero deposto sui tessuti rossi applicati alle pareti degli uffici di B., particolare assolutamente fuori del comune, eppure non presente nella descrizione effettuata da D.C., il quale per tale ragione avrebbe potuto ulteriormente risultare inattendibile.

Infine la richiesta di acquisizione della videoregistrazione dell’intervista di BO. doveva servire a dimostrare che tale magistrato aveva in quell’occasione parlato di un procedimento a carico di D. conclusosi con archiviazione: una circostanza fondamentale per valutare la violazione dell’art. 414 c.p.p..

1B. avverso la sentenza:

a) la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza specie sotto il profilo della enorme amplificazione dei temi di indagine e la violazione dell’art. 430 c.p.p., essendosi trovata, la difesa, nelfe impossibilità di fronteggiare tutti i temi e le acquisizioni proposte dalla accusa e ammesse dai giudici;

a-bis) con motivo nuovo, indicato sub 7 nel ric. aggiunto, la questione è stata riproposta sotto il profilo della violazione dell’art. 6 della CEDU);

b) la violazione del principio del ne bis in idem (art. 649 c.p.p.) per essere stato, il D., già sottoposto a procedimento e prosciolto due volte dal GI di Milano, con sentenze del 1990, per gli stessi fatti oggetto del presente procedimento;

c) la mancanza di motivazione sulle istanze di rinnovazione della istruttoria dibattimentale in riferimento alle prove e dalle correlate ordinanze di rigetto della Corte sopra menzionate;

d) la manifesta illogicità dell’intero impianto della sentenza che utilizza le dichiarazioni dei medesimi collaboratori di giustizia ora a sostegno della tesi della sussistenza del concorso esterno di D. nell’associazione mafiosa fino al 1992, ora per inferirne l’assenza di prove sufficienti in ordine allo stesso concorso per il periodo successivo al 1992. Ed anzi, con riferimento al reato ritenuto provato, sono state valorizzate dichiarazioni dei collaboratori che, seppure smentite in relazione ai fatti successivi al 1992, sono state invece ritenute riscontrate per il periodo precedente con dichiarazioni de relato ossia della stessa natura, de relato, di quelle dei primi dichiaranti.

La logica avrebbe voluto che se D. fosse stato realmente un concorrente esterno dell’associazione mafiosa Cosa Nostra fino al 1992, non avrebbe mancato, per il periodo successivo, di provocare l’intervento della stessa associazione a sostegno della sua scalata politica. E se tale richiesta non risulta provata è perchè, viceversa, non si è realizzato alcun concorso esterno del genere di quello accreditato in sentenza;

d-bis):con motivo nuovo la difesa riprende il tema sollevato ponendo in evidenza il fatto che di uno stesso pentito la Corte possa avere valorizzato talune dichiarazioni pur affermando la falsità di altre.

Un simile modo di procedere sarebbe in violazione dei limiti posti dalla giurisprudenza alla valutazione frazionata delle dichiarazioni de collaboratore di giustizia.

Una simile errata utilizzazione della regola di valutazione probatoria sarebbe riscontrabile ad esempio con riferimento alle dichiarazioni del collaborante Cu., creduto quando ha parlato dell’incontro di (omissis) e non creduto, perchè smentito, invece quando ha parlato degli incontri fra D. e M. nel periodo 1993-1994.

La stessa sorte è stata riservata alle dichiarazioni del collaborante Ga., creduto sia in ordine all’esistenza dell’incontro di (omissis) che all’effettuazione dei pagamenti, nonostante che sull’entità di questi ultimi le dichiarazioni di altri collaboratori siano divergenti. Era stato trascurato che Ga. è stato ritenuto totalmente inattendibile riguardo gli episodi legati al periodo 1993-1994.

La progressione accusatoria era stata la ragione della ritenuta inattendibilità di una serie di altri pentiti riguardo alla ricostruzione degli attentati ai magazzini Standa, senza che lo stesso criterio fosse applicabile anche alla ricostruzione degli eventi precedenti. M. poi è stato giudicato dalla Corte d’appello come un millantatore capace di inventare colloqui inesistenti, senza che tale giudizio negativo abbia prodotto i necessari effetti della valutazione delle dichiarazioni di M. riferite al periodo della propria assunzione ad (omissis). La difesa visualizza quindi in un elenco i pentiti che sono stati ritenuti credibili a sostegno dei fatti per i quali D. è stato condannato, nonostante la progressione accusatoria delle loro dichiarazioni, o il contrasto con le dichiarazioni di altri pentiti o, ancora, la natura indiretta delle loro dichiarazioni; e, a seguire, un elenco dei pentiti che invece, sulla scorta dei criteri analoghi, sono stati ritenuti inidonei a sostenere le ulteriori accuse dalle quali D. è stato assolto;

e) la violazione degli artt. 192 e 546 c.p.p..

Premette la difesa un’osservazione sulla illogicità dell’impianto generale della sentenza che accredita il D. quale aguzzino del suo stesso benefattore B., colui, cioè, che approfittando del rapporto di amicizia con tale imprenditore in ascesa, avrebbe realizzato consapevolmente una sistematica azione estorsiva ai suoi danni: una prospettazione non solo assolutamente illogica rispetto a quella contraria della difesa che aveva sostenuto la tesi dell’avere, il D., agito per tutelare l’amico e non per depredarlo. In più si trattava di una prospettazione che non si piegava alla regola del cui prodest, e cioè non dava conto di quale sarebbe stato il beneficio che a D. sarebbe pervenuto da Cosa nostra.

La sentenza inoltre non contiene certezze ma somma presunzioni a presunzioni come nel caso della ricerca della ragione dell’assunzione di M.V. alla villa di (omissis): assunzione che la difesa ha dimostrato, con plurime prove, essere stata determinata dalla specifica competenza di M. in materia di cavalli e che invece la sentenza presuntivamente ha collegato allo spessore criminale del M. per inferirne, con metodo logico di scarso rigore, che tale assunzione, da intendersi in chiave di protezione, sarebbe stata l’espressione delle contiguità mafiose di D., con il riscontro rappresentato da un incontro avvenuto a (omissis) tra B. ed esponenti mafiosi, senza che di tale incontro siano state date prove adeguate.

La illogicità del ragionamento seguito dai giudici starebbe, ad esempio – ma non solo – nell’avere valorizzato le dichiarazioni del collaborante D.C. quali riscontro della interpretazione data al fatto dell’assunzione di M., interpretazione che però è stata possibile alla luce dell’ulteriore evento rappresentato dall’incontro di M. tra B. e gli esponenti mafiosi:

incontro conosciuto solo attraverso le dichiarazioni di D.C. le quali dunque assumono in maniera ambivalente, ora il ruolo di fatto da riscontrare ora il ruolo di riscontro.

In conclusione la difesa lamenta un uso assolutamente inaccettabile delle dichiarazioni del D.C. (che nel corrispondente motivo nuovo, indicato sub 3) nel ric. aggiunto vengono denunciate anche di progressività accusatola e di contraddittorietà con i particolari forniti da Ga., il quale oltretutto ben poteva avere appreso dei fatti esclusivamente dalla pubblicazioni di stampa) quale titolo di riscontro di altre circostanze indizianti senza però che le dichiarazioni stesse del collaborante fossero state sottoposte a un adeguato vaglio sulla credibilità.

Vi erano stati numerosi elementi addotti dalla difesa a dimostrazione che il racconto del D.C. non potesse costituire prova a carico:

così, per la sbagliata descrizione dell’immobile ove quell’incontro sarebbe avvenuto, per l’incertezza delle date, per la impossibilità della presenza dei mafiosi sottoposti a misure di vigilanza.

La Corte aveva superato tutte le obiezioni minimizzando la portata dei rilievi oppure formulando inaccettabili considerazioni sulla capacità dei mafiosi di violare le predette misure.

Identiche lacune da parte della Corte avevano riguardato il rilievo della difesa sulla inattendibilità dei racconti di D.C. riguardo al sequestro di D’. (smentiti da Cu.) o alla funzione protettiva di M., alla cui assunzione avevano però fatto seguito importanti eventi criminali come il predetto tentativo di sequestro o l’attentato alla villa di via (omissis).

Erano poi stati evidenziati dalla Corte gli sporadici incontri conviviali di D. con C. o con M., ignorando che D., appassionato bibliofilo e uomo di cultura, sarebbe soggetto incompatibile con rapporti colludenti con ambienti e personaggi di tipo mafioso.

Sopravvalutato, ai fini della coloritura dei rapporti con mafiosi, era stato l’evento del matrimonio di Fa.Gi. a (omissis), matrimonio al quale la partecipazione delle D. era stata invece occasionale, come dimostrato.

La difesa rileva poi come i giudici d’appello abbiano accreditato, su base esclusivamente congetturale, la tesi dello sfruttamento da parte di D. del rapporto di amicizia con B., a favore della mafia, trascurando completamente di analizzare il tema posto nei motivi d’appello: quello dell’esistenza, al contrario, di interessi comuni, capaci di legare indissolubilmente le sorti – per lungo tempo anche giudiziarie – di D. e di B., di tal che appariva impossibile che tale rapporto fosse soltanto apparente e che D. avesse deciso di tradirlo per un vantaggio oltretutto rimasto sconosciuto: il tutto per favorire cosa nostra sulla base di un rapporto delineato alla luce di sporadiche frequentazioni incapaci di dimostrare alcunchè.

Anche sul tema dei presunti pagamenti di somme, da parte di B. alla mafia per il tramite di D., la difesa aveva articolato motivi di appello volti a dimostrare l’inaffidabilità delle dichiarazioni dei collaboratori. Ma la Corte non aveva dato risposta.

Era stato segnalato che le dichiarazioni di D.C., al riguardo, erano de relato perchè acquisite da C., da parte del quale però mancava la conferma.

Dello stesso tipo erano state le dichiarazioni di Ga., con la particolarità che differivano, quanto a contenuto, da quelle di D. C.. Identiche denunce sono state formulate in riferimento alle dichiarazioni, sul tema, di Cu., anch’esse de relato e non confermate dalla fonte. In conclusione la prova dei pagamenti mancava del tutto perchè difettava, nella motivazione della corte, una ragionevole valutazione di attendibilità intrinseca della singola dichiarazione, essendosi passati direttamente alla verifica del relativo riscontro (in violazione del principio enunciato in rv 211525 Sez. 5, 1 ottobre 1998). Era stato poi ulteriormente violato il principio, pur affermato dalla giurisprudenza (rv 220334, Sez. 1, 6 dicembre 2001), secondo cui due convergenti chiamate de relato di per sè sole non sono sufficienti ad integrare la prova di colpevolezza del chiamato, indipendentemente dalla ricerca di riscontri individualizzanti. Tanto più che manca un apprezzamento delle relative fonti (Sez. un. 24 novembre 2003, n. 45276,Andreotti).

Il rapporto lavorativo con ****** era stato poi ritenuto dalla Corte di natura non illecita, salvo poi non dedurre da tale premessa che quel rapporto aveva determinato di fatto una interruzione della permanenza del presunto reato di concorso esterno in associazione per delinquere.

Circa la vicenda della “messa a posto” per la installazione delle antenne televisive in Sicilia, la difesa segnala una serie di incongruenze già denunciate nei motivi di appello ed ignorate dalla corte territoriale: così, con riferimento al fatto che nessuno dei collaboratori ha menzionato episodi di pagamento di denaro con riferimento alla installazione di ripetitori; che semmai è emerso che il pagamento di somme sarebbe dovuto avvenire ad opera dei titolari delle emittenti locali; che, comunque, la ricostruzione di tale vicenda è avvenuta ad opera di dichiarazioni indirette e non controllate quanto alla fonte (quelli di Ga.Ca., ricevute dal padre R. che a sua volta le avrebbe ricevute da C.).

Significativo era anche il fatto, parimenti denunciato nei motivi d’appello, che le dichiarazioni dei collaboratori in argomento avevano fatto emergere addirittura delle tensioni e dei dissapori che dividevano D. da Cosa nostra in generale e dai suoi esponenti quali il C..

Ancora con riferimento alle dichiarazioni dei collaboratori sull’arrivo di somme a cosa nostra, provenienti da B., la difesa aveva evidenziato che quelle di F. (oltretutto de relato) testimoniavano di un mero regalo fatto una tantum da Canale 5, mentre quelie di Ca. (invece dirette) erano assolutamente generiche circa la provenienza delle somme stesse.

Circa il pagamento delle predette somme nel periodo successivo alla morte di Bo. e all’ascesa di R. (dal 1981, fino al 1992), la difesa segnala un macroscopico elemento di iliogicità nel ragionamento della corte, elemento rappresentato dall’avere configurato la presunta prosecuzione dello sfruttamento operato da D. in danno di B., nonostante che il primo fosse divenuto, sin dal 1983, consigliere delegato di Publitalia che costituiva il polmone finanziario di Fininvest: una posizione che poneva il D. assai vicino alle sorti anche economiche del soggetto estorto B. e che non poteva essere banalizzata con l’argomento formale utilizzato dalla corte, del non’ essere il D. socio di B.. Una posizione inoltre incompatibile con la tesi che la sentenza ritiene di avere dimostrato (pag. 321 sent.) e cioè quella dell’avere il D. agito per favorire la mafia e farle conseguire ingenti vantaggi economici.

Il fatto obiettivo era che le intimidazioni estorsive non partivano da D. sicchè sarebbe stato molto più logico far prevalere la tesi della difesa secondo cui tutti gli eventi accertati erano stati obbligati anche per D., essendo oltretutto neutro l’argomento dei contatti, a contenuto non accertato, tra il ricorrente da un lato e C. e M., dall’altro.

Quanto poi alla vicenda della pallacanestro Trapani, la sentenza impugnata (pag. 575 sent.) l’aveva trattata come dimostrazione di un evento estorsivo ai danni di ga., sotto la regia del ricorrente. Tuttavia una simile valutazione probatoria era del tutto illegittima perchè effettuata sulla base del contenuto di una sentenza della Cassazione di annullamento con rinvio e dunque non irrevocabile: una sentenza che, in base alla costante giurisprudenza, non può essere utilizzata come prova dei fatti da essere presentati.

Il tutto senza considerare che erano state considerate prove a carico dichiarazioni del ga. che potevano al più costituire semplici impressioni;

e bis) con un primo motivo nuovo (sub 2 del ric. agg.), la difesa riprende il tema della credibilità dei pentiti valorizzati in sentenza con particolare riferimento alle serie perplessità da essa sollevate nel giudizio di merito riguardo al fatto che i collaboratori avevano preso a parlare con gli inquirenti dopo che la stampa aveva dato ampio risalto alle prime dichiarazioni di D. e di Ca. ed aveva analizzato le cointeressenze del primo con M.V. e C.. G., dal canto suo aveva potuto giovarsi della pubblicazione delle accuse di D.C..

La difesa contesta la riduttiva e inappagante risposta data dalla Corte d’appello al riguardo;

e – ter) con un secondo motivo nuovo(indicato sub 4) nel ric. agg.), la difesa riprende il tema del già denunciato vizio di motivazione riguardo alla vicenda del “pizzo per le antenne”.

Non vi è ragione logica per la quale il ricorrente dovesse occuparsi di mediare per il pagamento in questione posto che non risultano effettuate richieste di pagamenti da parte di cosa nostra: ciò anche in relazione all’evidente disinteresse della mafia per l’installazione di impianti modesti in zone montuose. Per dimostrare tale assunto la difesa aveva chiesto la deposizione dell’Ing. Ri. di cui lamenta ancora,dunque, la mancata ammissione.

La difesa aveva anche evidenziato la illogicità dell’accusa che si riferiv ad un periodo, successivo al 1980 (quello cioè dell’inizio dell’attività televisiva di B. in Sicilia), nel quale D.M. non lavorava più alle dipendenze di B. essendosi spostato alle dipendenze di Ra.. La corte territoriale aveva replicato con una mera congettura, ritenendo perduranti i rapporti tra il ricorrente e l’imprenditore milanese e soprattutto ignorando che quando D. era tornato a lavorare per B., era stato preposto alla gestione delle risorse pubblicitarie (Publitalia) e non delle emittenti televisive.

Per non parlare della genericità delle dichiarazioni dei collaboranti: genericità tanto più grave ove si consideri che la prova della responsabilità di D. avrebbe dovuto passare attraverso la dimostrazione di singoli interventi agevolativi degli interessi mafiosi al riguardo.

Generica in primo luogo deve ritenersi la principale fonte d’accusa ossia la dichiarazione di D.C. il quale si è limitato a riferire che alla fine degli anni 70 D. avrebbe richiesto a C. di occuparsi della messa a posto delle antenne. Non una parola sui presunti pagamenti da parte di B..

La difesa passa poi in rassegna le dichiarazioni degli altri collaboratori al riguardo ( Ga.Ca., A. e F.), per segnalare che essi hanno, sì, fatto riferimento ai detti pagamenti per il tramite di D., ma con dichiarazioni de relato e, talune, riferite anche ad un periodo diverso (1984- 1985). Nessuna comunque specifica sui comportamenti di D..

Le dichiarazioni di G. (riguardando il raddoppio dell’entità dei pagamenti determinato dall’intervento di Ri.) sono risultate di natura probatoria discutibile, come pure le dichiarazioni di Ca.Sa., bollate di inattendibilità dalla stessa Corte.

Anche sul tema in questione la difesa propone uno specchietto sinottico riguardante la natura de relato delle dichiarazioni dei principali collaboratori ( Ga. e G.) oltre alla differente propalazione resa sul punto da Ga.Ra. nonchè, soprattutto, la divergenza dei contenuti delle dichiarazioni relativamente ai riferimenti cronologici dei pagamenti che C. (nelle dichiarazioni di G.) aveva riferito al periodo intorno al 1981, i Ga. ai 1984-1986, Ga.Ra. alla sola remunerazione della protezione, F. al 1988- 1990, Ca. al 1989;

f) il vizio di motivazione sulla configurazione del concorso esterno in associazione mafiosa con particolare riferimento al nesso di causalità. La difesa muove dal rilievo che gli approdi giurisprudenziali in materia richiedono la dimostrazione di una concreta attività collaborativa del concorrente, che si riveli idonea a contribuire al potenziamento del sodalizio mafioso. Ed osserva che di tale contributo non è stata data prova nè sotto il profilo delle modalità di partecipazione del ricorrente ai singoli episodi di donazione di somme di danaro (essendosi genericamente fondata la sentenza sui due dati incerti dell’incontro di (omissis) e del messaggio della messa posto relativa ai ripetitori), nè sotto il profilo della concreta rilevanza dei presunti pagamenti per il superamento di momenti di fibrillazione del sodalizio (richiesto dalla sentenza ******* delle Sezioni unite del 94).

La sentenza sul punto si era limitata a motivare genericamente il detto apporto citando il fatto che la associazione cosa nostra era stata posta in grado di sfruttare la influenza del ricorrente in ambienti imprenditoriali mentre non era stato dimostrato il concreto vantaggio ottenuto dall’associazione e tantomeno il superamento, da parte di questa, di una situazione patologica grave.

Non si era poi data risposta all’argomento logico dedotto dalla difesa secondo cui nessuna patologia poteva essere stata superata attraverso l’intervento di D. per la semplice ragione che questo non poteva essere decisivo. La motivazione della Corte sul punto era da ritenere illogica perchè da un lato aveva bollato le deduzioni difensive come ipotetiche e dall’altro aveva però affermato apoditticamente la configurabilità di un contributo importante di D. per la vita del sodalizio: ciò senza considerare che un simile contributo, essendosi risolto nel trasferimento di somme di danaro nell’ordine di poco più di L. 100 milioni, costituiva una goccia nel mare del fatturato mafioso ben più ampio. Un contributo per altro che avrebbe dovuto essere dimostrato secondo lo statuto probatorio ormai accreditato dalla sentenza di sezioni unite ********, in termini di “quasi certezza” e rispettosi del principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio;

g) il vizio di motivazione sull’elemento psicologico del reato associativo. La sentenza impugnata, a pagina 321, ha motivato in ordine alla sicura consapevolezza di D. circa il fatto che la sua azione avrebbe procurato il risultato di favorire la mafia consentendole di attuare i suoi propositi criminosi, risultato “coscientemente accettato dall’imputato”. Con tale affermazione il giudice del merito avrebbe accreditato, secondo la difesa, l’esistenza di un dolo indiretto o eventuale ossia del tipo di elemento psicologico che la sentenza delle sezioni unite ******* ha escluso possa essere sufficiente a sostegno della fattispecie di concorso esterno in associazione mafiosa.

E’ infatti necessario che ricorra il dolo specifico, nel senso che il concorrente sa e vuole che il suo contributo sia finalizzato alla realizzazione del programma criminoso. La corte di merito, citando un risultato soltanto “accettato”, in sostanza ha lasciato spazio alla tesi della difesa secondo cui il vero ed esclusivo fine perseguito dal ricorrente era quello di tutelare gli interessi di B. e della sua famiglia;

g-bis) il motivo è ripreso in altro motivo nuovo (indicato sub 5) nel ricorso aggiunto).

In esso, in particolare si citano le fonti probatorie (la telefonata tra D.A. e C. del 25 dicembre 1986 e le dichiarazioni di C., in un incontro con mafiosi, nel 1986, udite e riportate da Ga.) attestanti, secondo la difesa che D. tentava di sottrarsi alle pesanti richieste di Cosa nostra, tanto da far intervenire, come attestato in sentenza, addirittura R.;

h) il vizio di motivazione e la violazione di legge in punto di aggravante ex art. 416 c.p., comma 1. il reato associativo, contestato per i fatti precedenti al 1982, ai sensi dell’art. 416 c.p., prevedeva a carico del ricorrente la circostanza aggravante dell’essere promotore, ai sensi del primo comma. Nel dichiarare assorbito tale reato in quello ex art. 416 bis c.p., l’aggravante avrebbe dovuto essere eliminata;

i) il vizio di motivazione sul diniego delle attenuanti generiche, invece da concedere posto che almeno uno degli intenti di D. non può che essere stato quello del portare un aiuto all’amico. Era poi stato valorizzato a illustrazione della gravità della condotta, cosiddetto episodio Ch. che però si era concluso in separato processo con la assoluzione di D..

Ulteriore violazione di legge sarebbe nel fatto che la corte d’appello ha escluso la continuazione per due reati ma ha omesso di eliminare la pena che era stata inflitta in relazione all’art. 81 c.p.;

l) il vizio di motivazione sull’esatta individuazione del momento consumativo del reato e sulla mancata operatività della prescrizione. Il momento consumativo del reato permanente deve intendersi realizzato con la cessazione del protrarsi dell’offesa e di tutti gli altri dati materiali e giuridici caratterizzanti la fattispecie.

Si tratta però di una indagine che deve essere compiuta non in astratto, ma con riferimento alla natura ed alla essenza della condotta contestata (vedi Corte costituzionale sentenza numero 520 del 1987), con la conseguenza che mentre il partecipante organico al sodalizio mafioso vede consumare la propria azione di rilevanza penale soltanto con la cessazione del sodalizio o con la sua inequivoca abiura, il concorrente esterno apporta un contributo soltanto occasionale alla vitalità del sodalizio. Ed è in relazione alla cessazione di tale comportamento che per esso deve valutarsi il momento consumativo del reato.

Pertanto essendo del tutto irrilevanti i comportamenti che si sono sostanziati in una semplice vicinanza o frequentazione con i soggetti mafiosi, deve ritenersi, a parere della difesa, che ai fini della prescrizione, i comportamenti da considerare sono le concrete attività materiali che D. avrebbe posto in essere per rafforzare il sodalizio. In conclusione, la difesa segnala che la data di consumazione del reato, genericamente indicata in sentenza nel 1992, non è quella rilevante ai fini che qui interessano.

Invero, la data di cessazione dei presunti pagamenti non è indicata in modo preciso da F., mentre i collaboranti Ga.

C. e A. hanno detto di essere a conoscenza di pagamenti effettuati fra il 1984 del 1986. Anche la deposizione di G. è relativa a fatti appresi verso la fine del 1986. Per tale ragione il reato dovrebbe ritenersi prescritto;

l bis) con motivo nuovo (indicato sub 6 del ricorso aggiunto) si amplia la trattazione delle ragioni della ritenuta prescrizione del reato. La difesa critica l’opzione ermeneutica secondo cui il concorso esterno in associazione mafiosa avrebbe natura di reato permanente al pari del reato associativo cui si concorre e si rifa alla giurisprudenza della corte costituzionale (sentenza numero 520 del 1987) che fa discendere la natura del reato dalla sua naturale essenza e non da una apodittica qualificazione del legislatore.

Nel caso del concorso esterno non risulta verificato il criterio tipico che serve ad indicare il reato permanente e cioè la configurabilità di un comportamento offensivo che rimane in atto fin tanto che l’agente abbia la capacità di far cessare la lesione del bene protetto.. Infatti il concorso esterno si sostanza in un concreto specifico contributo alle finalità del sodalizio e non in una ininterrotta offesa al bene giuridico che si protrae nel tempo.

In sostanza il rafforzamento del sodalizio addebitato al ricorrente è consistito in singole ed isolate dazioni di danaro – rafforzamenti cioè istantanei – che, in quanto tali, non possono considerarsi condotta permanente.

A ciò va aggiunto che il concorso esterno si sostanzia in un peculiare accordo criminoso che si concretizza in via meramente occasionale tra il sodalizio e il concorrente esterno e ad esso rimangono estranei i lassi temporali che intercorrono tra le varie condotte del concorrente. Il concorrente esterno, cioè, in detti lassi temporali non può retrocedere dalla condotta illecita altrui che non gli appartiene. Così mentre pacificamente permanente è il reato di partecipazione ad associazione mafiosa, la condotta atipica dell’estraneo che abbia efficacemente contribuito a quella tipica dei membri del sodalizio può essere anche istantanea, come si è detto in una sentenza della Cassazione (numero 36769 del 2008) e può cessare per mera inattività a differenza di quella del partecipe (Cassazione, Sez. 2, 15 ottobre 2004).

Ciò posto, la difesa ribadisce che la consumazione del reato ascritto al ricorrente, da collegarsi all’ultimo contributo fornito dall’agente come sostenuto anche nella sentenza impugnata a pagina 635, va anticipata al 1986 e non collocata nel 1992 come sostenuto dai giudici del merito. Infatti il più avanzato contributo causale concreto riferibile al ricorrente dovrebbe essere quello della autorizzazione alla messa a posto della Fininvest per l’installazione di ripetitori in Sicilia: un’autorizzazione che non può essere riferita al 1992, data, semmai, della esecuzione della predetta autorizzazione.

Si legge infatti in sentenza che il mutamento della causale del pagamento da parte di Fininvest sarebbe da far risalire ai primi anni 80 (pagina 283 della sentenza impugnata) : un periodo, cioè, che anche i collaboratori di giustizia Ga.Ca., A. F. e G. individuano negli anni 84-86.

D’altra parte, i pagamenti in questione sarebbero successivi al patto che è l’elemento che può assumere rilevanza per la determinazione del contributo concorsuale, anche a prescindere dall’esecuzione del contenuto dell’accordo (come affermato nella sentenza Cass. 16 marzo 2000 ric. ******) principio affermato anche nella sentenza numero 26 071 del 2004 della Cassazione in materia di corruzione e nella sentenza delle Sezioni unite 25 febbraio 2010, ricorrente *****.

 

I MOTIVI DI RICORSO DEL PROCURATORE GENERALE:

Il Procuratore generale dichiara di voler impugnare sia la sentenza, limitatamente alla intervenuta assoluzione per le condotte successive al 1992, che cinque ordinanze – del 2008, del 2009 e del 2010- con le quali sono state decise questioni istruttorie.

Contesta in sostanza l’impianto generale della sentenza, nella quale una serie di emergenze probatorie sono state valutate in maniera impropriamente parcellizzata e frazionata, fino al punto da far perdere loro la reale portata dimostrativa, quale invece sarebbe stata apprezzabile se le stesse emergenze fossero state considerate tasselli di un mosaico più complesso, capace di attribuire loro un significato che andava oltre il riduttivo valore derivante dall’interpretazione invece solo formalistica, effettuata dal giudice dell’appello.

1. I ricorrente critica in primo luogo le argomentazioni addotte dalla Corte per sostenere che vi è prova dei pagamenti di cui D. si è fatto promotore e mediatore in favore di Cosa nostra, soltanto fino al 1992. La prova derivante dalle dichiarazioni di Ca.Sa. e di F. sarebbe stata mal interpretata nel senso che i due collaboratori nulla potevano sapere di pagamenti protrattisi oltre il 1992 atteso che dopo tale data si sono dati alla latitanza ( Ca.) e/o sono stati arrestati.

D’altra parte nessun elemento viene a sostegno della tesi accreditata in sentenza secondo cui la data del 1992 è plausibile perchè corrisponde alla strage di Capaci e quindi ad un evento gravissimo che avrebbe segnato la fine di qualsiasi collaborazione con cosa nostra.

Avrebbero dovuto, su tale base, essere accreditate le dichiarazioni di G. che aveva parlato di pagamenti fino all’inizio del 1995. 2. Il ricorrente Procuratore critica poi la valutazione della Corte sugli attentati ai magazzini (omissis) (n.5, nei 1990), attentati in danno cioè di esercizi commerciali appartenenti a B., in relazione ai quali sono stati condannati ***** e E.A. in separato processo a Catania.

La Corte d’appello, nella sentenza impugnata (pag. 238 e segg) ha riportato quei fatti ad un movente esclusivamente estorsivo e non politico, errando nel riportare il senso della sentenza emessa a Catania, che viceversa aveva preso posizione a favore del movente politico degli attentati catanesi e cioè della volontà di Cosa nostra di utilizzare B. per raggiungere il Partito socialista italiano e in particolare il leader politico Cr.

B.. Se la Corte d’appello non fosse caduta in tale errore, avrebbe omesso di svalutare le dichiarazioni dei collaboratori Sa., Ma., Pu. e gi. che avevano testimoniato a vario titolo sulla volontà di S. – il quale non avrebbe potuto agire senza l’autorizzazione di R. – di avere, così, il controllo sul proprietario dei magazzini Standa, B. per l’appunto. Nella stessa ottica sarebbe stato possibile attribuire alle dichiarazioni di ga. – invece svalutate dalla Corte – la capacità di dimostrare, come questi avrebbe appreso da terze persone, che, per far cessare quegli attentati, D. aveva cercato un accordo con Cosa nostra.

3. Un ulteriore esempio di parcellizzazione capace di inficiare la tenuta logica delia motivazione viene ravvisato dal Procuratore Generale nel criterio adottato dalla Corte per ricercare (poi per escludere) la prova del patto politico mafioso del 93-94.

La Corte ha infatti escluso la valenza probatoria di circostanze e incontri riferibili al 1994, sul presupposto della loro ininfluenza rispetto ad un patto politico mafioso che avrebbe dovuto avere ad oggetto le consultazioni elettorali del marzo 1994.

Invece, il detto patto non poteva essere inteso in senso notarile e formale come preteso dalla Corte, ma come un work in progress che avrebbe necessariamente comportato sollecitazioni ed incontri tra mafia e D. anche successivi alle elezioni,per ottenere i risultati legislativi sperati a seguito del formarsi di un clima politico favorevole.

4. Il ricorrente censura poi la valutazione delle dichiarazioni di ca.Tu. sull’aiuto che D. avrebbe potuto dare per includere gli esponenti del movimento Sicilia libera – nato per volontà della mafia- nelle liste di Forza Italia.

La Corte, secondo cui ca. aveva qualificato come proprie deduzioni quelle sulla implicazione di D., aveva però trascurato che, nella sua requisitoria, il Procuratore generale aveva illustrato come le affermazioni riduttive di ca. sul ruolo di D. e su M. dovessero ritenersi false perchè frutto di pressioni su di esso esercitate da tale L.C. che aveva sottoposto il ca. ad estorsione per conto dei G.. E le pressioni su ca. erano state testimoniate anche da ca. il quale aveva pure riferito dell’importanza che M. aveva per cosa nostra nell’estate del 94, quando la sua condanna a morte era stata sospesa per gli aiuti che poteva assicurare a Cosa nostra: un aiuto che, secondo lo stesso ricorrente, non poteva che essere- deduttivamente- riportato ai rapporti preferenziali di M. con D., dei quali la mafia era a conoscenza e che intendeva sfruttare.

L’impugnante lamenta anche che la Corte non ha minimamente risposto (a pagina 393) ai rilievi contenuti nella requisitoria circa i contatti dell’imputato con P.N., a dimostrazione del suo interesse verso il movimento politico-mafioso Sicilia libera.

5- Il ricorrente -deve ritenersi sul tema del ruolo di M. in cosa nostra nel 1993-1994, invero nemmeno menzionato nel punto specifico del ricorso- critica il modo con cui è stato valutato il contributo dichiarativo di Cu., del quale erroneamente si sarebbe detto in sentenza che non abbia riscontrato le affermazioni di G. a proposito dell’incontro tra M. e D. a (omissis), finalizzato a conseguire promesse di leggi favorevoli in esecuzione del presunto patto stipulato.

Ebbene Cu. aveva parlato del ruolo assunto da M. a capo del mandamento mafioso di Porta Nuova, all’indomani dell’arresto di C. nel luglio del 93, ruolo dovuto non solo alle sue conoscenze degli interessi locali ma anche soprattutto ai suoi contatti politici, già in ciò non differendo dalle dichiarazioni di altri collaboratori.

Il ricorrente torna poi sul tema, già sottolineato ai giudici del merito, della data dell’incontro fra M. e D. per il presunto consolidamento delle promesse legislative, data che la Corte d’appello non è riuscita a ritenere riscontrata da alcun elemento oggettivo ma che il ricorrente sostiene essere esattamente quella indicata da Cu.: cioè dopo la sua scarcerazione del 1994 e prima delle dimissioni del governo nel dicembre dello stesso anno.

Non vi sarebbe d’altra parte la difformità delle dichiarazioni fra G. e Cu. a proposito del detto incontro- difformità dalla quale la corte ha fatto discendere la mancanza di prova dell’incontro stesso- potendosi quelle difformità spiegare in ragione del fatto che, quando Cu. consigliò a Ba. e Br. di prendere contatti con la politica(subito dopo la sua scarcerazione nella estate del 1994), semplicemente ignorava che quegli agganci c’erano già stati.

Ad avviso del ricorrente poi non è corretto ritenere che vi sia un netto contrasto tra la versione di G. sull’effettività degli incontri tra D. e M., su proposta di Co., dopo la scarcerazione di questi (fine giugno 1994), e la dichiarazione di L.M., secondo cui invece, quell’incontro sarebbe avvenuto venti giorni prima delle elezioni, ossia nel marzo 1994:sarebbe stato sufficiente chiedere chiarimenti a Cu. come richiesto ex art- 603 c.p.p., dal PG, ma negato dalla Corte con ordinanza del 2007.

Anche la svalutazione delle dichiarazioni di D.N. – per non coincidenza cronologica con quelle di L.M. – a proposito dell’incontro tra D. e M. o suo genero, è contraddetta dalla testimonianza di Br. che ha parlato non di un unico incontro, ma di un andirivieni dell’ex stalliere da e per (omissis).

6. Il PG critica, poi, la valutazione data alle annotazioni sulle agende della segretaria dell’imputato,che avrebbero ben potuto costituire un riscontro alle affermazioni sulla effettività dell’incontro tra M. e D.. La Corte aveva ritenuto che quelle annotazioni non potessero costituire prova della effettività degli incontri in questione, ma il ricorrente sostiene che almeno la seconda annotazione sarebbe dimostrativa di un incontro effettivamente avvenuto nel novembre 1993: questo, infatti, pur essendo solo preannunciato alla luce della seconda delle annotazioni, ben potrebbe essersi realmente tenuto, osservandosi pure che la segretaria di D. non lo aveva confermato solo perchè non era al corrente dei fatti e degli appuntamenti che prescindevano dal proprio personale intervento.

In conclusione l’incontro del novembre 1993, documentato in agenda, e che secondo il PG forse si sarebbe effettivamente verificato, dovrebbe costituire il riscontro ad altre affermazioni di Cu.

(riportate a pag 270 della sent. di primo grado) secondo cui M. aveva avuto incontri con De. anche prima della propria scarcerazione.

D’altra parte il ricorrente ritiene che la criptica annotazione nella agenda sottintendesse rapporti assai collaudati tra D. e M., non avendo il primo mancato di precisare che era a conoscenza dello speciale spessore criminale dell’altro, al quale dunque non si sottraeva per puro timore. Il Procuratore generale lamenta poi la illegittimità dell’ordinanza del 18 maggio 2007 con la quale la Corte ha rigettato la richiesta di un nuovo esame di Cu. affinchè riferisse sul contenuto della confidenza ricevuta da M. a proposito dei provvedimenti legislativi di cui D. gli avrebbe parlato in occasione di incontri; ed altresì delle ordinanze del 28 gennaio 2008 e dell’8 gennaio 2010 con le quali la stessa Corte aveva rigettato l’istanza del PG di assunzione dei teste (nuovo) c. sui provvedimenti legislativi in questione e di acquisizione di una memoria illustrativa delle dichiarazioni del collaborante Cu..

Richiamandosi al tenore letterale delle memorie depositate il 5 ottobre 2007 e il 7 gennaio 2010 a sostegno delle richieste istruttorie poi rigettate, lo stesso PG ripropone a questa Corte che Cu. avrebbe dovuto deporre sulle promesse (fatte a M.) di D. che di lì a poco, e cioè nel gennaio 1995, avrebbe propiziato iniziative legislative favorevoli sull’arresto per associazione mafiosa: e ciò, nel corso di un incontro pacificamente da collocarsi nel 1994, come desumibile dalle parole dello stesso Cu. che aveva precisato che quello era stato successivo alla pubblicazione del decreto Bi., cosiddetto salva-ladri, che era del 14 luglio 1994.

E il decreto-legge presentato dall’on. Bi. aveva formato, nella memoria del PG del 2007 materia di una specifica disamina volta a dimostrare come sr trattasse, nel testo del Ministero, di una normativa capace di restringere pesantemente la possibilità di applicazione della custodia cautelare. Il decreto decadde tuttavia poichè nel dicembre del 94 il governo B. perse l’appoggio della Lega-nord e si presentò dimissionario, venendo sostituito, nel 1995, da un governo di segno politico opposto. In sostanza il Procuratore generale aveva rappresentato, nella istanza istruttoria alla Corte d’appello, la rilevanza e la necessità di ulteriormente indagare, alla luce dei lavori parlamentari appena indicati, sull’affermazione di Cu. secondo cui, prima del Natale del 1994, D. si era incontrato a (omissis) con M. e gli aveva promesso di presentare, per gennaio 1995, delle proposte legislative molto favorevoli: quelle appunto che erano rappresentate dal testo sulla custodia cautelare dapprima caldeggiato dall’onorevole Bi. e poi riproposto in altro testo, dopo la decadenza del primo. Il tutto anche alla luce della considerazione che M. non poteva avere mentito a Cu. (e questi di conseguenza ai giudici) millantando rapporti inesistenti con D.: infatti le cognizioni di M. sul decreto salva- ladri apparivano il frutto di uno speciale tecnicismo e di una conoscenza nel dettaglio ( Cu. aveva parlato di una piccola modifica che riguardava l’arresto sull’art. 416 bis c.p.) che non potevano essere stati desunti dalla trattazione della questione sulla stampa e che invece potevano essere stati conosciuti solo attraverso le confidenze di una persona competente e interessata come D. e si attagliavano esattamente al senso della modifica apportata alle norme sulla custodia cautelare: modifiche consistite, nel testo provvisorio, nella abolizione della presunzione di pericolosità in materia di associazione mafiosa e nella conseguente creazione di un onere di motivazione a carico del giudice, foriero di contenziosi dai più imprevedibili risvolti.

Per giunta, si era fatto notare come i tempi di preparazione e di presentazione del disegno di legge per l’approvazione al Parlamento (primo semestre del 1994, gennaio 1995) fossero esattamente coincidenti con i particolari cronologici desumibili dal racconto di Cu.: il disegno di legge favorevole alla mafia era cioè stato varato e solo la caduta accidentale del governo ne aveva impedito l’approvazione.

In conclusione, il racconto di Cu. circa i due incontri che M. avrebbe avuto nel 1994 con D. era logico e riscontrato obiettivamente dall’esistenza dell’iniziativa legislativa caldeggiata dall’onorevole Bi.; inoltre l’incontro del novembre 93, documentato dall’agenda, nonchè quello descritto da L.M. come avvenuto venti giorni prima delle elezioni, costituivano non il frutto di un ricordo confuso di Cu., ma la prova della preparazione dei successivi incontri del ’94.

I temi erano stati proposti nella memoria del PG del 7 gennaio 2010, dopo la scoperta della deposizione di tale ci. al PM di Firenze a proposito di una legge favorevole alla mafia che B. stava preparando. Di fondamentale importanza, ad avviso del PG, era la prova che esso voleva fornire della data reale, risalente alle festività natalizie del ’94, degli incontri fra M. e D., descritti da Cu., considerato che proprio sull’incertezza della data in questione si era fondata la decisione della Corte di negare la valenza probatoria sia la dichiarazione di Cu. che alle annotazioni sull’agenda: e ciò senza considerare che le dichiarazioni di ci. costituivano prova nuova, alla quale la parte richiedente aveva diritto di accedere.

7. Il ricorrente critica anche la sentenza nella parte in cui ha escluso che siano stati accertati rapporti fra D. e i fratelli G. – soggetti di rilievo nel panorama mafioso palermitano, arrestati nel 1994 con i loro favoreggiatori D. e Sp. -, rapporti utili nella prospettiva accusatoria della delineazione del legame di natura politica fra D. e la mafia, riferibile ad anni successivi al 1992 e precisamente al 1994.

La tesi dell’accusa, ritenuta non provata dalla Corte, era stata quella dell’avere, il predetto D., ottenuto nel 1994, per il tramite dei fratelli G., che si sarebbero avvalsi del rapporto con D., un provino per il figlio minorenne, presso la formazione giovanile della società calcio Milan. La Corte aveva evidenziato che della presunta intromissione di D. nella vicenda calcistica che interessava D., su pressione per giunta dei G., non era prova in atti, tenuto conto che D. lo aveva negato e nessuna conferma era venuta dai fratelli menzionati.

Le scarse prove acquisite presso i tecnici del Milan dimostravano, ad avviso della Corte, che vi era stato un provino non nel 1994, ma nel 1992: quello cioè in relazione al quale D. aveva parlato di un interessamento soltanto del proprio amico Ba.Ca..

Ebbene il ricorrente critica tale impostazione soprattutto sottolineando che la Corte aveva ignorato i rilievi evidenziati nella requisitoria scritta con particolare riferimento al fatto che D. aveva dichiarato al pm, in due occasioni nel 1996, di avere richiesto ad uno dei fratelli G., che egli aveva ospitato nella propria casa nel dicembre 1993, di dargli una mano per inserire il figlio nel Milan calcio.

La Corte avrebbe dovuto cioè sospettare di mendacio le dichiarazioni di D. in dibattimento, avendo costui dolosamente negato di aver interessato i G., e attraverso questi il D., per ottenere il provino calcistico che si era regolarmente svolto nel gennaio del ’94: il mendacio era spiegabile nell’ottica di tenere separato il D. da qualsiasi ambiente mafioso all’indomani dell’arresto dei fratelli G., arresto seguito dall’iniziativa a Palermo, del sopra menzionato L.C., reggente della famiglia prima capeggiata dai G., volta allo stesso scopo. Ad ottenere, cioè, che (come nel caso di ca.Tu.) non si parlasse dei rapporti fra D. e ambienti mafiosi.

Il ricorrente contesta anche che le dichiarazioni di Sp. S. fossero frutto di progressione accusatoria e che il provino calcistico di cui hanno parlato i tecnici del Milan fosse quello da ricondurre al 1992 “essendo lecito dubitare dell’esattezza dei ricordi temporali di Za.”. 8. Il ricorrente lamenta la riduttiva valutazione da parte della Corte territoriale, dell’esame di Sp.Ga..

A tal fine riporta i brani della propria requisitoria, presentata in appello, per ricostruire l’importanza delle dichiarazioni del collaboratore il quale aveva riferito che verso la fine del 1993 era stato convocato da G.G. in una villetta di (omissis) per progettare un nuovo attentato a (omissis).

L’attentato doveva servire a fare “smuovere” quelli di (omissis).

In un incontro che il collaborante aveva avuto successivamente a (omissis), nella fase esecutiva dell’attentato, con lo stesso G.G., costui gli aveva detto che si era chiuso tutto e che si era ottenuto quello che si cercava dalla politica, grazie a persone serie come B. e un certo D..

Questi avevano messo il Paese nelle loro mani.

L’attentato era stato poi posto in essere ma era fallito.

Orbene, sulla capacità di tale dichiarazione di rappresentare una prova o un ulteriore serio indizio dell’esistenza di un accordo politico-mafioso anche con i G. e che avrebbe visto D. in veste di patrocinatore, la Corte si era espressa negativamente, in primo luogo evidenziando la tardività delle dichiarazioni del collaboratore, intervenute nel 2009 dopo lo scadere dei 180 giorni dall’inizio della collaborazione (giugno-dicembre 2008), a distanza di circa un anno da tale data: e ciò, sempre ad avviso della Corte, senza una ragionevole spiegazione, tenuto conto, al contrario, della particolare importanza di tali rivelazioni, destinate a coinvolgere quello che all’epoca era divenuto il capo del governo.

Sostiene allora il ricorrente, citando i più recenti approdi delle sezioni unite, che la tardività della dichiarazione del collaboratore non è causa della sua inutilizzabilità e quindi nemmeno della sua sicura inaffidabilità. Il PG ritiene invece che il ritardo dello Sp. non sia affatto ingiustificato: egli ha infatti spiegato di avere parlato di D. tempestivamente dopo l’inizio della collaborazione e di avere taciuto soltanto il particolare della conversazione con G. al bar (omissis), perchè quella conversazione- che esso aveva posto in collegamento con la precedente conversazione di (omissis) – gettava luce sui rapporti fra i B. e le stragi di cui si era parlato, appunto, nel precedente incontro con lo stesso G. a (omissis). Egli infatti aveva avuto timore di parlare di questo livello di implicazioni dal momento che B. era il capo del governo appena insediato e il ministro di giustizia era un siciliano come D.. Questo timore, espresso da Sp. a giustificazione del silenzio a lungo serbato sulla vicenda del bar (omissis), pure riscontrabile sulla base della cronologia degli eventi politici, era stato misconosciuto dalla corte d’appello del tutto ingiustamente. Per giungere a tali conclusioni infatti la corte aveva valorizzato le dichiarazioni fatte da Sp. in epoca precedente (novembre 2008) al pm di Caltanissetta, dichiarazioni che tuttavia, come precisa il ricorrente, riguardavano le diverse connivenze mafiose addebitabili all’imputato e non anche il tema del possibile collegamento tra l’imputato, B. e le stragi che sarebbe emerso se gli avesse parlato dell’episodio del bar (omissis).

Il ricorrente lamenta l’atteggiamento di chiusura della Corte verso qualsiasi iniziativa istruttoria della Procura generale volta a dimostrare, attraverso l’assunzione di altri testi ( Ro. e ci.) che Sp. aveva potuto riferire al pm nisseno di avere detto a tali sodali del solo coinvolgimento di B. nella interlocuzione con la mafia per la realizzazione delle stragi.

In conclusione il ricorrente lamenta come la Corte abbia espresso un giudizio negativo sulla credibilità di Sp. mal utilizzando il criterio della sua compromissione in numerosi e gravi reati, quale motivo di un negativo giudizio morale anzichè, come si sarebbe dovuto, quale ragione giustificatrice della presunzione di una particolare conoscenza dei fatti del sodalizio. In più si sarebbe dovuto tenere conto del fatto che, al tempo dell’incontro al (omissis), il D. era, per Sp. un perfetto sconosciuto, si da escludere l’ipotesi di dichiarazioni di natura vendicativa.

In terzo luogo era rimasto nell’ombra il fatto che Sp. aveva intrapreso un percorso collaborativo fondato su ragioni anche religiose, autoaccusandosi di un delitto gravissimo come quello di (omissis).

Era poi del tutto erroneo il ragionamento della Corte secondo cui lo Sp., quando aveva parlato, all’inizio della sua collaborazione, ai pm, della vicenda dei tabelloni pubblicitari e dei G., era rimasto ben lontano dal sottoporre agli inquirenti il rapporto di D. con la mafia nei termini poi descritti in dibattimento e riferiti alla vicenda del bar (omissis): la Corte, invece, avrebbe dovuto leggere quelle informazioni esattamente come detto dal collaboratore e cioè come indizi, a proposito del rapporto di D. con la mafia, “seminati” quando ancora non trovava il coraggio di parlare ai giudici dei fatti ben più gravi di cui era conoscenza.

Infine il ricorrente contesta che il racconto fatto da D., a proposito della buona novella che G. gli avrebbe annunciato al bar (omissis), fosse rimasto privo di riscontri.

Il riscontro era nella natura politica della conversazione, indicativa di inadempienze della classe politica precedente e nel fatto, integrante una vera e propria anomalia, che l’attentato a (omissis), già deciso, fosse rimasto sottoposto a condizione sospensiva in attesa di un evento che sarebbe dovuto accadere: di tale anomalia non è traccia alcuna nella ricostruzione della Corte. D’altra parte doveva considerarsi sintomatico anche il colloquio avuto dal dichiarante, in carcere, con G.F., relativo alla ipotesi di una collaborazione con gli inquirenti nel caso di persistenza delle inadempienze politiche: le aspettative in altri termini, non potevano che trarre origine da promesse, sicchè risulta apodittica l’affermazione della Corte contenuta a pagina 515 della sentenza, secondo cui le aspettative sarebbero invece state fondate su pretesi impegni non provati, assunti da esponenti politici. Utile sarebbe stato, poi, valorizzare le dichiarazioni di D.G. M. il quale aveva chiarito, negli interrogatori acquisiti al processo, che a partire dal 2001 l’organizzazione mafiosa aveva accettato che l’art. 41 bis c.p., non potendo essere abrogato, fosse quantomeno alleggerito nei suoi effetti.

Il ricorrente denuncia poi la illegittimità dell’ordinanza del 18 dicembre 2009 con la quale la Corte ha rigettato la richiesta di sentire il collaborante Gr.Sa.: un collaborante che aveva parlato delle stragi del ’93 come poste in essere per costringere lo Stato a venire a patti con la mafia, essendoci un politico in contatto con l’organizzazione mafiosa. Tale politico era D. del quale aveva saputo, attraverso Ma.Ni., che era gestito dai G..

9. In ordine al tema rappresentato dalle intercettazioni del 1999 e del 2001, il ricorrente ritiene corretta l’interpretazione in chiave accusatoria datane dal Tribunale all’esito del giudizio di primo grado.

Si è trattato infatti di intercettazioni che, pur riferite ad epoca ampiamente posteriore rispetto a quella qui di interesse, stavano a dimostrare autonomamente l’esistenza del patto politico del 1993-94 e delle relazioni illecite che, all’epoca, l’imputato aveva stretto con M.. Quei colloqui infatti lasciavano trasparire la decisione di cosa nostra di votare per D., nel frattempo già eletto deputato al Parlamento nazionale (1996), e candidatosi a quello europeo nel 1999, perchè nell’ambiente mafioso era stato preso un impegno in tal senso, essendo confermativa dell’assunzione di tale impegno e quindi dell’esistenza di un patto, anche la conversazione intercettata nel 2001, nel corso della quale il boss Gu. aveva espresso delusione per il mancato mantenimento dei patti da parte di D.. Ebbene, la Corte d’appello aveva negato rilevanza probatoria a queste intercettazioni sul presupposto della loro lontananza cronologica dal patto che costituisce oggetto del presente giudizio ed altresì dell’assenza di riferimenti al ruolo che vi avrebbe assunto M.: un ragionamento, ad avviso del ricorrente, manifestamente illogico dal momento che contiene anche la affermazione della rilevanza di quelle conversazioni ai fini della eventuale dimostrazione di un diverso accordo con ia mafia di cui D. sarebbe stato protagonista nel 1999. Si sarebbe trattato, in altri termini, della prova di un fatto in tutto omologo a quello oggi in esame, ingiustificatamente dunque ritenuto scollegato dal precedente.

La Corte avrebbe errato anche nel rilevare la mancata elezione di D., a quelle competizioni elettorali, nel collegio Sicilia- Sardegna, quale sintomo dell’assenza di un vero e proprio patto, sia pur riferibile al 1999: infatti, ad avviso del ricorrente, la Corte avrebbe dovuto valorizzare un’altra parte delle intercettazioni di Gu., evidenziate nella requisitoria scritta presentata alla Corte d’appello, conversazione dalla quale emergeva che la mancata elezione di D. era dovuta non alla assenza di un vero e proprio patto con la mafia ma alla controffensiva di *******è. 10. Il ricorrente PG passa quindi a contestare la tesi delle dichiarazioni di M. – a proposito degli incontri con D. – come pure millanterie, ossia come esagerazioni nella descrizione di collegamenti con la politica, funzionali al mantenimento, per M. stesso, della carica di capo-mandamento e a sfuggire alla condanna a morte decretata da Ba..

Il Procuratore generale ricorda che vi sono prove corpose nel processo a dimostrazione del fatto che M. non millantava rapporti inesistenti: e tali sono la dimostrata sua presenza alla mensa di B. durante la cena della notte di (omissis) ed altresì la conversazione intercettata di Gu. che parlava di C.G. – ritenuto responsabile del mandamento di Santa ***** del Gesù -come tramite con D. quando M. era detenuto.

In più il *********** generale si riporta al contenuto della requisitoria che egli aveva presentato alla Corte d’appello, nel corso della quale erano state citate dichiarazioni di Ca.:

da queste si evinceva che M. era stato condannato a morte da Ba. perchè ritenuto autore di una fuga di notizie su fatti di interesse della mafia e non perchè fosse un millantatore. Anche il collaboratore L.M. che aveva attribuito i contatti di M. ad un rapporto diretto con B., senza cioè la mediazione di terzi, aveva formulato personali collegamenti.

E Br.Gi., che aveva parimenti ricostruito i contatti di M. come collegati direttamente alla persona di B., avrebbe dovuto essere “letto” alla luce delle dichiarazioni di Sp. che aveva chiarito come i contatti con la mafia riguardassero tanto B. quanto D..

11 – In ordine alla affermata insussistenza del patto politico mafioso, il ricorrente ritiene che la conclusione raggiunta dalla Corte d’appello, diversamente da quanto da essa sostenuto, non sia conforme ai principi formulati dalla sentenza delle sezioni unite *******, riguardo ai connotati di un simile patto che deve essere caratterizzato da promesse serie e specifiche di ognuna delle parti.

Il PG si affida ancora una volta al contenuto della requisitoria già presentata alla Corte d’appello nella quale si era ricostruito l’antefatto del patto stretto fra D. e M. in un contesto nel quale erano già maturati stretti rapporti fra D. e i fratelli G. che erano i giovani emergenti all’interno della famiglia mafiosa, palermitana, di **********, sotto la guida di Ba..

Ebbene, i contatti tra D. e M., come riferito da Cu., erano stati plurimi, anche prima di quelli da esso stesso espressamente richiamati, come avvenuti alla fine del 1994. Ve n’era traccia, del resto, nelle annotazioni dell’agenda dell’imputato relative alla fine del 1993, la stessa epoca nella quale D. riceveva da G.G. la promessa di ottenere, tramite amicizie milanesi, l’inserimento del figlio nelle formazioni giovanili del Milan. Sempre alla fine del 1993 risale il summit mafioso di cui ha dato atto Sp., nel corso del quale G.G. gli aveva annunciato una cosa politica dalla quale tutti avrebbero tratto vantaggi, mentre a gennaio ’94 risale l’incontro tra G. e lo stesso Sp. al bar (omissis), durante il quale il primo aveva annunciato di aver ottenuto quello che il gruppo voleva, grazie alla serietà di D. e B..

Era poi stata chiarita la vicenda della pressione effettuata da L. C., rappresentante dei G., per indurre ca. a non parlare dei suoi rapporti con D., onde impedire agli inquirenti di scoprire i contatti fra quest’ultimo e i G.;

così come la vicenda del silenzio serbato da D. circa il provino ottenuto dal figlio grazie a D. per il tramite dei G..

Da D. si era, del resto, recato M. alla vigilia delle elezioni del (omissis) come riferito da L.M., tornando indietro con l’invito rivolto allo stesso L.M. di votare Forza Italia, perchè “..ci danno qualche possibilità del 41 bis”.

Oltre alla importante deposizione di L.M. viene poi ricordata quella di Cu. – sopra anticipata- riferita ad epoca successiva alle elezioni del 94, e concernente i due incontri che in tale epoca M. avrebbe avuto con D. a (omissis), conseguendone la promessa di proposte normative favorevoli in tema di art. 41 bis e di arresto per il reato di associazione mafiosa. Nella stessa occasione M. aveva precisato che un altro tentativo di fare una piccola modifica al decreto Bi. era fallito.

La terza importante acquisizione probatoria era rappresentata dalle dichiarazioni di ****** che pure aveva parlato, dal canto suo, di tentativi volti a ottenere modifiche all’art. 192 c.p.p. oltre che di avere visto gu.Gi. reggente di Re. tornare euforico da un incontro con M. o con il genero di questi, avendo il primo dato buone speranze dopo avere parlato con D. delle “cose politiche”.

Si inserirebbe nel mosaico, il tassello rappresentato dalla vicenda D. e dalle dichiarazioni di Sp. che andavano a colorire il rapporto di D. con i G., rapporto non antagonista di quello tra D. e M. tenuto conto che i fratelli G., come M., appartenevano allo stesso schieramento politico nello stesso ambito mafioso.

Aveva quindi preso corpo- attraverso le dichiarazioni di Cu., D.N. e L.M. – la tesi dell’appoggio che Cosa nostra avrebbe dovuto fornire, per la competizione elettorale, a D..

Tutto ciò premesso, nella stessa requisitoria sopra menzionata, si era fatto presente che gli elementi raccolti erano più che sufficienti a sostanziare l’ipotesi del concorso esterno in associazione mafiosa secondo i criteri stabiliti dalla sentenza delle sezioni unite *******.

Infatti, dalle deposizioni sopra ricordate erano emersi persino gli articoli di legge che avrebbero dovuto costituire oggetto della modifica legislativa promessa da D., sicchè la promessa dallo stesso fatta presentava in primo luogo il carattere della “specificità”.

Ma essa presentava anche il carattere della “serietà” vista la affidabilità dei protagonisti che, dal lato della associazione mafiosa, sono da individuare non tanto in M., capomandamento di una famiglia palermitana, quanto in Ba. e Br. che erano invece il vertice di cosa nostra. Quanto infine alla verifica ex post degli effetti della promessa in ordine alla conservazione o al rafforzamento dell’organizzazione mafiosa, nella requisitoria si era fatto rilevare che vi erano stati effetti importanti dell’accordo stesso: l’abbandono della ricerca di nuovi referenti politici, l’aumento, quindi, della possibilità di indirizzare tutte le energie del sodalizio al conseguimento degli scopi illeciti ad esso congeniali, mediante la cosiddetta sommersione o strategia di basso profilo, l’abbandono del progetto autonomista di Sicilia libera, il ricompattarsi dei due schieramenti di cosa nostra in precedenza divisi fra il perseguire la pista stragista e il perseguire, viceversa, contatti politici, l’allontanamento dello spettro della disgregazione dell’organizzazione mafiosa per mezzo delle riforme legislative promesse.

12. Il Procuratore ricorrente lamenta quindi la illegittimità dell’ordinanza del 17 settembre 2009 con la quale la Corte ha rigettato l’istanza di assumere la deposizione di Ci.

M..

Costui avrebbe dovuto deporre in merito al rinvenimento, in suo possesso, nel 2005, di un frammento di foglio contenente una richiesta che cosa nostra intendeva formulare a B. a proposito di reti televisive. Egli avrebbe dovuto deporre anche su altre due lettere che aveva ritirato intorno al 1992 da ambienti mafiosi e che dovevano essere recapitate, al pari della precedente, a D.: quelle missive erano la prova che Pr. si rivolgeva all’imputato e quindi aveva un rapporto con esso.

Il Procuratore generale lamenta che la prova nuova sia stata rifiutata in quanto manifestamente irrilevante così come una nuova richiesta di assumere Ci., formulata durante la discussione finale del processo, era stata rigettata (ordinanza del 5 marzo 2010) per mancanza del requisito dell’assoluta necessità.

Illegittimo doveva ritenersi il ragionamento della corte al riguardo tenuto conto soprattutto della erroneità dell’assunto secondo cui Ci.Ma. non aveva avuto rapporti diretti con D.M.: era vero il contrario posto che gli aveva descritto un’esperienza personale consistita nel ritiro della lettera di Pr., diretta a D..

Il Procuratore generale censura anche l’affermazione della Corte secondo cui le dichiarazioni di Ci. sarebbero state caratterizzate da progressione accusatoria, avendo egli affermato, per la prima volta, il 20 novembre 2009 di essere a conoscenza personalmente di rapporti diretti tra D.M. e Pr.Be..

Infatti anche in precedenza egli aveva esibito biglietti dattiloscritti, scritti da Pr. e diretti al padre in cui si faceva riferimento a personaggi anche politici.

13. Unfine il Procuratore generale, sul tema della vicenda Ci., critica le conclusioni raggiunte dalla Corte d’appello, affidandosi ai motivi in proposito articolati nella requisitoria scritta depositata nel giudizio di secondo grado. Censura, in particolare, la parte della motivazione nella quale la Corte d’appello nega qualsiasi rilevanza dimostrativa, anche soltanto indiziaria, nella prospettiva dell’oggetto del presente giudizio, alle dichiarazioni del collaboratore O.M. che avevano riguardato l’eventualità di un accordo tra D. e Ci., un soggetto con lui imputato, in un diverso processo celebrato a Palermo, del reato di calunnia aggravata volta a screditare i collaboratori di giustizia D.C.O. e gu..

In altri termini l’ O. aveva detto di essere a conoscenza di promesse di denaro fatte da D. a Ci., avvalendosi della collaborazione dell’avvocato D.F. che quei denari avrebbe anticipato in nome e per conto di D..

Ebbene la corte, anche considerando che quella vicenda si era risolta nella sede processuale propria con una assoluzione per D. (mentre la posizione di Ci. si era estinta per morte dell’imputato e quella del terzo imputato, Ch., si era conclusa con un patteggiamento), aveva evidenziato che non vi era prova di condotte di D. in appoggio alle iniziative calunniose eventualmente poste in essere da Ci. e Ch., ma solo prova di contatti dell’imputato con i soggetti che avrebbero potuto essere utili alla preparazione della sua strategia difensiva.

E ciò anche in considerazione della genericità delle dichiarazioni di O. e della posizione assunta dall’avvocato D.F. che, in dibattimento aveva smentito O..

Il Procuratore generale, dunque, ricorda di aver segnalato nella requisitoria, la propensione dell’imputato di inquinare le prove, desumibile dalle dichiarazioni di O.M.. Nella requisitoria egli aveva ripercorso le tappe della ragionamento sulla credibilità dell’ O. a proposito, in primo luogo, dei rapporti fra l’avvocato D.F. (difensore di Ci. nel processo per calunnia) e D., coimputato di quest’ultimo, al quale l’avvocato aveva portato richieste del proprio cliente nel 2002. La esposizione della requisitoria è proseguita anche con le parti nelle quali erano stati trascritti brani di intercettazioni varie o si era parlato della posizione di Fa.Re., amico personale di D. e condannato, a sua volta, per favoreggiamento di soggetti appartenenti al Sismi.

La difesa ha quindi presentato una memoria di replica illustrando le ragioni della ritenuta inammissibilità del gravame del Procuratore Generale della Corte d’appello.

Il Procuratore ******** presso questa Corte di cassazione ha depositato, il 7 marzo 2012, note per l’udienza fissata il giorno 9, contenenti la anticipazione delle richieste da formulare in tale sede e condensabili nella sollecitazione principale all’annullamento con rinvio (ritenendo che quella senza rinvio ex art. 129 c.p.p., pure auspicabile alla luce della motivazione della sentenza in oggetto, sarebbe però impedita dalla assenza di una idonea contestazione del fatto-reato),affinchè sia mandato al giudice del rinvio di:

1) precisare la condotta di rilevanza penale;

2) chiarire se la condotta del concorrente esterno debba presentare i requisiti del concorso in estorsione;

3) stabilire se si sia in presenza di più fatti unificati nella continuazione ai fini di una eventuale prescrizione parziale.

Ad avviso del PG di udienza, infatti, – difetta l’imputazione (nel senso che quella formulata sarebbe generica, insufficiente secondo i criteri della giurisprudenza CEDU e, secondo i giudici del merito, surrogata dalla contestazione dei fatti su cui sono caduti i mezzi prova: evenienza, quest’ultima, che renderebbe ancor più atipica la già atipica fattispecie del concorso esterno); ed inoltre si riverbererebbe sulla tenuta logica della motivazione;

– manca la analisi della condotta dell’imputato, sotto il profilo della fattispecie (non contestata) di estorsione: e ciò, ai fini della motivazione sul reato invece contestato che è, si, quello di concorso esterno ma che, in concreto, è stato configurato come contributo alla realizzazione di una attività di estorsione continuata: o, se non lo fosse stato, il giudice avrebbe dovuto fornire ragguagli al riguardo;

– manca la individuazione specifica del contributo dato dal concorrente esterno alla associazione mafiosa (non, secondo il PG, l’arricchimento consentito alla mafia perchè questo sarebbe derivato dalla vittima e non dal’imputato, non ia induzione della vittima ai pagamenti atteso che in sentenza (pag. 319) si da atto che la vittima era già di per sè disposta a pagare per stare tranquilla e comunque nessun pentito lo ha affermato, non dare corso all’affidamento della mafia (pag. 317) posto che non risultano garanzie date dall’imputato alla mafia, non ia riduzione delle pretese della mafia posto che risulta essere stata la vittima che si servì dell’imputato per contattare la mafia, non l’essere un generico canale di collegamento, essendo la espressione così vaga da cadere sotto la falcidia operata dalla sentenza ******* su tal genere di condotte, non l’aumento del prestigio di Bo., morto egli stesso per mano della mafia).

Quanto alla condotta tenuta quale mediatore per conto della mafia – tesi sostenuta in sentenza – il PG vede in essa un travisamento del fatto, dato che è stata la vittima a scegliere l’imputato come mediatore. E soprattutto la sentenza non spiegherebbe la ipotesi dell’essere stato, l’imputato, non un mediatore ma un nuncius per conto della vittima, dunque un soggetto non distinguibile, sul piano penale, dalla posizione della vittima e certo non imputabile per non essersi “astenuto” dal contattare la mafia: per giunta avendolo fatto nelle persone di due mafiosi che non hanno fruito dei profitti della estorsione;

-manca la motivazione sul dolo diretto, non essendo possibile individuarlo, nelle forme richieste dalla sentenza *******, quando, come nella specie, l’agente avrebbe agito per conto della vittima e degli estorsori; ma soprattutto non terrebbe la tesi dei giudici in quanto sarebbe in contrasto con la prova che l’imputato non avrebbe sfruttato gli amici mafiosi per fondare un nuovo partito in Sicilia;

-manca la prova del profitto personale dell’imputato (prova necessaria secondo giurisprudenza in tema di favoreggiamento: così Cass. N. 38236 del 2004);

-manca la citazione della giurisprudenza sul tema del concorso esterno;

-manca la specificazione della cessazione della condotta che è consistita in ripetuti pagamenti di somme e dunque non è ascrivibile nella cornice del reato permanente; essa comunque potrebbe avere subito l’effetto della cessazione a seguito dell’allontanamento dell’imputato dalle società della vittima a partire dal 1979.

 

Motivi della decisione

1. Il ricorso avanzato nell’interesse dell’imputato è fondato e merita accoglimento nei termini che si indicheranno, mentre, al contrario, il ricorso del Procuratore Generale della Corte d’appello va dichiarato inammissibile.

1A. E’ doveroso- affrontando il primo dei due cennati punti della decisione adottata- prendere le mosse dai motivi di ricorso articolati dalla difesa, all’interno dei quali va individuata un’ apprezzabile denuncia del vizio di motivazione riconoscibile su parte della ricostruzione dei fatti che sono stati ritenuti, dal giudice del merito, idonei ad essere inquadrati nella fattispecie del concorso eventuale in associazione per delinquere e poi di stampo mafioso. Con la precisione, apparentemente pleonastica ed invece funzionale come si vedrà, che i punti investiti dai motivi presentati dalle parti costituiscono il perimetro all’interno del quale anche al Procuratore Generale di udienza era dato intervenire, eventualmente ampliando gli argomenti della discussione e quindi i motivi a sostegno della doglianza sul “punto”, senza viceversa- come del resto dallo stesso riconosciuto- potere investire punti nuovi che quindi si ponessero come ampliamento non consentito del tema devoluto.

Ciò posto, occorre subito sgomberare il campo dalla censura della difesa relativa alle ordinanze (alle loro motivazioni) con le quali sono state rigettate altrettante istanze di rinnovazione del dibattimento.

La doglianza è infondata.

Deve rilevarsi che le prove che si chiedeva di assumere, anche se in buona parte dichiarate dall’impugnante come provenienti da indagini difensive successive alla sentenza di primo grado, devono considerarsi rientranti nel novero delle preesistenti perchè sicuramente “non sopravvenute e neppure scoperte dopo la sentenza di primo grado”.

Invero, l’art. 603, comma 1 sottopone alla condizione, per la ammissione, della “decisività”, non solo le prove già acquisite nel dibattimento di primo grado, ma anche quelle che, pur non acquisite in tali circostanze, il codice qualifica come “nuove”, del genere, però, diverso da quelle del comma 2 ossia da quelle sopravvenute o scoperte dopo il giudizio di primo grado.

In altri termini, sono soggette alla regola della “decisività” le prove che, pur non acquisite nel dibattimento già celebrato, restano “nuove” senza essere “sopravvenute o scoperte dopo”.

Si tratta, evidentemente, tra l’altro, di prove dichiarative che erano note o avrebbero potuto essere note alla parte nella loro ipotizzabile esistenza dal punto di vista soggettivo e oggettivo, essendo afferenti a temi di prova già dichiarati nelle liste e che, ciò nonostante non sono state tempestivamente richieste per ragioni attinenti con ogni evenienza alia prescelta strategia processuale.

Ossia prove che la parte avrebbe potuto dedurre tempestivamente e che, non avendolo fatto, può tentare di introdurre nella istruttoria dell’appello alla condizione, però, della loro capacità di vincere la presunzione di completezza della istruttoria già compiuta. In tal senso si è espressa anche Cass. Sez. 3, Sentenza n. 35372 del 26/05/2010 Ud. (dep. 30/09/2010) Rv. 248366 secondo cui il diritto del difensore di svolgere indagini difensive, pur esercitabile in ogni stato e grado del procedimento, deve tuttavia essere coordinato, affinchè i risultati di dette indagini possano trovare ingresso nel processo, con i criteri ed i limiti specificamente previsti dal codice per la formazione della prova. In motivazione, la Corte ha osservato che la facoltà del difensore di svolgere attività difensiva deve necessariamente essere raccordata con i criteri ed i limiti previsti per la formazione della prova. I risultati di quelle indagini, cioè, in tanto potranno essere “veicolati” nel fascicolo processuale in quanto siano state rispettate e osservate le disposizioni previste dal codice di rito. Ha aggiunto la Cassazione, nella sentenza citata, che è del tutto evidente, infatti, che i risultati di quelle indagini ottenuti in una fase processuale “chiusa” non potranno avere alcuna incidenza. Nota, la stessa sentenza, che la giurisprudenza di legittimità ha anche avuto modo di affermare, sulla stessa linea, che “non è ammissibile nel giudizio di legittimità, anche dopo l’entrata in vigore della L. 7 dicembre 2000, n. 397, la produzione di nuovi documenti attinenti al merito della contestazione e all’applicazione degli istituti sostanziali, non potendosi interpretare come una deroga ai principi generali del procedimento e del giudizio avanti la Corte di Cassazione la lettera dell’art. 327 bis c.p.p., comma 2, nella parte in cui attribuisce al difensore la facoltà di svolgere “in ogni stato e grado del processo” investigazioni in favore del proprio assistito..” (Cass. sez. 3,sent. n. 43307 del 19.10.2001). Per il tipo di prove indicate vale, dunque, il precetto dell’art. 603 c.p.p., comma 1.

Altra ed analoga giurisprudenza ha affermato, con orientamento pacifico, che l’ipotesi di rinnovazione del dibattimento di cui all’art. 603 c.p.p., comma 1, che riguarda prove preesistenti o prove già note alla parte, è subordinata alla condizione che il giudice d’appello ritenga, secondo la sua valutazione discrezionale, di non essere in grado di decidere allo stato degli atti, situazione che può sussistere quando i dati probatori già acquisiti siano incerti ovvero quando l’incombente richiesto rivesta carattere di decisività, nel senso che lo stesso possa eliminare le eventuali incertezze oppure sia di per sè oggettivamente idoneo ad inficiare ogni altra risultanza (Sez. 3, sent. n. 3348 del 13/11/2003 Ud. (dep. 29/01/2004) Rv. 227494).

Anche nel vigente codice di procedura penale, infatti, la rinnovazione del giudizio in appello è istituito di carattere eccezionale al quale può farsi ricorso esclusivamente quando il giudice ritenga, nella sua discrezionalità, di non poter decidere allo stato degli atti (Sez. U, sent. n. 2780 dei 24/01/1996 Ud. (dep. 15/03/1996) Rv. 203974).

Sul punto, la Corte di merito ha rigettato ie istanze in base al rilievo,essenzialmente, della non sopravvenienza e della non decisività del mezzo richiesto ai fini della soluzione finale, come riportato anche dalla difesa nei motivi di ricorso.

E rispetto a tale (ultimo) fondamentale e sufficiente parametro, la difesa ha denunciato una illogicità nella risposta della Corte, invece non sussistente. La difesa ha prospettato infatti una possibile inattendibilità delle dichiarazioni di D.C., da dimostrare con la prova che l’incontro tra Bo. e B. (che avrebbe rappresentato la causa e l’antecedente logico e storico della assunzione di M. ad (omissis)) potrebbe non essersi mai verificato (diversamente da quanto sostenuto dal collaborante) perchè, ad esempio, avrebbe potuto risultare essere stato collocato temporalmente in un’epoca invece di fatto successiva all’oggettivo arrivo di M. ad (omissis). Per tale ragione ha chiesto di assumere i domestici della villa di (omissis). Ebbene, com’è evidente, nessuna di tali prospettazioni appare allegata difesa come frutto certo della deposizione dei testi, essendosi essa limitata (pur dopo avere escusso i testi nelle indagini difensive e quindi avere conosciuto le potenzialità delle loro dichiarazioni) a formulare ipotesi su quella che avrebbe potuto essere la possibile elaborazione da parte dei giudici delle nuove testimonianze a contenuto per giunta incerto.

Un percorso logico, com’è evidente, che denuncia manifestamente la illogicità non della decisione dei giudici (di negare ingresso alle nuove testimonianze) ma della richiesta della difesa, la quale ha l’onere di richiedere la riapertura della istruzione dibattimentale per la acquisizione di prove preesistenti solo quando capaci di incidere in maniera decisiva e prevedibilmente certa sull’esito del processo.

Nel caso di specie, in altri termini, premesso che la ipotesi sopra esemplificativamente formulata è frutto di una elaborazione logica di questa stessa Corte, deve notarsi che non è stato neppure indicato nel ricorso quale sarebbe il rilievo decisivo che acquisirebbe la fissazione di una data piuttosto che un’altra in riferimento all’arrivo di M. ad (omissis). Tanto più ove si consideri che sul tema sono state acquisite dichiarazioni di D. non contestate nel contenuto ed attestanti che la data di arrivo del M. ad (omissis) era stata quella del (omissis) (vedi retro pagina 20). Certamente non afferente all’area della “decisività” è poi la denuncia della difesa sulla mancata assunzione dei testi che si occuparono della ristrutturazione degli uffici della Edilnord, tenuto conto che la mancata descrizione di un particolare dell’arredo da parte del collaborante può trovare molteplici spiegazioni, non tutte compatibili con la tesi della falsità della dichiarazione stessa: spiegazioni che però la difesa trascura nella denuncia della violazione di legge.

Infine la mancata ammissione della testimonianza di B. ha trovato congruente motivazione, da parte della Corte, nel rilievo che esso si era avvalso della facoltà di non rispondere nel precedente grado di giudizio, ditalchè risulta ancora una volta affidata ad ipotesi e congetture della difesa, la denuncia di manifesta illogicità della motivazione della Corte, non essendo stato allegato e tantomeno sostenuto da essa, con elementi concreti, che l’audizione di B. sarebbe stata concretamente idonea a vincere la presunzione di completezza della istruzione dibattimentale ed avrebbe apportato chiari elementi innovativi rispetto al panorama probatorio acquisito. C’è anche da considerare che l’anzidetta facoltà di non rispondere di cui B. si era avvalso vale a collocarlo nel novero dei soggetti da esaminare ai sensi dell’art. 197 bis c.p.p., con la conseguenza, già affermata nella materia delle prove nuove capaci di sostanziare una domanda di revisione, che la dichiarazione liberatoria di un soggetto che va esaminato ai sensi dell’art. 197 bis c.p.p.., deve essere valutata “unitamente agli altri elementi che ne confermano l’attendibilità” (art. 192 c.p.p., comma 3), e non rientra, pertanto, da sola, neppure nel novero delle “prove nuove”, bensì costituirebbe mero elemento probatorio integrativo di quelli confermativi (Sez. 1, Sentenza n. 24743 del 04/04/2007 Cc. (dep. 22/06/2007) Rv. 237337). Osservazioni analoghe a quelle sopra formulate valgono, poi, per le ulteriori testimonianze non ammesse.

Ineccepibile è, inoltre, la motivazione sul rigetto della domanda di ammissione della videoregistrazione della intervista di BO., non essendo chiarito dalla difesa, nel ricorso, la ragione della (esclusa dalla Corte) decisività del detto mezzo istruttorio volto a far acquisire, secondo la sua prospettiva, in maniera invero assai poco ortodossa e quindi giustamente definita generica dalla Corte di merito, dati invece ufficialmente affidati agli archivi informatici degli uffici giudiziari.

1B. Il secondo motivo illustrato dalla difesa -il primo invero che riguardi la legittimità della sentenza- è quello con il quale è stata dedotta la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza specie sotto il profilo della enorme amplificazione dei temi di indagine e la violazione dell’art. 430 c.p.p., essendosi trovata, la stessa difesa, nella impossibilità di fronteggiare tutti i temi e le acquisizioni proposte dalla accusa e ammesse dai giudici.

E con motivo nuovo, indicato sub 7 nel ric. aggiunto, la questione è stata riproposta sotto il profilo della violazione dell’art. 6 della CEDU. La rievocazione appena fatta del motivo di gravame, sostanzialmente fedele alla articolazione originale, comporta, di per sè, una soluzione obbligata e lineare che non può che essere quella della inammissibilità del motivo stesso, sia per la genericità della sua formulazione che, quanto al contenuto, per la sua manifesta infondatezza.

Il motivo di ricorso in esame costituisce infatti la mera riproposizione del corrispondente motivo di appello al quale la Corte ha già dato adeguata risposta a pag. 175 e segg., senza che la risposta stessa sia stata sottoposta dalla difesa, ad una specifica doglianza.

E, come è noto, la mera riproposizione di un motivo di appello già affrontato e risolto in maniera congrua dal giudice del merito, configura, per la costante giurisprudenza di legittimità, un motivo di ricorso inammissibile per genericità, perchè è da considerare non specifico ma soltanto apparente, in quanto omette di assolvere la tipica funzione di una critica argomentata avverso la sentenza oggetto di ricorso (fra le molte, Sez. 6, Sentenza n. 20377 del 11/03/2009 Ud. (dep. 14/05/2009) Rv. 243838).

Ma, a parte la detta genericità, si apprezzerebbe comunque, come anticipato, la manifesta infondatezza della doglianza per le ragioni evidenziate dalla Corte di merito che, nella specie, vanno convalidate tenendo conto, in più, della riperimetrazione (in senso quantitativamente riduttivo) della rilevanza dell questione posta dalla difesa, dovuta alla riduzione della condotta ritenuta meritevole di condanna, condotta dalla quale risulta ora espunta in maniera definitiva (data la inammissibilità del ricorso del Procuratore generale contro l’assoluzione) la parte del concorso ipotizzato in relazione al presunto patto politico-mafioso.

La Corte di merito aveva cioè correttamente evidenziato che la condanna non poteva dirsi pronunciata per un fatto diverso da quello contestato, essendo quest’ultimo costituito, come già evidenziato dal giudice di primo grado (nella ordinanza del 18 novembre 1997) dalla fattispecie del concorso esterno, ipotizzato per essersi l’imputato avvalso della posizione di esponente del mondo finanziario ed imprenditoriale attraverso le condotte poi indicate nel capo di imputazione e destinate, a seguito di acquisizione della specifica e relativa prova, a risultare idonee, oggettivamente e soggettivamente, al rafforzamento del sodalizio criminale facente capo dapprima a Bo. e poi a R..

Hanno poi aggiunto, i giudici del merito, a tale premessa, che la condanna non è risultata affatto eccentrica o, peggio, diversa, rispetto a tale tema contestato e che, in siffatta ottica, non possono avere avuto un ruolo in pregiudizio dei diritti difensivi nè gli esiti delle attività integrative di indagine del Pm nè eventuali risultanze probatorie, che, pur non preventivamente menzionate nella dichiarazione di accusa, hanno tuttavia formato oggetto di contestazione sostanziale, con attribuzione alla difesa stessa del concreto esercizio del proprio mandato.

Quanto ai primi, infatti, si tratta di nuove acquisizioni probatorie, consentite dal codice, che non risultavano, nemmeno nella prospettazione del ricorrente, avere prodotto un ampliamento della contestazione del fatto-reato bensì, semmai, del corredo probatorio a sostegno di questo.

Quanto ai secondi, la Corte di merito si è correttamente riportata al costante insegnamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui in tema di correlazione tra l’imputazione contestata e la sentenza deve affermarsi che, per aversi mutamento del fatto, occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, così da pervenire ad un’incertezza sull’oggetto della imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l’indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non si esaurisce nel mero confronto letterale tra contestazione e sentenza perchè, vertendosi in materia di garanzie difensive, la violazione non sussiste se l’imputato, attraverso l’iter del processo, sia comunque venuto a trovarsi nella concreta condizione di potersi difendere in ordine all’oggetto della imputazione (v, fra le molte, Sez. 4, Sentenza n. 16900 del 04/02/2004 Ud. (dep. 09/04/2004) Rv. 228042; conf. Sez. 2, Sentenza n. 5329 del 15/03/2000 Ud. (dep. 05/05/2000) Rv. 215903).

A tali osservazioni della Corte di merito, la difesa nulla ha replicato in concreto e con la specificità richiesta, come detto, per licenziare un ammissibile motivo di ricorso.

Essa si è infatti limitata a richiedere genericamente la applicazione dei principi espressi nella sentenza n. 10362 del 1997 – peraltro isolata- che non è neppure calzante rispetto al caso in esame perchè ha riguardato un caso di ravvisato mutamento del fatto oggetto di sentenza rispetto a quello della contestazione, sia pure derivato dalle prospettazioni dell’imputato. Mentre, nella fattispecie in oggetto non può dirsi – nè la difesa lo ha argomentato – che sia mutato nella sostanza il fatto di concorso esterno contestato e da provare.

Ugualmente inammissibile si rivela, poi, il profilo della doglianza illustrato nel motivo nuovo, anche con riferimento all’art. 6 CEDU, dovendosi rimarcare, in particolare che, data la genericità della sua formulazione, non risulta neppure allegato dalla difesa rispetto a quali specifiche e decisive accuse essa avrebbe visto limitato concretamente il proprio mandato.

La citazione dell’art. 6 CEDU, comunque, non introduce aspetti dalla doglianza diversamente apprezzabili, non fosse altro che per la ragione che la normativa pattizia è destinata a spiegare la propria efficacia precettiva non in sè, ma nella interpretazione che ad essa da in concreto la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, sicchè il motivo di ricorso fondato sulla pretesa violazione della norma CEDu) non può che richiedere, conformemente ai principi generali in tema di impugnazioni, la illustrazioni delle ragioni di diritto, nella specie giurisprudenziali, a sostegno della doglianza mossa.

Ragioni che, nel ricorso, difettano del tutto.

Deve, a questo punto, darsi atto che il Procuratore Generale della Cassazione ha ritenuto di riprendere tale motivo di ricorso, quando ha osservato, oralmente nella requisitoria come già nelle note depositate per l’udienza, che mancherebbe nella specie l’imputazione (nel senso che quella formulata sarebbe generica, insufficiente secondo i criteri della giurisprudenza CEDU e, secondo i giudici del merito, surrogata dalla contestazione dei fatti su cui sono caduti i mezzi di prova: evenienza, quest’ultima, che renderebbe ancor più atipica la già atipica fattispecie del concorso esterno)con la conseguenza che il detto difetto si riverbererebbe sulla tenuta logica della motivazione ed al giudice del rinvio dovrebbe essere demandata la precisazione della condotta di rilevanza penale.

Si tratta di una richiesta che per molteplici ragioni è impossibile apprezzare: basterebbe osservare al riguardo che- ammesso e non concesso, per le ragioni che si vedranno di seguito, che fosse accoglibile il rilievo sulla genericità della imputazione o quello sulla violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza – la conseguenza sul piano processuale sarebbe, nel primo caso la regressione quantomeno alla fase deila udienza preliminare per la precisazione della contestazione ad opera dell’unico titolare di tale potere, il PM (v. in ta senso Sez. U, Sentenza n. 5307 del 20/12/2007 Cc. (dep. 01/02/2008) Rv. 238239), ovvero, nel secondo caso, l’annullamento della sentenza di secondo e di primo grado (arg. ex artt. 521, 522 e 604 c.p.p.) con sviluppi alternativi a seconda che si ravveda o meno un fatto diverso di rilevanza penale da giudicare senza essere stato contestato (art. 521 c.p.p., comma 2), mentre non potrebbe certo essere quella sollecitata dal Procuratore Generale di udienza, di investire il giudice del rinvio (quindi, sembrerebbe, la Corte d’appello) con mandato alla stessa di un potere (“precisazione della condotta”: così testualmente dalle note di udienza del PG) che non è previsto dall’ordinamento. Un potere, infatti, che inteso come individuazione di specifici fatti di rilevanza penale non precedentemente contestati, spetta soltanto al titolare della azione penale e che, invece, inteso come rivalutazione di prove acquisite a sostegno della ipotesi accusatoria, attiene non alla formulazione di una corretta imputazione ma alla redazione di una congrua motivazione: un potere cioè, destinato ad estrinsecarsi nella illustrazione di motivi a sostegno della condanna e che cade sotto il controllo di legalità della Cassazione di cui all’art. 606 c.p.p., lett. e), nulla avendo a che vedere con il genere di vizio (riconducibile alla violazione di legge) denunciato dal PG di udienza.

Ciò posto in merito alle richieste conclusive del PG, va comunque rimarcato, quanto alla denuncia della genericità della imputazione dello stesso requirente, che con tale doglianza egli ha aggredito un punto nuovo e diverso rispetto alla questione, sollevata dalla difesa, del difetto di correlazione tra accusa e sentenza.

Non solo lo stesso PG non ha avuto difficoltà a convenirne nel corso della sua requisitoria orale, ma, quel che conta, è che lamentare, come ha fatto la difesa nel ricorso per cassazione, che l’imputato sarebbe stato condannato per un fatto diverso da quello contestatogli (evenienza inquadrata e sanzionata dagli artt. 521 e 522 c.p.p., con riferimento al momento della sentenza e alla sua nullità) è evenienza del tutto diversa dal lamentare (come ha fatto il Procuratore Generale) la genericità della originaria contestazione:

evenienza, quest’ultima, che assume rilevanza ai sensi dell’art. 429 c.p.p., che la prevede ed attiene, perciò, alla fase introduttiva del processo, essendo peraltro destinata a non produrre conseguenze se la parte stessa non la rileva nella fase della deduzione delle questioni preliminari del giudizio di primo grado (è esclusa la rilevabilità di ufficio) oppure se, avendola rilevata, la parte non coltivi la denuncia di nullità correlata (meramente relativa, come ricorda la costante giurisprudenza: Rv. 247590; N. 16817 del 2008 Rv. 239757, N. 712 del 2010′ Rv. 245734) nei motivi di impugnazione. Sul tema è risolutivo infatti il principio dell’art. 609 c.p.p. secondo cui la Corte di cassazione decide esclusivamente sulle questioni poste nei motivi di ricorso, quelle rilevabili di ufficio e quelle che non sarebbe stato possibile dedurre in grado di appello.

E nella specie, l’esame del ricorso evidenza che la difesa non si è lamentata dinanzi a questa Corte della generica enunciazione del fatto ai sensi dell’art. 429 c.p.p. e della correlata nullità.

Essa ha denunciato – nel ricorso, lo si ribadisce- il proliferare di temi probatori a sostegno della accusa principale, proliferare che la accusa avrebbe determinato nel corso delle udienze con sempre nuove richieste di assunzioni testi o acquisizioni di atti: e ciò, senza più ripercorrere, dunque, la doglianza-abbandonata a favore di quella ex art. 521 c.p.p. – della sufficiente (o meno) enunciazione del fatto-reato contestato.

Una doglianza, peraltro, che, vai la pena sottolinearlo anche in autonomia rispetto alla conclusione del giudice del merito, è sicuramente infondata nella individuazione del parametro normativo di riferimento posto che D. è stato tratto a giudizio per rispondere del concorso esterno nella associazione criminosa, che agiva con metodi mafiosi, capeggiata da Bo., fino a R., avvalendosi, sin da prima del 1982, dei poteri che gli derivavano dalla sua importante posizione nel mondo imprenditoriale e intrattenendo rapporti (evidentemente, di rilievo penale) con Bo., T., P., M., C. e numerosi altri, che gli avevano consentito di far rafforzare il sodalizio, da un lato, influenzando, dall’altro, “individui” operanti nel mondo finanziario e imprenditoriale, ed è stato condannato, in primo luogo, proprio per avere determinato il suddetto rafforzamento, con riferimento alla cronologia, al sodalizio e alle figure di vertice individuate nella imputazione, esercitando i poteri di influenza che gli derivavano dalla precisa collocazione nel mondo imprenditoriale dell’epoca e dai rapporti personali con i detti vertici di cosa nostra in almeno un incontro (fatto contestato al punto 1 del capo A e B) di pianificazione, conseguendo un risultato concreto, cioè quello dell’esborso, da parte dell’area Fininvest, di somme cospicue, versate reiteratamente- esso stesso tramite- per almeno un certo numero di anni alla consorteria criminale e mafiosa Cosa nostra.

Non è chi non veda, dunque, come il fatto ritenuto in sentenza non è “altro”, non è “diverso” da quello contestato (il quale, a sua volta, non è affatto mancante, diversamente da quanto affermato dal PG di udienza): è invece il medesimo (salve alcune contestazioni di dettaglio evidentemente cadute nel corso del processo, come quella dell’aver provveduto al ricovero di latitanti) mentre l’originario addebito della difesa, ormai sanato, relativo alla modalità di enunciazione del fatto, era destinato a trovare e trova concreto sfogo nella doglianza – questa si correttamente formulata e coltivata dalla difesa stessa – sulla tenuta della motivazione. Questa, per quanto concerne una serie di fatti cronologicamente databili a partire dal 1978, ha infatti risentito proprio mancanza di sponda derivante dalla formulazione della imputazione “per grandi linee” e si è sviluppata su una quantità di condotte non sempre coerenti con l’accusa, perdendo di vista la doverosità del rigore dimostrativo che, senza semplificazioni o, peggio, ragionamenti onnicomprensivi, deve sempre accompagnare e sostenere l’argomentare del giudice, nella illustrazione sia dell’elemento oggettivo che di quello soggettivo, in tutte le sue cadenze e articolazioni, come, nel caso di specie, richieste.

E a sostegno di tale impostazione data alla questione in esame, vai la pena sin da ora citare il principio affermato nella sentenza delle SS.UU. n. 45276 del 2003, secondo cui, in tema di concorso di persone nel reato, la circostanza che il contributo causale del concorrente possa manifestarsi attraverso forme differenziate e atipiche della condotta criminosa non esime il giudice di merito dall’obbligo di motivare sulla prova dell’esistenza di una reale partecipazione nella fase ideativa o preparatoria del reato e di precisare sotto quale forma essa si sia manifestata, in rapporto di causalità efficiente con le attività poste in essere dagli altri concorrenti, non potendosi confondere l’atipicità della condotta criminosa concorsuale, pur prevista dall’art. 110 c.p., con l’indifferenza probatoria circa le forme concrete del suo manifestarsi nella realtà. 1C. Il secondo motivo di ricorso della difesa, avverso la sentenza, è inammissibile sotto più profili ed in particolare quello della genericità e della manifesta infondatezza.

La parte ha lamentato la violazione del principio del ne bis in idem (art. 649 c.p.p.) per essere stato, il D., già sottoposto a procedimento e prosciolto due volte dal G.I. di Milano, con sentenze del 1990, per gli stessi fatti oggetto del presente procedimento.

E’ stata però correttamente già illustrata, in replica ad analogo motivo di appello, da parte del giudice di secondo grado, da pagina 179 a 182 della sentenza impugnata, la ragione della infondatezza della doglianza. Ha chiarito, cioè, la Corte territoriale che le due sentenze del Giudice istruttore di Milano hanno riguardato, si, i rapporti intrattenuti da D. con M. in Lombardia, e in un’ottica di possibile associazione di stampo mafioso, ma in esse, in particolare, sono stati affrontati anche i legami dell’odierno ricorrente con soggetti diversi da quelli partecipi del sodalizio cosa nostra di cui al processo in esame, rapporti finalizzati alla commissione di reati contro il patrimonio in danno di istituti bancari.

Rispetto a tale motivazione la difesa si è limitata, del tutto genericamente, a reiterare la doglianza e ad osservare, in contrario, che il processo di Milano e quello di Palermo si sarebbero basati su comuni informative di reato: circostanza invero, già analizzata dal giudice d’appello nella sentenza impugnata e ritenuta inadeguata a provare l’assunto difensivo, per la evidente possibilità che una comune informativa di reato contenga tracce investigative destinate a sostanziare costrutti accusatori anche diversi e plurimi.

1D. Il quarto motivo di ricorso (essendo il terzo già stato trattato col primo), è inammissibile.

Con esso si contesta che sia rintracciabile la necessaria logicità della motivazione, basata invero sulle dichiarazioni di collaboratori di giustizia, a valenza dimostrativa assai modesta essendo “de relato”, per giunta impropriamente “disarticolate” nel loro contenuto complessivo, utilizzato in parte per giustificare la condanna e, in altra parte, non accreditato, tanto da pervenire ad una parziale assoluzione: un contenuto recepito in maniera dunque irrazionale anche per la conclusione raggiunta e cioè per avere i giudici ritenuto plausibile che chi aveva stretto un accordo con cosa nostra per utilità e vantaggi patrimoniali di questa, non avesse poi cercato un tornaconto, in occasione delle competizioni elettorali di qualche anno dopo. Ebbene, il motivo in questione deve ritenersi inammissibile in quanto la censura risulta formulata in termini del tutto generici, senza, cioè, il rispetto dei requisiti di specificità imposti dall’art. 581 c.p.p.; essa comunque si sostanzierebbe, globalmente considerata, nella prospettazione, inammissibilmente rivolta alla Corte di cassazione, di un’alternativa ricostruzione della vicenda.

Volendo scendere nel dettaglio con un esempio- che peraltro non fa che ribadire la mancanza di specificità del motivo di gravame- può rilevarsi, quanto al primo profilo della questione, che il collaboratore Cu. è stato ritenuto dai giudici dell’appello autore di dichiarazioni accusatone utili ai fini della condanna di D. per il concorso esterno relativo al primo periodo, perchè lo stesso ha parlato di rivelazioni a lui fatte da M. sul significato della sua presenza ad (omissis), in modo del tutto coerente con il tema proposto dalla accusa, e ha trovato conferma anche in altre prove (quali la presenza oggettiva e non altrimenti giustificabile di M. alla Villa di B., nonchè, e soprattutto, le dichiarazioni di G. e D.C. su tale presenza e sui suoi antecedenti storici).

Invece lo stesso Cu. è stato ritenuto autore di affermazioni insufficienti a provare anche il patto politico con Cosa nostra perchè queste sono risultate frutto di un ricordo confuso (quanto ai riferimenti cronologici), non rispondente a particolari (ancora sotto il profilo cronologico) forniti da altri collaboratori e non indicativo comunque del raggiungimento di quel tipo di accordo che- secondo i rigorosi insegnamenti della giurisprudenza di legittimità- avrebbe dovuto costituire, alla luce della ipotesi accusatoria accreditata in primo grado, la manifestazione di un ulteriore comportamento di D. causalmente legato alle finalità del sodalizio e funzionale al rafforzamento di esso: non un giudizio di soggettiva inaffidabilità era stato, dunque, espresso nei confronti del collaboratore, ma di oggettiva inadeguatezza.

La difesa ha sostenuto, inoltre, la illogicità dell’impianto complessivo della sentenza nel senso che la prova del concorso esterno alla associazione per delinquere Cosa nostra fino al 1992, realizzato attraverso la mediazione nel pagamento di somme ingiustificate fatte versare, per la intermediazione dell’imputato, da Fininvest a vantaggio del sodalizio, avrebbe dovuto comportare la prova logica del concorso esterno anche per il periodo successivo:

quello cioè realizzato – in cambio della promessa di interventi legislativi favorevoli – attivando il sostegno della associazione mafiosa a favore della scalata politica del partito Forza Italia, promossa dal titolare di Fininvest. Con la conseguenza che mancando la prova del secondo, verrebbe meno anche la prova del primo.

Si tratta però di una critica, questa sì, manifestamente illogica e incapace di far apprezzare una omologa aporia della sentenza impugnata. Infatti occorre avere presente che il ragionamento che il giudice del merito è tenuto a seguire e che diviene oggetto del controllo da parte del giudice della legittimità è null’altro – quando non ricorra una prova diretta e completa del fatto-reato- che un processo inferenziale, costituito da una serie di passaggi o, appunto, inferenze, a partire da alcune premesse fino a giungere ad una conclusione o tesi che, come una importante dottrina non ha mancato di evidenziare, consiste- nella ovvia impossibilità per il giudice che il reato possa essere riprodotto dinanzi a lui nella sua realtà fenomenica- in un ragionevole avvicinamento a quella realtà storica, mediante la indicazione delle prove poste a base della decisione stessa e la enunciazione delle ragioni per le quali non si sono ritenute attendibili le (normalmente esistenti) prove contrarie (così testualmente art. 546 c.p.p., lett. e).

E non è inutile ricordare che il ragionamento posto a giustificazione della decisione sarebbe addirittura di tipo “dimostrativo”, come quello scientifico, e quindi in ogni caso giusto, ogni volta in cui fosse possibile applicare una inferenza deduttiva codificata dalla logica che permettesse di passare da premesse sicuramente vere a conclusioni altrettanto vere, in modo necessario. Se invece si facesse uso di una inferenza errata, anche il ragionamento, per quanto vera possa essere la premessa, sarebbe destinato ad essere errato e cioè fallace: è il caso della ” affermazione del conseguente” dove si afferma che se A implica B, e si da B, allora si da anche A: ciò che è sbagliato, perchè la verità di B non dipende solo dal darsi di alcuni casi in cui A è vero. Nel caso di specie, la difesa propone un ragionamento che viene presentato come appartenente al primo caso (di tipo, cioè, dimostrativo) mentre è da ascrivere al genere “susseguente”.

Infatti, se è vero che è stato dimostrato probatoriamente che D. ha tenuto un comportamento di rafforzamento della associazione mafiosa fino ad una certa data, come si vedrà, favorendo i pagamenti a cosa nostra di somme non dovute da parte di Fininvest, questo non implica necessariamente o in base ad una regola logica e codificata che egli abbia mantenuto inalterato nel tempo e nella sostanza un rapporto di “gestione” dei possibili favori che la mafia avrebbe potuto restituire nel periodo di formazione del nuovo partito: infatti, sono stati ad esempio citati dai giudici dell’appello e valorizzati in sentenza i contributi di taluni collaboratori ( Ca. e gi.) sulle motivazioni anche pratiche e contingenti che talvolta hanno spinto Cosa nostra ad appoggiare ora uno ora un altro partito politico e a “fiutare” le linee programmatiche che ora l’una ora l’altra compagine presentava, nei tempo, come probabili o possibili.

Orbene, il giudice a quo, posto di fronte ai due distinti temi probatori sulle modalità di realizzazione del concorso esterno di D., aveva la possibilità ed anche il dovere di saggiare, per ciascuno di essi, gli indicatori sottoposti al suo vaglio.

Per seguire la prospettazione oggi suggerita dalla difesa nonchè quella della accusa, la Corte d’appello comunque doveva far uso dell’unico strumento logico a sua disposizione, l’inferenza, ossia la tecnica di ragionamento incentrata sul passaggio “dal particolare ad altro particolare attraverso la mediazione di un universale”. Senza dimenticare che l’”universale” che funge da ponte – come ricorda la dottrina- è una legge che, di regola, non ha valore assoluto, e quindi riverbera la sua “non necessità logica” sulla conclusione, anch’essa opinabile e probabilistica.

E quanto fin qui ricordato vaie a non perdere di vista che l’enunciato finale del giudice non è dotato del connotato della assoluta certezza, ma ha la possibilità di essere “giustificato”, nel senso che, offrendosi al controllo razionale, può ricevere consenso.

Il consenso, d’altra parte, è conseguibile in misura proporzionale alla validità e concludenza della regola ponte impiegata; e poichè la vicenda processuale non offre normalmente un solo elemento di valutazione ma una pluralità di elementi, il consenso si lega altresì alla congruenza di questa messe di informazioni con una certa ipotesi esplicativa del loro insieme, e con la preferibilità di questa ipotesi a qualsiasi altra, espressamente formulata o astrattamente formulabile.

Quello fin qui ricordato è, in altri termini, il senso del rapporto esplicativo del giudice rispetto al fatto-reato, attraverso la conoscenza che gli deriva dalla prova, e la struttura del ragionamento che egli è tenuto a seguire costituisce l’oggetto della cognizione ed anche il limite stesso della cognizione e del controllo che la Cassazione può esplicare.

Dunque, tornando alla critica della difesa, va escluso che il ragionamento da questa sollecitato possa considerarsi irresistibile come lo è quello di tipo induttivo (consistente in un’operazione attraverso la quale si estrae una regola o legge, in seguito alla ripetuta osservazione dei fenomeni, o casi). E’ infatti evidente che non è una regola generale quella per cui un continuativo rapporto illecito su base patrimoniale con Cosa nostra, di per sè gratificata per un certo arco di tempo dalla apertura del canale privilegiato di comunicazione con l’imprenditore B., possa avere implicato, come risposta, da parte della stessa associazione, una necessaria e naturale disponibilità al sostegno di iniziative di tipo politico, assunte dopo un ventennio dall’inizio dei primi rapporti, che il soggetto “estorto” intendeva assumere.

Deve escludersi anche che la difesa possa utilmente avere sollecitato un ragionamento di tipo deduttivo che è quello che, applicato alla materia processuale, può servire in funzione essenzialmente predittiva, nel senso che, conoscendo taluni eventi, ci si può attendere che se ne verifichino altri. Vero è invece che la censura difensiva si è limitata a sollecitare quella forma di inferenza – che la dottrina definisce abduzione – praticata quando di un determinato evento si pretende di ricostruire l’antecedente causale:

in tal genere di procedimento inferenziale si conosce, infatti, risultato e regola, e si va alla ricerca del caso.

La difesa ha infatti indicato, come antecedente logico necessario del concorso esterno costruito come disponibilità di Cosa nostra al sostegno elettorale di Forza Italia, il rapporto ventennale di “foraggiamento” della stessa associazione mafiosa: ricavando, dal rovesciamento della osservazione, che la mancanza di prova del primo comporterebbe la inesistenza anche dell’antecedente causale necessario.

Orbene, giova sottolineare che l’abduzione processuale ha esigenze peculiari, poichè costringe a risalire dalla traccia alla causa in termini di – almeno tendenziale – sicurezza, cioè con un rischio di errore assai più contenuto di quello che è insito nelle innumerevoli abduzioni della vita quotidiana. L’abduzione cui fa ricorso il giudice, però è’sempre “a rischio”, anche quando la regola applicata è solida o scientificamente certa, perchè è la scelta stessa della regola che è controvertibile.

In altri termini, come sopra già sottolineato secondo autorevoli e condivisibili dottrine, il nesso causale percorso “all’indietro” è sempre frutto di un’opinabile selezione tra gli infiniti altri antecedenti astrattamente possibili (“è q, dunque è, verosimilmente, p; ma può essere anche p’, p”, ecc”).

Schematizzando ancora, si può dire che l’abduzione è bensì un’inferenza creativa di conoscenza nuova, ma sempre a rischio, perchè – come affermano i logici – per potersi parlare di dimostrazione è necessario non solo che la regota impiegata sia di tipo analitico o scientifico, ma che della stessa si faccia uso in un ragionamento di tipo deduttivo e non abduttivo.

Nel caso di specie resta in conclusione una mera prospettazione della difesa, priva di qualsiasi carattere di cogenza o di elevata probabilità la osservazione che i rapporti di tipo economico intrattenuti da D. con Cosa nostra per alcuni anni avessero determinato anche tipi di legami e un sinallagma ulteriore nel contenuto e nel tempo, sicchè non è inevitabile ritenere ed affermare che la assenza di prova di questi ultimi travolgerebbe anche la prova dei primi. Al contrario, è da rilevare che i limiti del ragionamento abduttivo hanno indotto il giudice ad affermare la avvenuta dimostrazione soltanto dei fatti sostenuti da dichiarazioni affidabili dei collaboratori di giustizia e a non estendere il proprio ragionamento inferenziale operando una selezione di materiale e di conclusioni che costituisce anche il perimetro e il limite del controllo di legalità demandato alla Cassazione.

1D bis. Con motivo nuovo, innestato sullo stesso tema appena esaminato, la difesa ha ripreso ed ampliato con esempi più dettagliati l’argomento della illogicità delle conclusioni dei giudici sulla attendibilità dei collaboratori le cui dichiarazioni sono state valorizzate in sentenza.

Tale doglianza, anche nella nuova prospettazione, è infondata.

Il diverso utilizzo delle dichiarazioni di uno stesso collaboratore di giustizia ha trovato giustificazione, nella sentenza impugnata, nel principio secondo cui allorchè ci si trovi in presenza di dichiarazioni di c.d. collaborante che abbiano ricevuto riscontri solo in parte, il giudice non può darsi una regola generale, nel senso della sua inattendibilità complessiva o nel senso di una sua completa e altrettanto generale affidabilità, ma ha il dovere di verificare e motivare in ordine alla diversità delle valutazioni eseguite a proposito delle plurime parti di dichiarazioni rese dallo stesso soggetto, non potendo escludersi che l’attendibilità di una dichiarazione accusatoria, anche se denegata per una parte del racconto, non ne coinvolga necessariamente tutte le altre che reggano alla verifica giudiziale (v. fra le molte, Rv. 210567). E’ noto, peraltro, che la giurisprudenza ha anche aggiunto che la c.d. valutazione frazionata delle dichiarazioni accusatorie provenienti da chiamante in correità in tanto è ammissibile in quanto non esista un’interferenza fattuale e logica fra la parte del narrato ritenuta falsa e le rimanenti parti che siano intrinsecamente attendibili e adeguatamente riscontrate. La stessa giurisprudenza segnala però anche che detta interferenza si verifica solo quando fra la prima parte e le altre esista un rapporto di causalità necessaria ovvero quando l’una sia imprescindibile antecedente logico dell’altra (Sez. 1, Sentenza n. 468 del 18/12/2000 Ud. (dep. 19/01/2001) Rv. 217820).

Nel caso di specie, la doglianza della difesa appare doppiamente non cogliere nel segno evocando la giurisprudenza citata, atteso che non risulta che dai passaggi della sentenza da essa indicati emerga la dolosa ricostruzione di fatti falsi ad opera dei dichiaranti valorizzati e non risulta neppure che vi sia un rapporto di imprescindibile propedeuticità logica fra le dichiarazioni di uno stesso pentito accreditate e quelle non accreditate.

Così, riguardo alle dichiarazioni di Cu. – per restare all’esempio della difesa – può evidenziarsi che costui è stato ritenuto attendibile per quanto riguarda le dichiarazioni ricevute da M. a proposito della presenza di costui ad (omissis) nel 1974 (e non, come sostenuto dalla difesa, in relazione all’episodio dell’incontro di (omissis)) e non invece in relazione agli incontri di D. con M. circa un ventennio dopo: ma, quanto a questi ultimi eventi, gli stessi brani della motivazione citati in ricorso evidenziano non la malafede del dichiarante bensì, come sopra già evidenziato, “la confusione nei ricordi del Cu.”, per la impossibilità di riscontrare le date da esso descritte. Una situazione processuale, com’è evidente, che non ha a che fare con la falsità di dichiarazioni, capace, in base alla giurisprudenza citata, di inficiare la valutazione frazionata delle dichiarazioni del collaborante, ma che, come ricordato anche nella parte riepilogativa della sentenza (vedi retro pagina 42), la Corte d’appello ha spiegato come frutto di una non convincente e contraddittoria ricostruzione operata dal giudice di primo grado.

Identiche considerazioni valgono con riferimento alla utilizzazione delle dichiarazioni del collaborante G., alcune delle quali (ad esempio quelle sulla protrazione dei pagamenti di Fininvest fino al 1995) sono state ritenute non false, ma recessive rispetto a quelle di altro collaboratore ( F.) più favorevoli al ricorrente, anche perchè in contraddittorietà logica con altri elementi, oggetto comunque di vantazione del giudice.

Nessuna contraddittorietà si rileva infine nella valorizzazione delle dichiarazioni di M. il quale, pur ritenuto, in una parte della sentenza, sospetto di millanteria, ha trovato, viceversa, credito presso i giudici con riferimento a quanto confidato a G., circa un fatto (le ragioni della sua presenza ad (omissis)) che nella sua obiettività è stato oggettivamente riscontrato. Per concludere, il pur apprezzabile specchietto riepilogativo redatto a pagina 9 e seguenti dei motivi nuovi enuncia del tutto genericamente ma non è in grado di dare corpo in concreto alle denunciate contraddittorietà e manifesta illogicità di motivazione in ordine alla differenziata valutazione delle dichiarazioni di uno stesso collaboratore di giustizia o al diverso peso che sarebbe stato dato, in diversi punti della sentenza, ai connotati limitativi della credibilità delle dichiarazioni stesse.

Le dichiarazioni dei collaboratori risultano invece valorizzate in sentenza nel rispetto dei principi sopra indicati e sulla base di essi, sottoposti a un’attenta disamina in relazione a ciascun punto;

giungendosi quindi alla conclusione che soltanto i passaggi delle dichiarazioni che hanno trovato conferma nelle dichiarazioni di altri collaboratori o di elementi oggettivi e/o logici sono state convalidate, venendo abbandonate le altre per il mancato raggiungimento della necessaria soglia probatoria.

1.E. Con il quinto motivo la difesa introduce una censura di manifesta illogicità all’intero impianto della tesi accreditata dalla Corte di merito, sia con riferimento alle prove che – per quello che qui interessa- alla motivazione che dovrebbe sostenere la fattispecie del concorso esterno ritenuta dai giudici di secondo grado. Integrata, questa, dalla condotta consistita nell’avere, l’imputato, posto le proprie conoscenze personali e mediate a disposizione ed a supporto della realizzazione di un incontro – che così promuoveva ed agevolava- di comune interesse per l’imprenditore B. e per la consorteria mafiosa radicata nella sua terra di origine, incontro dal quale è scaturito il prevedibile ed auspicato accordo fra i due poli interessati: un accordo che ha dato luogo, a sua volta, in una relazione di genere sinallagmatico con il vantaggio perseguito dal primo, all’esborso, da parte di costui, in favore dei secondi e quindi della associazione che essi rappresentavano e che ne aveva beneficiato nelle sue varie articolazioni, di consistenti somme di denaro nell’ordine di centinaia di milioni di lire per un certo numero di anni.

Ebbene, la difesa appunta fortemente la propria denuncia ex art. 606 c.p.p., lett. e) sui ragionamento relativo alla credibilità del collaboratore D.C. – che di tale evento è la principale fonte dichiarativa- alla luce, soprattutto del misconoscimento di importanti indicatori, a suo dire, della sicura ed esclusiva plausibilità della tesi opposta a quella rappresentata attraverso l’apporto di tale soggetto: quella cioè sostenuta dalla stessa difesa, dell’avere operato, l’imputato, sempre ed esclusivamente nell’interesse di B. e non di Cosa nostra, di non avere contribuito ad alcun esborso da parte dell’amico, di avere comunque fatto emergere situazioni leggibili come interruzioni di rapporti o sofferenza nei rapporti sia con B. che con la mafia.

Il punto in questione, invero ripreso anche dal Procuratore Generale di udienza che, tra l’altro, non ha mancato di manifestare le proprie perplessità sulla credibilità delle affermazioni di D.C., è indubbiamente uno degli snodi fondamentali della sentenza.

E, mentre la doglianza risulterebbe agevolmente superabile ove intesa come mera critica alla credibilità delle dichiarazioni del propalante (posto che la Cassazione non è giudice del risultato di prova ma della giustificazione che in relazione ad essa ha dato la sentenza impugnata) non lo è invece con la stessa facilità, nel caso di specie, in quanto è stato correttamente prospettato dalla difesa – come, in realtà, bene messo in luce anche dal PG che ha fatto proprio il motivo – usando argomenti che, sul piano logico, si risolvono nel sostenere, con una apparente apprezzabilità, la incapacità della tesi accolta in sentenza di superare la soglia del ragionevole dubbio: che è il metro minimo di valutazione della tenuta di una motivazione di condanna.

Ebbene, deve a questo punto darsi atto che sono, in primo luogo, infondate le censure alle argomentazioni con le quali i giudici dell’appello- in sostanziale conformità con il ragionamento del primo giudice- ha confermato la capacità delle dichiarazioni di D. C. di porsi a fondamento dell’ulteriore sviluppo della motivazione sulla responsabilità dell’imputato.

Richiamando i punti fermi sopra esposti in tema di ragionamento inferenziale, deve rimarcarsi che non si evidenzia ragione alcuna per negare che la Corte di merito abbia prodotto, come meglio si vedrà in seguito, una giustificazione completa e rispondente ai criteri della razionalità e della plausibilità in ordine al fatto che il D.C., nel presente processo, è risultato soggetto meritevole di pieno credito; che il suo racconto in ordine alla circostanza dell’incontro di Milano fra le menzionate parti interessate abbia presentato credibilità anche oggettiva e che sia stato riscontrato obiettivamente da una pluralità di elementi.

Lo svilimento di tale punto centrale della motivazione è il metodo che consente poi alla difesa di contestare che sia tracciabile un apparato motivazionale sufficiente e logico riguardo alla correlata tesi- accreditata in sentenza- per cui D. avrebbe inteso sfruttare lo speciale rapporto col proprio datore di lavoro B. a favore della mafia, in primo luogo facendo assumere alla villa di (omissis) un soggetto di fiducia di cosa nostra, appunto il M., con funzioni dissuasive e protettive, derivanti dallo speciale legame con i vertici di Cosa nostra assenzienti, in cambio del pagamento di cospicue somme di denaro, per un certo numero di anni, al sodalizio mafioso cosa nostra. Epperò, tale svilimento – nei termini illustrati dalla difesa – non può trovare apprezzamento in questa sede perchè è fondato non sulla dimostrazione -come promesso- di una motivazione manifestamente illogica da parte dei giudici, ma, in via residuale, in una censura al risultato di prova.

La tesi della difesa sull’uso manifestamente illogico delle dichiarazioni di D.C., si basa infatti sulla osservazione secondo cui i giudici avrebbero utilizzato come elemento di riscontro (al fatto della presenza di M. ad (omissis)) le dichiarazioni di D.C. le quali a loro volta erano però già state utilizzate per qualificare e delineare l’elemento indiziante da riscontrare (quello cioè della presenza di M. con incarichi che sarebbero stati la diretta esplicazione della sua vicinanza alla consorteria mafiosa). Ebbene tale pur suggestivo rilievo logico trascura completamente il complesso ragionamento dei giudici i quali hanno motivato in maniera plausibile le ragioni – dei tutto indipendenti dalle dichiarazioni di D.C. – per le quali la presenza di M. ad (omissis) trovava già idonea ed autonoma giustificazione nello spessore criminale del soggetto stesso e nei legami che esso aveva in specifici ambienti mafiosi.

Ci si riferisce alle osservazioni della Corte circa la implausibilità di una ricostruzione dei fatti in esame che vedesse il M. -pure soggetto con competenze in materia di cavalli- venire assunto, da perfetto sconosciuto, nella prestigiosa villa in (omissis) del facoltoso imprenditore, essendo giunto da poco tempo in Lombardia (vedi le evidenze anagrafiche citate dalla Corte), senza avere svolto analoghe mansioni altrove.

Si è in presenza, in altri termini, di un ragionamento, (completato invero con una quantità elevata di altri autonomi rilievi per i quali si rimanda alle pagine 16 e segg. della presente sentenza e, tra questi, le dichiarazioni dello stesso ricorrente che aveva ammesso di aver affidato al M., in (omissis), analoghi compiti protettivi di una locale squadra di calcio giovanile; le osservazioni sull’utilizzo del M. come accompagnatore personale dei figli dell’imprenditore pur in presenza di autisti alle dipendenze del medesimo; sulla cessazione, l’indomani dell’arrivo di M. ad (omissis), delle numerose, pesanti e reiterate minacce che B. subiva anche in riferimento a possibilità di sequestro di membri della sua famiglia; sull’espatrio di B. in Svizzera e poi in Spagna assieme alla famiglia, dopo l’allontanamento di M. da (omissis); sull’attivazione al suo rientro, di uno specifico servizio di sicurezza personale privata), che presenta i requisiti di logicità e coerenza tali da renderlo immune da necessarie incursioni del giudice della legittimità sulla struttura del ragionamento: incursioni previste dall’ordinamento solo in caso di illogicità che si rivelino, per di più, “manifeste”, ed il cui difetto vale a consolidare l’opzione interpretativa dei fatti devoluta esclusivamente al giudice del merito, intangibile ove logica e plausibile, anche in presenza di una opzione ermeneutica alternativa ritenuta, però, dallo stesso giudice del merito, ancora una volta in base ad un ragionamento logico e completo,non accreditabile.

In conclusione non può trovare credito la obiezione della difesa secondo cui il dato obiettivo della presenza di M. ad (omissis) in tutti i suoi valori indicativi, pur utilizzato come elemento di riscontro alle dichiarazioni di D.C., fosse “leggibile” e spiegabile nei detti termini necessariamente e solo alla luce delle dichiarazioni di D.C. stesso.

1 E bis. Non coglie nel segno, d’altra parte, neppure la censura della difesa riguardo alla asserita mancanza di valutazione sulla credibilità soggettiva del D.C. e del suo racconto, come pure ribadita ed ampliata nei motivi nuovi. Intere pagine della sentenza impugnata, ricordate a partire da pagina 18 della presente sentenza, sono state dedicate alla illustrazione degli elementi oggettivi capaci, secondo i giudici del merito, di sostenere in modo altamente apprezzabile la credibilità obiettiva del racconto di D.C.:

così le rilevanti parentele mafiose di C., soggetto citato fra i presenti all’incontro descritto da D.C. e per questo del tutto razionalmente ritenuto il verosimile trait d’union, che aveva reso possibile in concreto l’interessamento e la presenza di mafiosi di alto rango; l’effettiva posizione di rilievo che il M. – il soggetto cioè che avrebbe dovuto dare esecuzione o comunque visibilità esterna al patto di protezione- già all’epoca rivestiva presso il consorzio mafioso, essendo, di lì a pochi mesi, divenuto uomo d’onore affiliato alla famiglia mafiosa aggregata a quella comandata da Bo., e comunque tenuto in grande considerazione dai capi mafiosi come dichiarato dai numerosi collaboratori citati in sentenza. Risulta peraltro una censura assai poco significativa da parte della difesa, quella secondo cui il pentito D.C. avrebbe mostrato la propria assoluta inaffidabilità quando aveva descritto il luogo del presunto incontro fra B., Bo. e gli altri, in maniera non conforme alle caratteristiche di certi uffici del primo in (omissis).

La censura in esame pretenderebbe infatti che fosse qualificata come decisiva l’assenza di riscontri su un particolare del racconto del D.C. (che non ha specificato quale Ufficio di B. sarebbe stato utilizzato), senza che possa dimostrarsi la obiettiva falsità della dichiarazione stessa e senza tenere conto del complessivo ed apprezzabile diverso ragionamento del giudice del merito il quale ha posto in evidenza, al contrario, la quantità di elementi positivi di riscontro invece acquisiti rispetto al racconto del dichiarante. Si deve tra l’altro osservare che le dichiarazioni di D.C. (che riguardo al tema dell’incontro di Milano non presentano il limite di credibilità di quelle de relato, provenendo dalla percezione diretta dei fatti), sono state oggetto di approfondita disamina- anche ulteriore rispetto a quella appena vagliata- sulla attendibilità, essendo stato dai giudici rimarcato come il complessivo racconto dallo stesso reso non sia stato smentito oggettivamente da alcun irresistibile particolare sullo status libertatis dei numerosi protagonisti chiamati in causa (liberi, di fatto, di muoversi per un arco di tempo di circa un giorno e mezzo- vedi retro la ricostruzione rievocata a pag. 19) e, d’altro canto, sia stato immediato, l’indomani del proprio arrivo in Italia nel 1996, nonchè puntuale sulla maggior parte dei particolari di rilievo.

Ed anche il dettaglio della mancata corrispondenza fra gli uffici di B. descritti da D.C. e il palazzo ove aveva sede la Edilnord, ha trovato puntuale analisi nella sentenza impugnata ove (pag. 218) si declina motivatamente – come sopra già ricordato- l’idea sostenuta dalla difesa di una “falsità” attribuibile a D. C., per argomentare come costui avesse descritto un ufficio di B. e non, in particolare, quello di (omissis) oggetto della documentazione fotografica prodotta dalla difesa.

Assume poi un rilievo assai importante se non centrale, il fatto che il racconto di D.C., reso, come detto, in base a una partecipazione diretta del dichiarante, circa l’incontro avvenuto tra Bo., T., B., D. e gli altri in (omissis), con la pressocchè contestuale decisione di far seguire l’arrivo di M. presso l’abitazione di B., in esecuzione dell’accordo, ha trovato, nella motivazione dei giudici, un preciso riscontro nelle dichiarazioni di altro collaboratore, il G., il quale aveva riferito di avere appreso i dettagli di quello stesso incontro e del suo scopo, fomiti da C. nel corso di un pranzo con altri esponenti mafiosi nel 1986: una deposizione, quella del G., che i giudici hanno parimenti sottoposto ad un’attenta analisi sulla credibilità replicando puntualmente a tutti gli argomenti della difesa riguardo alla eventualità che egli potesse avere appreso i particolari dell’incontro o direttamente dal D.C. o dalla stampa. E ciò la Corte territoriale ha fatto diffondendosi (pag. 234 e segg), con argomenti del tutto plausibili e quindi capaci di resistere al vaglio di legittimità, sulle ragioni in fatto (assenza di prova obiettiva di colloqui dell’epoca tra i due collaboratori ristretti in carcere; differenza di particolari dei racconti di G. e di quelli di D.C. pubblicati dalla stampa) per le quali ritenere l’autonomia delle due ricostruzioni.

Correttamente e utilmente sottolineato, a riscontro dell’apporto probatorio di D.C. e di G., è stato poi quello del collaboratore Cu. a proposito delle confidenze ricevute da M. stesso in ordine alle ragioni e alle finalità della sua presenza ad (omissis), ragioni nelle quali erano comprese le iniziative di D. e C. e l’attivazione del circuito mafioso di riferimento ed era compreso il fine di trarre specifiche utilità economiche.

1 F. Per quanto poi concerne la motivazione esibita dai giudici sulla prova dei pagamenti che B. avrebbe effettuato a Cosa nostra in relazione all’accordo sulla protezione sollecitata – peraltro sulla base di una percezione della propria situazione che accordava preferenza al pagamento di somme come metodo di risoluzione preventiva dei problemi posti dalla criminalità (così vedi le conversazioni di B. con un amico e con lo stesso imputato, intercettate qualche anno dopo e riportate a pag. 221 e 222 della sentenza)-, la doglianza della difesa, che ne denuncia l’insufficienza, è infondata. Dei versamenti di somme da parte di B. in favore di Cosa nostra, per la protezione, hanno infatti parlato, come ricordato anche nel ricorso, almeno quattro collaboranti ( D.C., G., Cu. e Sc.) rendendo dichiarazioni, sia pure indirette, che tuttavia la Corte ha correttamente ritenuto capaci di riscontrarsi in maniera reciproca:

G. in particolare ha riportato il racconto di C. sull’avere costui ritirato le somme dalle mani di D. presso il suo studio.

Sul punto, si conviene con la difesa che il criterio valutativo deve ispirarsi al principio espresso in giurisprudenza, secondo cui la valutazione di plurime chiamate in correità, quantunque convergenti, deve essere compiuta dal giudice di merito caso per caso, con un prudente grado di flessibilità correlato alla consistenza delle chiamate stesse, tenendo conto sia della solidità della loro riconosciuta attendibilità intrinseca, sia della loro compatibilita all’interno dell’intero quadro probatorio acquisito. Solo all’esito di tale operazione il giudice può stabilire se le chiamate siano autosufficienti, nel senso che l’una costituisce riscontro individualizzante dell’altra, ovvero se, per raggiungere il livello della prova, esse necessitino di un ulteriore elemento confermativo esterno che renda riferibile il fatto di reato al chiamato. (Nella specie la Corte ha censurato il ragionamento del giudice di merito che aveva ritenuto due convergenti chiamate “de relato” di per sè sole sufficienti ad integrare la prova di colpevolezza del chiamato, indipendentemente dalla disamina dei restanti dati probatori e dalla ricerca di riscontri individualizzanti, imprescindibile a fronte di accuse non aventi natura diretta)(Sez. 1, Sentenza n. 43928 del 25/10/2001 Ud. (dep. 06/12/2001) Rv. 220334).

Ed anzi può dirsi che il principio abbia trovato conferme in Sez. 5, Sentenza n. 37239 del 09/07/2010 Ud. (dep. 19/10/2010) Rv. 248648 e in Sez. 5, Sentenza n. 43464 del 09/05/2002 Ud. (dep. 20/12/2002) Rv. 223544. Senonchè vi è da rilevare che il caso concreto attiene a dichiarazioni, concernenti la vita del sodalizio, provenienti da collaboratori di giustizia che le avevano acquisite nell’ambito dei rapporti con soggetti che gravitavano a vario titolo sul sodalizio mafioso stesso, essendo parte del relativo patrimonio di conoscenze.

E per tale fattispecie vale l’ulteriore principio secondo cui non sono assimilabili a pure e semplici dichiarazioni “de relato” quelle con le quali un intraneo riferisca notizie assunte nell’ambito associativo, costituenti un patrimonio comune, in ordine ad associati ed attività propri della cosca mafiosa (Sez. 1, Sentenza n. 23242 del 06/05/2010 Cc. (dep. 16/06/2010) Rv. 247585). Allo stesso modo si è osservato che le dichiarazioni del collaboratore di giustizia su fatti e circostanze attinenti la vita e le attività di un sodalizio criminoso, appresi come componente, specie se di vertice, del sodalizio, non sono assimilabili a dichiarazioni “de relato” ed assumono rilievo probatorio in presenza di validi elementi di verifica circa le modalità di acquisizione dell’informazione resa (Sez. 2, Sentenza n. 6134 del 20/01/2009 Ud. (dep. 12/02/2009) Rv. 243425).

In tale ottica vanno dunque valutate le dichiarazioni di D.C. (associato a Cosa nostra, pag. 203 sent. imp.), C. (di fatto componente della famiglia mafiosa del quartiere di (omissis) ed al servizio di cosa nostra – pag.8 sent. imp.), M., uomo d’onore della famiglia di Porta nuova – pag.43 sent. imp.), ****** (reggente del mandamento della Noce ed autore delle propalazioni a GA., pag.44), Cu. S. (uomo d’onore della famiglia del Borgo, pag. 45 sent. imp.), Sc. F., (uomo d’onore della famiglia di Porta Nuova, pag. 46 sent. imp.): dichiarazioni le cui fonti, essendo rappresentate da soggetti implicati negli addebiti e quindi certamente non compuisabili nell’ottica chiarificatrice dell’art. 195 c.p.p., assumono il valore proprio non di quella “de relato” sul fatto ma della dichiarazione sulla circolazione della notizia all’interno del sodalizio, da valutarsi con un rigore – per vero- inversamente proporzionale alla minore capacità dimostrativa della chiamata. Vale in proposito il principio, cioè, secondo cui in tema di dichiarazioni provenienti da collaboratore di giustizia che abbia militato all’interno di un’associazione mafiosa, occorre tenere distinte le informazioni che lo stesso sia in grado di rendere in quanto riconducibili ad un patrimonio cognitivo comune a tutti gli associati di quel determinato sodalizio dalle ordinarie dichiarazioni “de relato”, che non sono utilizzabili se non attraverso la particolare procedura prevista dall’art. 195 c.p.p., in quanto l’impossibilità di esperire, nel primo caso, l’anzidetta procedura rende le stesse propalazioni meno affidabili e, come tali, inidonee di per sè a giustificare un’affermazione di colpevolezza; nondimeno, le stesse possono assumere rilievo probatorio a condizione che siano supportate da validi elementi di verifica in ordine al fatto che la notizia riferita costituisca, davvero, oggetto di patrimonio conoscitivo comune, derivante da un flusso circolare di informazioni attinenti a fatti di interesse comune per gli associati, in aggiunta ai normali riscontri richiesti per le propalazioni dei collaboratori di giustizia (Sez. 1, Sentenza n. 11097 del 26/01/2006 Ud. (dep. 29/03/2006) Rv. 233648).

Rigore nella specie ampiamente osservato e certamente non discutibile alla luce delle censure dell’impugnante che, sul tema, sono risultate onnicomprensive e aspecifiche con riferimento alla rilevanza delle singole questioni che sarebbero state, oltretutto, da porre in relazione ai passaggi della motivazione di ritenuta decisività.

In conclusione può affermarsi che la motivazione della sentenza impugnata si è giovata correttamente delle convergenti dichiarazioni di più collaboranti a vario titolo gravitanti sul o nel sodalizio mafioso Cosa nostra-tra i quali D.C., G. e Co. – approfonditamente e congruamente analizzate dal punto di vista dell’attendibilità soggettiva nonchè sul piano della idoneità a riscontrarsi reciprocamente circa il tema dell’assunzione- per il tramite di D. – di M. ad (omissis) come la risultante di convergenti interessi di B. e di Cosa nostra e circa, altresì, il tema della non gratuità dell’accordo protettivo, in cambio del quale sono state versate cospicue somme da parte di B. in favore del sodalizio mafioso che aveva curato l’esecuzione di quell’accordo, essendosi posto anche come garante del risultato.

E deve altresì sottolinearsi come, sul primo e fondamentale tema, le dichiarazioni dei collaboratori siano state considerate esse stesse come riscontro del dato obiettivo della assunzione di M. alla Villa di (omissis): assunzione che, indipendentemente dalle ricostruzioni dei c.d. pentiti, è stata congruamente delineata dai giudici come indicativa, senza possibilità di valide alternative, di un accordo di natura protettiva e collaborativa raggiunto d B. con la mafia per il tramite di D. che, di quella assunzione, è stato l’artefice grazie anche all’impegno specifico profuso da C.. Deve ritenersi peraltro inidoneo ad incidere negativamente sulla capacità probatoria delle richiamate fonti dichiarative la circostanza – denunciata dalla difesa – che i pagamenti effettuati da B. siano stati indicati nel racconto di D.C. come pari a 100 milioni, nel racconto di G. come un regalo di 50 milioni fatto dall’imprenditore, e nel racconto di Cu. come versamenti di 50 milioni l’anno.

L’ammontare cioè dei pagamenti, come riportati in racconti “indiretti”, correttamente e plausibilmente è stato relegato- dalla Corte territoriale – nel novero dei dettagli che ben possono avere subito variazioni e/o interpretazioni in occasione dei passaggi di confidenze dall’uno all’altro soggetto, tenuto conto anche del notevole ritardo della notizia pervenuta a G. (dieci anni dopo l’accordo), essendo stato rilevato, piuttosto, che è rimasto invariato e ripetuto il tema della ricerca e del raggiungimento di un accordo tra B. e Cosa nostra per il tramite di C. e di D., volto a realizzare una proficua e reciproca collaborazione di intenti – invero originata da uno stato di necessità per l’imprenditore – sul tema della libertà di movimento e di iniziativa per il primo e di vantaggio economico personale e del gruppo, per gli interlocutori. L’intero impianto del ragionamento è del resto in linea anche con i principi espressi dalie Sezioni unite in materia (in particolare nella sentenza Andreotti del 2003) atteso che il supremo consesso ha posto l’accento sulla necessità che la chiamata de relato sia, oltre che riscontrata da elementi oggettivi individualizzanti, anche soggetta ad un attento vaglio sulla attendibilità della fonte: precetto che nella specie è stato ampiamente rispettato non già attraverso la non indispensabile escussione della fonte stessa (anche in ragione della posizione di garanzia da ciascuna di esse goduta) ma attraverso la disamina della consistenza del ruolo e del grado di conoscenza dei fatti narrati,oltre che della occasione e della ragione della propalazione, ampiamente illustrati con riferimento, come già sopra detto, tra gli altri, a C. e a M., oltre che a G. e D.C..

1G. Con riferimento, poi, al tema della durata obiettiva dei pagamenti che B. e il suo gruppo imprenditoriale avevano effettuato a Cosa nostra anche per il tramite di D., la doglianza della difesa si rivela per taluni aspetti generica e per altri manifestamente infondata.

Generica, invero, è la critica attraverso la quale la difesa ritiene di poter sottoporre direttamente a questa Corte una circostanza in fatto e cioè la ricostruzione da essa patrocinata circa l’eventualità che il D., anche nella fase immediatamente susseguente all’accordo del maggio 1975, non possa aver agito per tradire l’amico B. ma semmai, nel peggiore dei casi, soltanto come vittima, associata in tale destino a B..

Manifestamente infondata è invece l’affermazione contenuta nel ricorso secondo cui non vi sarebbe la prova e tantomeno la motivazione sull’effettività di pagamenti ingiusti in favore della mafia anche oltre la conclusione della vicenda M., determinatasi con il suo allontanamento dalla villa di (omissis).

Invero la sentenza impugnata si articola, al riguardo, nell’analisi degli elementi acquisiti, plurimi e convergenti e sicuramente idonei, secondo il costrutto plausibilmente accreditato dalla Corte, a sostanziare anche l’accusa dell’avere, il D., agevolato e consentito il protrarsi se non di tutti, quantomeno di una parte dei pagamenti da parte di Fininvest in favore di cosa nostra, sia per la protezione garantita che per l’affare imprenditoriale delle istallazione dei ripetitori, fino al 1992 (fatta salva, in ordine a quest’ultimo accertamento, quanto di seguito si rileverà in punto di idoneità del dato a sostenere, per intero, l’assunto accusatorio).

La difesa trascura completamente di considerare, al riguardo, nel ricorso principale, il nucleo della motivazione sul punto, rappresentato dalla citazione e dall’analisi delle convergenti dichiarazioni- tra le principali- di D.C., Ga.Ca., A., G. e F..

Si tratta, come è agevole desumere dalla lettura dei passi rilevanti della motivazione, di collaboratori, tutti uomini d’onore, i quali, in ragione di tale loro posizione soggettiva, avevano avuto modo di apprendere, ora dalla voce del capo-mandamento Ga.Ra.

(Ga.Ca. e A.), ora dalla voce di C. (D. C. e G.), ora dalla voce del reggente Bi.

( F.) fatti attinenti alla vita del sodalizio, in parte del tutto sovrapponibili ed in parte strettamente concatenati. Ossia la vicenda dei pagamenti che, per il tramite di D. che variamente interagiva anche con soluzioni di continuità e con proteste, con i propri diretti interlocutori, B. aveva continuato ad effettuare, dopo la morte di Bo., ora ai suoi successori fratelli P., ora a C., direttamente designato dal capo mafioso R.S.. E ciò, quantomeno fino al 1992, non senza, peraltro, che i rapporti tra B. e Cosa nostra registrassero momenti critici, interpretati dalia Corte territoriale – con motivazione però non sempre congruente e logica come si vedrà- come segnale della volontà, della mafia, di mantenimento del rapporto sinailagmatico originario in una utile e profittevole tensione, per questa ragione motivo di rilanci e di richieste sempre più esose, puntualmente accolte dall’imprenditore.

I pagamenti materialmente effettuati a C. erano d’altra parte destinati ad essere ulteriormente suddivisi e destinati alle singole famiglie tra le quali quella di Ga. e quella retta da Bi..

L’impianto della sentenza, sul punto, tiene conto altresì e giustifica come “possibile” la tesi del G. secondo cui pagamenti di B. nel periodo di tempo in questione avrebbero anche potuto avere come causale il solo rapporto di protezione e non anche la istallazione dei ripetitori, ritenendo acquisite prove rassicuranti della effettività di pagamenti e non altrettanto rassicuranti circa la aggiunta della causale dei ripetitori alla causale della protezione.

Per tale ragione risulta irrilevante la critica della difesa tendente a segnalare il materiale probatorio dimostrativo del fatto che, per la istallazione dei ripetitori, a pagare avrebbero dovuto essere i titolari di locali e non la Fininvest. Così come versata in fatto e pertanto non apprezzabile è la segnalazione della difesa circa il fatto che F. avrebbe parlato di un unico e occasionale regalo di (omissis) fatto a Cosa nostra: è vero, al contrario, che la deposizione del F., come accreditata in sentenza, ha riguardato pagamenti sistematici effettuati da (omissis), con cadenza fissa dal 1988-1989 fino al 1992.

Per quanto osservato sopra, deve anche osservarsi che è assolutamente riduttiva e incapace di misurarsi col complessivo materiale probatorio analizzato dalla Corte di merito, la censura della difesa circa la natura “de relato” delle confidenze fatte da Ga.Ra. e i limiti di tal genere di prova. E’ sufficiente sul punto ricordare, oltre alla pluralità e alla straordinaria convergenza delle fonti dichiarative, l’esistenza, altresì, della giurisprudenza sopra richiamata in tema di valutazione delle dichiarazioni provenienti da soggetti coinvolti nel sodalizio mafioso, circa la vita del sodalizio stesso. E riaffermare il rispetto, nel caso di specie, dei criteri valutativi posti a presidio del mezzo di prova.

Infine ed a conclusione della disamina dei motivi del ricorso sul punto, deve essere ricordata la motivazione; ampia e logica, esibita dalla Corte territoriale sulla natura e qualità dei rapporti che D. ha dimostrato di continuare ad intrattenere con M. e con C., anche dopo l’allontanamento del primo dalla villa di (omissis): rapporti che la Corte ha argomentato, sulla base di elementi oggettivi (colloqui telefonici, partecipazione a cene e ad un matrimonio) essere stati- quantomeno nella relativa fase temporale – di natura assolutamente opposta a quella che connota il rapporto fra l’estorto (asseritamente D.) e l’estorsore (Cosa nostra). Di natura, cioè, consuetudinaria e progettuale oltre che sintomatica di una sicura affidabilità reciproca degli interlocutori, quale si era rivelata la cena al ristorante ” (omissis)”, tenutasi intorno al (omissis): una cena (ammessa anche dal ricorrente) nel corso della quale M. aveva presentato D. come proprio “principale” a personaggi di rilevante spessore criminale, quale era ca.An., presente a (omissis) non solo per accompagnare, a un locale summit, il fratello, uomo di vertice di cosa nostra, ma anche in un contesto di guerra di mafia all’epoca in atto nella città.

A diversa conclusione deve invece pervenirsi, come si vedrà, essenzialmente con riflessi in punto di analisi dell’elemento psicologico del reato, con riferimento al comportamento di D. in occasione dell’attentato posto in essere ai danni della villa di (omissis), appartenente B., nel (omissis). In relazione a tale evento, sono stati valorizzati le telefonate e i comportamenti attribuiti all’imputato subito dopo il verificarsi di tale evento, dalla Corte territoriale interpretati come univocamente – ed invece cadendo nel vizio di motivazione che qui si intende censurare- indicativi della prosecuzione di identici rapporti intrattenuti da D. con C., al quale il primo si sarebbe rivolto per chiarire fatti di rilevante importanza criminale, così lasciando fuori le forze dell’ordine e rafforzando il canale comunicativo tra la organizzazione imprenditoriale di B. e Cosa nostra, per la soddisfazione di reciproci interessi (vedi retro pagina 30).

Infondato si rivela, poi, il giudizio critico della difesa sull’utilizzo delle dichiarazioni di ga. a proposito della vicenda della pallacanestro Trapani,risalente al 1990-1992, vicenda evocata in sentenza attraverso il riferimento alle decisioni che su di essa sono state emesse nel separato processo di riferimento, celebrato a Milano, anche due volte in sede di rinvio. Sebbene, in materia valga indubbiamente il principio della inutilizzabilità, come prova, dei fatti accertati nelle sentenze non irrevocabili, non risulta che i giudici di merito lo abbiano violato.

Essi hanno dichiaratamente citato la vicenda processuale in questione, ad colorandum: a prescindere cioè dall’immediato rilievo penale che essa possa (o meno) vedersi riconosciuto nella sede giudiziaria propria. In più,- essendo sub judice non la denuncia della vicenda che ha dato origine al processo ma la sua interpretazione sul piano della rilevanza penale – la difesa non tiene conto del fatto che i giudici a quibus hanno citato la vicenda della denuncia di ga. quale mero elemento indicatore dei rapporti che D., nel periodo d’interesse, intratteneva con personaggi di caratura mafiosa per risolvere -con o senza iniziative intimidatorie-questioni di interesse patrimoniale: e quindi quale elemento utile non per dimostrare ma solo per “colorire” la tesi della consuetudine del personaggio con specifici ambienti a connotazione mafiosa con i quali avrebbe continuato ad interagire, nel tempo, in una posizione sempre “alla pari” e non in quella di vittima, evocata dalla difesa.

Infondato deve ritenersi anche il motivo nuovo (sub 2 ric. agg.) col quale la difesa ha ripreso il tema della credibilità dei pentiti valorizzati in sentenza, con particolare riferimento alle serie perplessità da essa sollevate nel giudizio di merito riguardo al fatto che i collaboratori avevano preso a parlare con gli inquirenti dopo che la stampa aveva dato ampio risalto alle prime dichiarazioni di D. e di c. ed aveva analizzato le cointeressenze de primo con M.V. e C. e dopo che era avvenuta la pubblicazione delle accuse di D.C. (del quale avrebbe potuto giovarsi G.). Deve infatti osservarsi che la difesa ha riproposto doglianze che la Corte d’appello aveva respinto con motivazione plausibile e non ulteriormente censurabile da parte di questa Corte. Il rilievo della mancata coincidenza dei particolari del racconto di D.C. e di G. sull’incontro di (omissis) costituisce un congruo criterio di valutazione sulla base del quale i giudici del merito hanno ritenuto di escludere che le dichiarazioni del secondo costituissero null’altro che la riproduzione delle dichiarazioni del primo lette sulla stampa.

Le proteste della difesa al riguardo si sostanziano, dunque, in un rilievo al limite dell’inammissibilità poichè nascondono, dietro una censura sulla logicità della motivazione, la proposta di una valutazione alternativa della prova, rivolta direttamente al giudice di legittimità. 1 H . Introduce invece serie e fondate denunce di insufficienza e/o manifesta illogicità della motivazione il motivo nuovo indicato sub 4) nel ricorso aggiunto, sulla significatività e concludenza del comportamento che D. avrebbe tenuto a proposito della c.d. messa a posto delle antenne, relativa ad un periodo temporale immediatamente successivo al 1980, tenuto anche conto del quadro complessivo dei contemporanei eventi accertati dalla Corte di merito.

Una iniziativa che, come fondatamente sottolineato anche dal Procuratore Generale di udienza, andrebbe a collocarsi in un periodo nel quale, già da un apprezzabile lasso di tempo (dagli inizi, a quanto sembra, del 1978), l’imputato aveva interrotto i rapporti professionali (anche se non amicali) con l’area imprenditoriale che faceva riferimento a B., per essere assunto, avendo oltretutto egli stesso propiziato il cambiamento, alle dipendenze di altro imprenditore, Ra.Fi., per l’apprezzabile periodo di tre anni, fino cioè a tutto il 1980.

Tale vicenda risulta affidata a brevissimi passaggi di motivazione, essenzialmente ricognitivi del fatto, ed invece non sostenuti dal chiarimento del comportamento che, in relazione alla esecuzione dell’accordo favorito alcuni anni prima, D. avrebbe materialmente continuato (o meno) a tenere, nel ruolo di agevolazione della esecuzione della parte patrimoniale dell’accordo. D’altro canto coglie nel segno – sempre sotto il profilo della denunciata incompletezza della motivazione- il rilievo della difesa secondo cui non è stato chiarito dai giudici – che anzi sembrano propendere per la versione di G. circa la assenza di pagamenti da parte di B. in favore di Cosa nostra per la messa a posto delle antenne, dovendo provvedervi autonomamente, semmai, i titolari degli impianti locali (vedi sul punto, retro, pag. 33)- quale sarebbe stata, nel concreto, l’attività posta in essere dall’imputato, nella direzione della agevolazione e del rafforzamento del consorzio mafioso, una volta preso atto della genericità della principale fonte dichiarativa della accusa – D.C. – che aveva riferito in maniera assai generica di un interessamento di D. sulla questione.

Invero l’obiezione è pertinente e comincia a dare forma a quello che, a giudizio di questa Corte, è parso il punto centrale del limite di logicità della motivazione proposta: quello che riguarda, come meglio si comprenderà col dipanarsi della analisi della decisione impugnata, non già il configurarsi, nel caso di specie, del concorso esterno in associazione per delinquere, reato da reputarsi emergente in tutti i suoi elementi costitutivi nei fatti- come riportati in sentenza- sopra ripercorsi fino al 1978; quanto, piuttosto, il momento della cessazione (o, se si vuole, della significatività delle prove sulla ulteriore perduranza) del reato stesso, sta sul piano – appena evocato- della materialità del comportamento dell’imputato che su quello dell’atteggiarsi dell’elemento psicologico che ha assistito l’azione dell’imputato medesimo.

2. Invero, sul tema della configurabilità, in linea di principio, del concorso esterno in associazione per delinquere semplice e poi, a partire dal 1982, di stampo mafioso non sono stati sollevati dubbi dogmatici neppure dalla difesa nè vi è motivo di sollevare specifiche perplessità.

La prima figura (che è quella originariamente contestata al Capo A, poi assorbito dal B) secondo una giurisprudenza che appare costante (vedi, tra le molte, Sez. 1, Sentenza n. 40203 del 29/09/2010 Cc. (dep. 15/11/2010) Rv. 248461, relativa invero alla “partecipazione” ad associazione) è stata agevolmente ammessa dalla giurisprudenza di legittimità una volta stabilizzata la ammissibilità teorico- dogmatica del concorso esterno in associazione mafiosa (vedi Sez. 3, Sentenza n. 38430 del 09/07/2008 Cc. (dep. 09/10/2008) Rv. 241274; Sez. 1, Sentenza n. 19335 del 22/04/2009 Ud. (dep. 08/05/2009) Rv. 244064; Sez. 5, n. 12591 del 10/11/1995 (dep. 28/12/1995) Rv. 203948).

Non è stato apprezzato, del resto, alcun ostacolo dogmatico, sullo stesso versante, per configurare il concorso esterno in altri reati a partecipazione necessaria anche nei più recenti approdi della giurisprudenza di legittimità come Sez. 1, n. 1072 del 11/10/2006 (dep. 17/01/2007) Rv. 235290 (relativa a concorso esterno in associazione con finalità di terrorismo internazionale), ribadita da Sez. 1, Sentenza n. 16549 del 14/03/2010 Cc. (dep. 29/04/2010) Rv. 246937.

La seconda figura, d’altra parte, come ricordato anche nella sentenza impugnata che si è espressamente avvalsa degli insegnamenti delle Sezioni unite di questa Corte citando le sentenze ******* e ******* a pag.260 e seg. non solo per escludere, dunque, ma anche per asseverare la parte accreditata di reato contestato, è stata oggetto di ripetute e positive analisi da parte della supremo consesso della Cassazione.

La necessità di dettagliare i contorni di tale fattispecie giuridica – che comunque incontra il sostegno teorico anche di una parte importante della dottrina – dipende invero dalla estrema delicatezza della operazione che l’interprete è chiamato ad effettuare operando sulla fusione di una norma di parte generale (art. 110 c.p.) ed altra di parte speciale (il reato a concorso necessario) e dovendo trovare, senza ricorso a semplificazioni non accettabili nè permesse, prove di tutti i passaggi normativi richiesti da siffatta complessa operazione ermeneutica: la cui difficoltà riguarda comunque essenzialmente la individuazione della linea di discrimine tra la condotta “partecipativa” vera e propria e quella di chi invece agisca in assenza di affectio societatis, con il medesimo fine, però, e con condotte a volte non dissimili da quelle del primo. Con la prospettiva, sul piano ermeneutico, che ove, nella sede istituzionalmente propria, si incidesse sulla possibilità teorica di configurare il concorso esterno, si attiverebbe il dibattito dottrinale sulla ampiezza e i confini della operatività della partecipazione vera e propria, rimanendo in area di liceità penale non certo tutte le condotte ascrivibili all’area del concorso eventuale. E dovendosi altresì rammentare, alla luce dei principi generali in tema di partecipazione ad associazione fissati dalla sentenza delle SSUU del 2005, che l’area di tale “partecipazione” non potrebbe certo ritenersi automaticamente e necessariamente dipendente solo dai criteri di “affiliazione” propri della associazione criminosa, dovendo invece essere delineata sulla base dei criteri propri della fattispecie penale e della sua interpretazione giuridica, che è sensibile a indicatori dinamici e funzionali (v. Sez. U, Sentenza n. 33748 del 12/07/2005 Ud. (dep. 20/09/2005) Rv. 231670).

Tali considerazioni comunque non riguardano il processo in esame, nel quale si conferma la condivisione della giurisprudenza consolidata, frutto di ripetute analisi delle Sezioni unite, giunte reiterata mente alla medesima conclusione: quella di ritenere che il concorso esterno in associazione anche mafiosa è configurabile sulla base dei requisiti che, nel tempo, sono stati via via sempre più dettagliatamente rimarcati, essendo comunque tratti dai principi e dai precetti positivamente espressi nella parte generale e in quella speciale del codice sostanziale: non è inutile ricordare, in proposito, la sentenza delle SSUU del 2005, preceduta da quelle del 1994 e del 2002 .Ma anche plurime sentenze conformi delle sezioni semplici come, fra le sole edite, la n. 1073 del 2006, la n. 542 del 2007, la n. 54 del 2008, e la n. 35051 del 2008, per non parlare della rilevante entità di quelle non edite ma pubblicate fino alla data odierna.

Che, semmai, la proiezione della decisione più recente delle Sezioni unite è stata, si, nel senso di pretendere una rigorosa dimostrazione del nesso di causalità e dell’elemento psicologico dell’agente, ma anche nella direzione di sostenere che la dimostrazione del rafforzamento della associazione, superando la fase patologica della sua “fibrillazione”, è una (e forse la più evidente ed efficace) ma non Tunica possibilità probatoria data alla accusa, come del resto già sostenuto dalla giurisprudenza a sezioni semplici (v. Rv. 229242). E quindi, nella direzione di non restringere a tutto campo l’ambito di operatività della fattispecie.

3. Tanto premesso sulla assenza di dubbi a proposito della configurabilità del concorso eventuale nel reato associativo a concorso, cioè, necessario, deve, a questo punto, riprendersi il tema lasciato sospeso sopra, che è quello della rilevanza della questione della mancanza di motivazione sul comportamento in concreto tenuto dall’imputato nel periodo, durato alcuni anni, dell’allontanamento dall’area imprenditoriale berlusconiana, tra l’altro facendo registrare la sua assunzione alle dipendenze di imprenditore diverso e autonomo, il Ra..

Ebbene, siffatto arco temporale che viene riferito al periodo complessivo decorso dalla fine del 1977 al 1982 (v. retro pag. 26) ha formato oggetto da parte dei giudici a fini che qui non rilevano direttamente (assenza di illiceità dei rapporti D. – Ra.), cogliendosi invece un totale vuoto argomentativo per quanto concerne la possibile incidenza di tale allontanamento sulla permanenza del reato già commesso. Deve infatti darsi atto, a questo punto della presente disamina, che, con riferimento ai fatti sopra ricordati e riportati nella sentenza impugnata attraverso la illustrazione delle fonti di prova e la loro valutazione critica, il reato contestato è rimasto configurato sul piano obiettivo e materiale e dello stesso deve potersi indicare il momento consumativo e quello di cessazione, mediante la analisi della sua natura, quale reato, come si vedrà, permanente. E’ infatti indubbio e costituisce espressione del concorso esterno da parte dell’imputato nella associazione criminale denominata Cosa nostra, facente capo – per quello che qui interessa- nella metà degli anni 70, anche a Bo. e T., il comportamento consistito nell’avere favorito e determinato- avvalendosi dei rapporti personali di cui già a (omissis) godeva con i boss (vedi dichiarazioni di D.C. citate retro a pag.25, con rinvio a pag. 262 sent. imp.) e di una amicizia in particolare che gli aveva consentito di caldeggiare la propria iniziativa con speciale efficacia presso quelli- la realizzazione di un incontro materiale e del correlato accordo di reciproco interesse, tra i boss mafiosi – nella loro posizione rappresentativa- e l’imprenditore amico ( B.).

In questo senso, la Corte territoriale valorizza e impernia la propria decisione sul rilievo della attività di “mediazione” che D. risulta avere svolto nel creare il canale di collegamento o, se si vuole, di comunicazione e di transazione che doveva essere parso, a tutti gli interessati e ai protagonisti della vicenda, fonte di reciproci vantaggi per i due poli: il vantaggio, per l’imprenditore B., della ricezione di una schermatura rispetto ad iniziative criminali (essenzialmente sequestri di persona) che si paventavano ad opera di entità delinquenziali non necessariamente e immediatamente rapportabili a cosa nostra o quanto meno alla articolazione palermitana di Cosa nostra di cui veniva, in quel frangente, sollecitato l’intervento, e quello di natura patrimoniale per la stessa consorteria mafiosa.

Questa aveva cioè, grazie alla iniziativa di D. che si era posto come trait d’union, siglato con l’imprenditore un patto, all’inizio non connotato e tantomeno sollecitato da proprie azioni intimidatorie (si veda a pag.239,240, 270 la citazione, da parte dei giudici, delle emergenze probatorie a sostegno della tesi che le minacce ricevute da B. fossero di matrice forse catanese ma, soprattutto, calabrese) oltre che finalizzato alla realizzazione di evidenti risultati di arricchimento: un patto che,peraltro, risentiva di una certa, espressa (v. colloqui citati a pag. 241 della sentenza) propensione dell’imprenditore B. a “monetizzare”, per quanto possibile, il rischio cui era esposto e a spostare sul piano della trattativa economica preventiva, l’azione delle fameliche consorterie criminali che invece si proponevano con annunci intimidatori.

Ed è appena il caso di ricordare che, rispetto a tale ricostruzione, non era indispensabile illustrare, ai fini della configurazione del reato di cui all’art. 110 c.p. e art. 416 c.p. o art. 416 bis c.p., anche quale avrebbe potuto essere il vantaggio del concorrente esterno, posto che un simile elemento, la cui acquisizione certamente potrebbe essere utile per meglio scolpire e definire l’atteggiamento psicologico di questi – e su cui appresso ci si soffermerà- tuttavia non è astrattamente imprescindibile ai fini della motivazione sulla responsabilità, essendo richiesta, in tale ottica, la prova della condotta che determini la conservazione o il rafforzamento della associazione e non anche il requisito del vantaggio, patrimoniale o meno, dell’agente.

Per tale ragione sembra utile evidenziare anche che lo scrupolo del Procuratore Generale di udienza – secondo cui si sarebbe dovuta esplorare fino in fondo la natura estorsiva (o meno) degli esborsi di B. in favore della mafia, per comprendere esattamente la posizione di D. che tali esborsi aveva favorito- finisce per porsi in conflitto, come censura sul merito, con il costrutto accreditato dai giudici a quibus, costrutto che prescinde da quella prova e che, ciò nonostante appare razionale e plausibile.

Infatti se, come ammesso dallo stesso PG, il concorso esterno può realizzarsi sia mediante la commissione di una o più azioni in sè penalmente rilevanti o anche con azioni in sè lecite, non vi è ragione di negare ingresso alla tesi dei giudici secondo cui i pagamenti effettuati da B. avevano, si, natura necessitata perchè ingiustamente provocati, all’origine, da spregevoli azioni intimidatorie poste in essere in danno della sua famiglia, ma non l’avevano avuta – ai tempi- in riferimento ai rapporti con D. e con Bo. e T. e l’associazione che essi immediatamente rappresentavano: soggetti, dunque, che erano stati evocati in una trattativa che, all’origine, appariva concepita “alla pari”, per il conseguimento di un risultato che, così come avrebbe potuto e dovuto essere perseguito presso le istituzioni all’uopo previste, era stato invece cercato presso chi era parso capace di garantire un servizio di sicurezza di tipo privato e particolarmente efficace ed affidabile.

Ne consegue che la dimostrazione della sussistenza, nel caso di specie, del reato di concorso esterno non passa attraverso la necessaria dimostrazione della sussistenza anche del reato di estorsione da parte di D. e della associazione all’epoca evocata, e tantomeno potrebbe affermarsi che la negazione della commissione di fatti di estorsione da parte dei medesimi soggetti faccia venir meno la configurabilità del primo reato in capo all’imputato o la posizione di vittima in capo all’imprenditore B.. Appare invece plausibilmente sostenuto dai giudici del merito che la condotta di rilevanza penale addebitata a D., con riferimento al periodo in questione, è stata quella dell’avere richiesto e quindi determinato l’incontro più volte sopra menzionato, finalizzato al consapevole e voluto conseguimento, poi avvenuto, di un accordo del genere di quello descritto, fra B. e il sodalizio rappresentato da Bo. e T., laddove con i termini “richiedere ” e “sollecitare” si intende qui esplicitare ulteriormente il senso già fatto palese dalle parole usate dai giudici, a proposito della opera di “mediazione” svolta da D. e di apertura del “canale di collegamento” fra i due poli.

Nozioni che ingiustificatamente sono parse insufficienti al Procuratore ******** e che invece stanno a dimostrare, in termini di causalità necessaria, il comportamento per effetto del quale la catena di eventi descritti fino a qui non si sarebbe verificata in modo analogo, nel senso cioè che raccordo transattivo per la protezione “privata” voluto da B. e da cosa nostra con l’arrivo peraltro alla villa dell’imprenditore di un esponente del sodalizio e con il pagamento, attraverso gli accertati canali, dei pagamenti sinallagmatici, non avrebbe fatto la sua comparsa nel mondo fenomenico e tanto meno sulla ribalta penale.

A nulla vale in contrario osservare che D. è stato probabilmente un catalizzatore di eventi che erano pronti a maturare autonomamente come quello della estorsione di tangenti da parte di consorterie criminali, e in particolare di cosa nostra, a danno di B..

Certamente la causalità di un furto realizzato grazie all’opera di un basista non viene meno solo perchè sarebbe stato reperibile altro basista o perchè del basista si sarebbe potuto fare a meno.

La causalità necessaria- che oltretutto è destinata ad operare con lo standard probatorio della “alto o elevato grado di credibilità razionale” o “probabilità logica” (v., da ultimo, Sez. 4, Sentenza n. 4675 del 17/05/2006 Ud. (dep. 06/02/2007) Rv. 235658, ma nello stesso senso di SSUU n. 30328 del 10/07/2002 Ud. (dep. 11/09/2002) Rv. 222138) – entra in gioco con riferimento al modo specifico di realizzazione di un dato reato, quando cioè l’agente determini un evento che, senza il suo apporto, non si sarebbe verificato o si sarebbe attuato in maniera diversa ed è difficile, in tale prospettiva, negare rilevanza ad una condotta dell’agente descritta come “adoperarsi” e concretizzatasi nei termini sopra descritti: una condotta che, dunque, non è una categoria astratta e inconducente, come sembra sostenere il Procuratore Generale, ma, come nozione giuridica, è comunemente evocata dalla giurisprudenza proprio per delineare l’apporto del concorrente che non ponga in essere direttamente l’azione tipica del reato cui concorre ma che apporta quel genere di contributo, proprio di chi si pone come intermediario, alla sua realizzazione (Si veda in tal senso, per citare solo qualche esempio, Sez. 1, Sentenza n. 2802 del 18/12/2006 Cc. (dep. 25/01/2007) Rv. 235343; Sez. 2, Sentenza n. 5845 del 16/02/1995 Ud. (dep. 22/05/1995) Rv. 201334; Sez. 6, Sentenza n. 45644 del 04/11/2009 Cc. (dep. 26/11/2009) Rv. 245480; Sez. 1, Sentenza n. 7921 del 22/01/2010 Cc. (dep. 26/02/2010) Rv. 246571).E, ovviamente, non dal lato, esclusivamente, della vittima. Tanto premesso, può dunque concludersi che i giudici hanno adeguatamente rappresentato come la condotta dell’agente, riferita agli anni che vanno dal 1974 fino alla fine del 1977, abbia costituito un antecedente causale quantomeno della conservazione, se non del rafforzamento del sodalizio criminoso cosa nostra,posto che tale sodalizio si fonda notoriamente sulla sistematica acquisizione di proventi economici che utilizza per crescere e moltiplicarsi e anche per il mantenimento della sua stessa “forza lavoro” e quindi della organizzazione attraverso la quale opera e si rafforza. Ed è indubbio che l’accordo di protezione mafiosa propiziato da D., con il sinallagma dei pagamenti sistematici in favore di cosa nostra, vada ad inserirsi in un rapporto di causalità, nella realizzazione dell’evento del finale rafforzamento di cosa nostra, dovendosi anche escludere rilievo al fatto che cosa nostra comunque si arricchisce di mille altri affari illeciti anche più lucrosi. Il principio della causalità necessaria opera, come chiarito anche dalla giurisprudenza, nel senso che “ai sensi dell’art. 40 c.p., comma 1, un antecedente può essere considerato condizione necessaria dell’evento quando rientri nel novero di quegli antecedenti che, sulla base di una successione necessaria, porti ad eventi del genere di quello in esame,indipendentemente dal concorrere di altre condizioni, salvo quelle sopravvenute da sole sufficienti a determinare l’evento (vedi Rv. 213693).

Ed è indubbio che la sussistenza del nesso di causalità può essere affermata, oltre che sulla base di dati empirici o documentali di immediata evidenza, anche con ragionamento di deduzione logica purchè fondato su elementi di innegabile spessore (Rv. 219426).

Rispetto alla obiezione della difesa sul punto vale, inoltre, ricordare che nell’ordinamento normativo vigente le cause concorrenti – che non siano da sole sufficienti a determinare l’evento per il necessario porsi delle prime come condizione necessaria antecedente – sono tutte e ciascuna causa dell’evento in base al principio della causalità materiale fondato sull’equivalenza delle condizioni (v.Sez. 4, Sentenza n. 578 del 19/12/1996 Ud. (dep. 28/01/1997) Rv. 206647, con seguenti conformi).

4. Riprendendo la questione, sopra anticipata, che riguarda la necessità di verificare fino a quando la descritta fattispecie abbia registrato una perduranza penalmente rilevante per D. – tenuto conto del fatto pacificamente acquisito che egli si allontanò a partire dal 1978, dalla area imprenditoriale di B. – si passa ora ad evidenziare l’effetto che una simile situazione contingente – in sè considerata- potrebbe avere prodotto sulla configurazione del reato e quindi a sostanziare il senso dell’annullamento per vizio di motivazione sul punto, chiarendosi in quale direzione si impone una richiesta di nuova motivazione al giudice del rinvio, su tale argomento. Occorre dunque evidenziare che, come affermato dalla giurisprudenza di questa Corte di legittimità (Sez. 6, Sentenza n. 542 del 10/05/2007 Ud. (dep. 08/01/2008) Rv. 238241), il concorso esterno in associazione per delinquere oppure in quella specificamente mafiosa si atteggia, al pari della partecipazione, di regola, come reato permanente.

Reato permanente è quello nel quale l’agente ha il potere di determinare la situazione antigiuridica ed anche di mantenerla volontariamente, nonchè di rimuoverla, così dando luogo egli stesso, come sottolinea una autorevole dottrina, alla riespansione del bene giuridico compresso. Nel caso del concorso esterno ad associazione per delinquere o mafìosa le suddette caratteristiche si ravvisano nella condotta di chi favorisca un accordo – come nella specie- di cui sa e vuole che produca effetti di conservazione e/o di rafforzamento per il sodalizio mafioso, accordo che assurge esso stesso a momento consumativo del reato se dotato di tutti i requisiti per risultare capace di ingenerare negli appartenenti al sodalizio gli effetti di cui si è detto, valutabili anche obiettivamente ed ex post.

Un accordo, che, in ipotesi, avesse ad oggetto la promessa dell’aiuto elettorale da parte del capo di una consorteria mafiosa e, dall’altro lato, la promessa chiara e seria dell’impegno, da parte del candidato alle elezioni, di sdebitarsi assumendo specifiche iniziative legislative o amministrative di sua competenza, ben potrebbe costituire l’elemento materiale del concorso esterno da parte del politico, non essendo per nulla decisiva la verifica dell’effettivo rispetto dell’impegno stesso ad opera di costui (Sez. 5, Sentenza n. 4893 del 16/03/2000 Ud. (dep. 20/04/2000) Rv. 215963; conf. Rv 216815; Sez. 1, Ordinanza n. 11613 del 04/02/2005 Cc. (dep. 23/03/2005) Rv. 231630), e pur potendo costituire, questa, un prezioso elemento di prova della serietà o meno dell’impegno.

In tal senso si sono espresse anche le Sezioni unite nel 2005 quando, nell’affermare la necessità della verifica che “gli impegni assunti dal politico abbiano inciso effettivamente e significativamente, di per sè sulla conservazione o sul rafforzamento delle capacità operative dell’intera organizzazione criminale o di sue articolazioni settoriali”, hanno però anche precisato che una tale verifica ben può “prescindere da successive ed eventuali condotte esecutive dell’accordo”.

Allo stesso modo, l’accordo serio e affidabile relativo alla protezione da attentati, assicurata, a chi è costretto da necessità effettive, a pagare cifre assai rilevanti per tale servizio, da parte di Cosa nostra costituisce, esso stesso,- per chi se ne fa promotore, dal lato, anche, del sodalizio profittatore-un evento capace di contribuire all’avvio della compressione del bene giuridico tutelato dalla norma contestata, ossia l’ordine pubblico, che è vulnerato per il solo fatto che un’associazione mafiosa sia posta in condizioni di estendere ed estenda la propria area di illeciti affari sul territorio, anche sostituendosi ai poteri istituzionali, nella garanzia della difesa dei beni fondamentali (libertà, vita) di taluni cittadini.

Tuttavia- ed a prescindere dai rilievi di parte della dottrina sulla figura del reato “eventualmente” permanente- fintantochè il concorrente esterno protragga volontariamente la esecuzione dell’accordo che egli ha propiziato e di cui quindi si fa, di fatto, garante, presso i due poli dei quali si è detto, si manifesta il carattere permanente del reato che ha posto in essere, evenienza che la giurisprudenza riassume nella locuzione secondo cui “la suddetta condotta partecipativa(esterna) si esaurisce, quindi, con il compimento delle attività concordate (Sez. 1, Sentenza n. 21356 del 17/04/2002 Ud. (dep. 30/05/2002) Rv. 222439).

Il reato in esame può, cioè, dirsi iniziato con la realizzazione dell’accordo mafia-imprenditore ed era destinato a cessare quando e se fossero cessati i comportamenti che l’imputato teneva in esecuzione dell’accordo stesso (essendo irrilevante, per quello che si è detto, che il danno patrimoniale non fosse a suo carico), sempre ovviamente impregiudicata l’analisi dell’atteggiamento psicologico, del quale si dirà poi (per una visione analoga della cessazione del reato permanente, v. Rv. 248108). Una simile impostazione, del resto, è già stata elaborata con riferimento alla cessazione della appartenenza alla associazione mafiosa, da parte del sodale, al quale, pur in presenza, nel nostro ordinamento,della concezione monistic del concorso di persone nel reato, è data la prova del recesso volontario. E questa- nonostante la denuncia di omessa motivazione sul punto, formulata dal Procuratore Generale di udienza- è stata anche la conclusione chiaramente fatta propria – in linea di principio- dalla Corte di appello di Palermo che a pag. 635 ne ha fatto applicazione, univocamente ancorando la data di cessazione del reato in parola al 1992, e cioè alla data di effettuazione, secondo il costrutto da essa accreditato, degli ultimi pagamenti da parte di B. alla mafia, tramite D., in esecuzione del patto di protezione. Senonchè, in concreto, questa Corte rileva che i giudici dell’appello non hanno tenuto conto o comunque non hanno motivato sulle ragioni in base alle quali una prima fase di cessazione non possa essere individuata nel periodo (1978-1982) durante il quale D. non era rimasto più alle dipendenze dell’imprenditore in favore del quale il patto con la mafia era stato stipulato. Il vuoto argomentativo, sul punto, si traduce in un evidente vizio della motivazione che la difesa, sostenuta poi dal Procuratore Generale di udienza, ha denunciato fondatamente: un vuoto che necessita di essere colmato, ove ne ricorrano gli elementi, con specifiche indicazioni di quale sia stato il comportamento, nel periodo, da parte di D., non potendo darsi ingresso a presunzioni basate sulla bontà dei rapporti di amicizia con B.: rapporti che da soli non provano il perdurare della intromissione di D. in affari penetranti per la vita individuale dell’imprenditore dal quale si era allontanato, atteso che di ciò non risultano esplicitate neppure la ragione e le modalità concrete del concorso nei versamenti che si dicono comunque avvenuti, materialmente dunque anche ad opera di terzi, a partire dal 1978. In realtà, una simile apparente interruzione degli stretti rapporti precedentemente instaurati con B. potrebbe risultare, all’esito della nuova analisi demandata al giudice del rinvio, indicativa della definitiva fine della permanenza del reato fino a quel momento consumato, con evidenti riflessi sul computo del termine prescrizionale, che il giudice del rinvio dovrà pure considerare.

Oppure potrà risultare compatibile, con motivazione diversa però da quella qui cassata, con il costrutto accusatorio.

Oppure, ancora, potrà rappresentare la manifestazione della cessazione del reato permanente cui potrebbe avere fatto seguito- ove il giudice del rinvio ne argomentasse plausibilmente la sussistenza, anche alla luce dei rilievi ulteriori che qui si formuleranno- una forma di ripresa dello stesso reato, all’atto del ritorno dell’imputato nell’area imprenditoriale facente capo a B.:

una condotta capace quindi di porsi nuovamente in violazione degli artt. 110 e 416 bis c.p. e che potrebbe dover essere valutata in una relazione di “continuazione” ex art. 81 c.p., con quella precedente e cessata una prima volta: evenienza quest’ultima che, così come la seconda ipotesi appena formulata, cambierebbe ancora una volta – ma in pejus- i termini del calcolo della prescrizione, la quale decorrerebbe dalla ultima delle condotte dell’imputato di cui il giudice del rinvio possa sostenere motivatamente che è la oggettiva e soggettiva manifestazione della protrazione della condotta antigiuridica in esame (troverebbe applicazione, infatti, il regime della prescrizione antecedente alla riforma del 2005, che valorizza il reato “continuato”).

5. Per tornare alla disamina del quinto motivo di ricorso e soprattutto dei motivi nuovi con i quali lo stesso è stato ripreso ed ampliato dalla difesa, deve ancora ribadirsi, ora, alla luce dei principi fino a qui enunciati, che con esso, intrecciato poi con il successivo settimo motivo, la difesa ha denunciato fondatamente il vizio di motivazione con riferimento sia alla già esaminata questione del periodo di quattro anni almeno in cui D. si è posto alle dipendenze di Ra., sia alla questione del dolo che avrebbe assistito la fase dei successivi pagamenti.

Quanto a questi ultimi, dal punto di vista oggettivo, invero, deve ribairsi che la motivazione esibita dalla Corte di merito a proposito del protrarsi dei pagamenti da B. a cosa nostra sostanzialmente supera il controllo di legittimità perchè- diversamente da quanto pur sostenuto dal ricorrente, è congrua e logica, richiedendo una opportuna chiarificazione solo sul se si sia trattato di una prosecuzione senza soluzione di continuità dopo l’allontanamento di D. ovvero di una ripresa dopo una interruzione. Invero, sulla realtà oggettiva dei pagamenti negli anni ’80 e poco oltre, comunque ad opera di D., e sulla base della nota causale del patto di protezione con la mafia, la sentenza risulta rispettosa dei parametri normativi, soprattutto in ordine al tema principale della denunciata inattendibilità dei collaboratori di giustizia e smentendo che un vizio di motivazione sul punto si sia concretizzato.

Lo stesso Procuratore Generale di udienza ha escluso che possano formularsi apprezzabili rilievi sulla ricostruzione del fatto ed è sufficiente rimandare a quanto sopra già osservato in ordine ai principi giurisprudenziali che escludono la valutazione delle dichiarazioni dei soggetti gravitanti su sodalizi mafiosi, i quali in ragione di tale loro ruolo hanno appreso i fatti pertinenti la vita del sodalizio stesso, come dichiarazioni “de relato”. Ed anzi affermano l’attitudine di tali dichiarazioni ad assurgere al valore di prova della diffusione e della circolazione delle notizie stesse all’interno del sodalizio, con la aggiunta della necessità degli elementi di riscontro.

Nel caso di specie di dichiarazioni dei collaboratori (peraltro in taluni casi, frutto di percezione diretta dei fatti narrati, come nel caso di G. che aveva udito personalmente, nel 1986, C. protestare per il comportamento scostante di D. in occasione dei pagamenti – v. retro pag. 29-, e nel caso di F. che aveva riferito di avere assistito personalmente in una occasione, dopo il 1988, al pagamento di una somma proveniente da canale 5, versata poi da Ga.Ra. al suo capo mandamento, per il tramite di Bi. – v. retro, pag. 31) hanno formato oggetto di un’approfondita disamina anche incrociata da parte del giudice del merito che ha plausibilmente spiegato anche le ragioni delle diverse indicazioni dei riferimenti cronologici in esse contenuti (relative soltanto all’epoca di acquisizione della notizia da parte di ciascuno degli dichiaranti e non della notizia stessa).

Non sono neppure mancate, come già sottolineato, da parte del giudice del merito aperture, derivanti dalla propalazione di G. e dalla conversazione intercettata tra D. e C. la mattina del 16 gennaio 1987 (vedi retro pagina 30-31), verso una ricostruzione che vedeva la effettuazione dei pagamenti da parte di B., successivamente al 1980, dovuta alla solita causale della protezione e non anche alla installazione delle emittenti televisive: in tal modo evidenziando come il nucleo delle dichiarazioni dei collaboratori, ritenuto rilevante, fosse quello relativo alia effettività dei pagamenti e non anche quello relativo alla precisazione delle relative causali, oggetto di possibile incertezza proprio per la natura indiretta delle dichiarazioni.

Sono stati infine enumerati (vedi retro pag. 29-30) gli elementi di riscontro obiettivo rappresentati in particolare da conversazioni telefoniche anche realizzate in epoca prossima all’attentato alla villa di (omissis) di B., a dimostrazione di particolari contenuti nelle dichiarazioni di Ga.Ca. e di G.:

a proposito, cioè, del fatto che D., pur continuando a pagare a Cosa nostra, aveva formulato proteste sulle modalità oppressive delle riscossioni.

In particolare il racconto di G. e Ga. sulle modalità dell’intervento di R. a fronte dell’atteggiamento problematico assunto da D. (riscontrato, quest’ultimo, dalla telefonata intercettata fra C. e D.A. il 25 dicembre 1986) aveva trovato conferma nell’attentato alla villa di (omissis), attentato che B. stesso, come da conversazione avvenuta poco dopo la mezzanotte con D., aveva immediatamente attribuito ad un’iniziativa di cosa nostra. Per essere subito dopo rassicurato da D. che – non a caso – aveva chiesto chiarimenti, in tempo reale, al C., presente a quell’epoca in (omissis) per la riscossione, come da dichiarazioni dei collaboratori sopra citati.

Ma la motivazione del giudice del merito fin qui ripercorsa, se non si espone a censure per quanto concerne la affermazione della effettività della protrazione dei pagamenti nei termini ricordati, rende evidente che le stesse fonti di prova citate, unitamente ad eventi oggettivi quali gli attentati subiti da B. nell’arco temporale qui in esame, lasciavano trasparire, come correttamente sottolineato dalla difesa, elementi di una certa torsione o avvitamento dei rapporti fra le parti interessate, all’interno dei quali quei pagamenti avrebbero dovuto essere, perciò, nuovamente interpretati e valutati. Basta qui ricordare l’attentato alla villa di (omissis) che B. subì nel novembre 1986 con la convinzione personale che fosse opera di Cosa nostra e i dubbi che anche D. nutrì inizialmente; le dichiarazioni di G. che aveva sentito, in un incontro con mafiosi nel 1986, C. lamentarsi e dire che non voleva più recarsi a riscuotere le somme da D. a (omissis), per conto di cosa nostra, dato che l’imputato era divenuto con lui scostante; il racconto dello stesso propalante che aveva parlato del fatto che di tale situazione di stallo era stato informato il boss R., fino a quel momento all’oscuro di tutto, ed il capo mafioso aveva deciso di replicare al detto atteggiamento con ulteriori iniziative intimidatorie poste in essere nel 1987, tanto da ottenere, da un lato, la obbligata riconsiderazione della posizione di C. presso D. e, dall’altro, addirittura la imposizione del raddoppio della somma da quello versata in cambio della protezione; le dichiarazioni di Ga.Ca., riferite al precedente periodo del 1984-1985, nel quale – come gli aveva confidato il padre R., capo mandamento- C. aveva riferito di lamentele di D. che, neireffettuare i noti pagamenti, si era detto “tartassato” dai fratelli P., essendo, uno di questi, il reggente della famiglia mafiosa del Gesù al posto di Bo., dopo la uccisione di costui. E cioè colui che aveva preso a riscuotere le somme prima percepite da Bo. stesso,nella qualità rivestita, per poi venire estromesso da R., in favore di C..

Vanno anche ricordate, nella medesima prospettiva problematica, le dichiarazioni di A., altro collaboratore, il quale aveva reso un racconto per buona parte collimante con quelli di G.C. e di G.; la conversazione telefonica intercettata nel dicembre 1986 tra D.A. (fratello dell’imputato) e C. nel corso della quale questo descriveva il comportamento di D. come di persona che era solito farlo aspettare o addirittura sparire per evitarlo.

Debbono infine essere menzionati gli attentati di matrice mafiosa, ai magazzini (omissis) appartenenti a Fininvest, posti in essere nel 1990: attentati che la Corte territoriale ha svalutato quanto alla idoneità a comprovare-nell’ottica della accusa- ulteriori interessamenti di D., per la composizione della questione sottostante, presso i capi di cosa nostra. Ma che invece vanno sottoposti a nuova vantazione nell’ottica della tesi difensiva del potere essi rappresentare (o meno) la espressione di un rapporto tra B. e mafia non più regolato da un patto di reciproco interesse (sia pure necessitato per il primo), e, di riflesso, quale causa o quale effetto- poco rileva- di un rapporto di D. con Cosa nostra comunque non più convergente, n perseguimento di comuni interessi.E ciò in considerazione, anche, di u sostanziale mutamento degli equilibri esistenti quando si era raggiunto raccordo del 1974, dovendosi registrare, nel 1981, la morte violenta o per lupara bianca dei vertici mafiosi ( Bo. e T.) che quell’accordo avevano stipulato- rendendosene garanti- con il successivo avvento di una direzione del sodalizio caratterizzata notoriamente dalla “cifra” notevolmente più aggressiva tanto da divenire artefice, in seguito, della stagione stragista. La Corte territoriale non ha reso alcuna logica motivazione sui temi appena ricordati, trascurando del tutto quello che apparirebbe un rapporto estremamente teso tra D. riluttante ai pagamenti e i vertici mafiosi del dopo- Bo., in particolare i P. descritti come fonti di vessazione dall’interlocutore (lo “tartassavano”) e poi R. autore di repliche perentorie e/o di attentati.

In più, alla carenza di motivazione si accompagna una manifesta illogicità della argomentazione con quale la Corte territoriale ha sostenuto che l’attentato alla villa di (omissis) non avrebbe avuto la capacità di mutare l’atteggiamento psicologico di D. perchè doveva intendersi solo come prassi della consorteria mafiosa, volta a non far allentare la tensione con la propria vittima onde evitare che questa cessasse di pagare il prezzo delle estorsioni (v. retro, pag. 24).

E’ infatti evidente che se – come appare- un simile ragionamento ponesse come vittima da “tenere sulla corda”, oltre che B., anche D. (essendo colui che, secondo il racconto dei collaboratori, appariva recalcitrante e scostante nei pagamenti), il costrutto dei giudici ne risulterebbe del tutto irrazionale quanto a conclusioni da trame: essi non spiegano cioè come una simile vittima potrebbe contemporaneamente essere considerata il concorrente esterno nella associazione mafiosa che quelle pressioni, anche contro di essa, andava esercitando.

6 A. Tutte le considerazioni fin qui formulate, che costituiranno altrettanti punti sui quali il vizio di motivazione dovrà essere emendato, poggiano invero sulla nozione di dolo del concorrente esterno in associazione per delinquere e poi mafiosa, chiarita come segue, tenendo conto dei rilievi della difesa articolati nel settimo motivo di ricorso e nel correlato motivo aggiunto (invece il sesto, sul nesso di causalità, avuto riguardo anche ai limiti di considerazione, da parte della più recente giurisprudenza, del ragionamento sullo stato di “fibrillazione”, è stato già sopra diffusamente affrontato nella disamina della condotta di D. risalente agli anni 1974-1977).

E’ indubbio che al riguardo si debba prendere le mosse dai più recenti approdi della giurisprudenza di legittimità a Sezioni unite – quelli della sentenza del 2005- del tutto condivisibili perchè in linea col dettato normativo e mai messi in discussione dalla giurisprudenza successiva.

Ha sostenuto il supremo Collegio- e la sentenza impugnata costituisce un esempio di applicazione, in linea di principio, dell’assunto in questione- che, ai fini della configurabilità del concorso esterno, occorre che il dolo investa sia il fatto tipico oggetto della previsione incriminatrice, sia il contributo causale recato dalla condotta dell’agente alla conservazione o al rafforzamento dell’associazione, agendo il soggetto, nella consapevolezza e volontà di recare un contributo alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso del sodalizio. La Corte, ancora a Sezioni unite, ha precisato che deve escludersi la sufficienza del dolo eventuale, inteso come mera accettazione da parte del concorrente esterno del rischio di verificazione dell’evento, ritenuto solamente probabile o possibile insieme ad altri risultati intenzionalmente perseguiti (Rv. 231672).

Le Sezioni unite hanno rimarcato in motivazione che, così descritto il dolo del reato in esame, il compito del giudice non è certamente quello di indirizzare il proprio accertamento – che risulterebbe invece del tutto inlnfluente- sul fatto che l’agente abbia condiviso oppure avversato o sia risultato disinteressato o indifferente per i metodi e fini della associazione cui concorre, e cioè sulle motivazioni che lo hanno mosso nel foro interno.

Non rileva (anche se può interessare sul piano della tenuta probatoria dell’intera tesi accusatoria) accertare perchè l’agente abbia agito nel modo ritenuto rilevante ex artt. 110 e 416 o 416 bis c.p., mentre è sufficiente e decisivo dimostrare, con ragionamento completo e logico, quello che le Sezioni unite hanno definito il “doppio coefficiente psicologico”, ossia quello che deve investire, perche possa dirsi sussistente il reato, il comportamento dell’agente e la natura di esso come contributo causale al rafforzamento della associazione; in terzo luogo è richiesta la prova della coscienza e volontà che l’apporto risulti diretto alla realizzazione del programma criminoso del sodalizio: una prova, quest’ultima, che non risulta, nella assoluta maggioranza delle sentenze di legittimità, attribuita esplicitamente alla area del “dolo specifico” e che la generalità degli approdi ha fatto rientrare, come le precedenti, nell’ambito del dolo diretto, nel senso della coscienza e volontà, che l’agente deve avere, di dare il proprio contributo al conseguimento degli scopi dell’associazione, tramite il rapporto col soggetto qualificato (in tal senso v., SSUU 2002, sent. n. 22327; Rv. 219244).

Ciò posto, appare subito evidente che non può esservi spazio per la figura del “dolo eventuale”, esplicitamente esclusa nella sentenza delle SS.UU. del 2005-come esattamente sottolineato anche dalla difesa e dal Procuratore Generale-così però come deve negarsi spazio alla figura del “dolo intenzionale”, evocata dal Procuratore Generale nella requisitoria orale ed invece attinente a figure di reato come l’abuso di ufficio ove il legislatore, facendo ricorso all’avverbio “intenzionalmente” ha espresso la necessità che l’evento del reato sia oggetto di rappresentazione e volizione come conseguenza diretta e immediata della condotta dell’agente e obiettivo primario da costui perseguito. Una sintesi ancora oggi valida della nozione di dolo fin qui evocata si rinviene nella sentenza delle SS.UU. del 12 ottobre 1993, n. 748, secondo cui possono individuarsi vari livelli crescenti di intensità della volontà dolosa. Nel caso di azione posta in essere con “accettazione del rischio” dell’evento, si richiede all’autore una adesione di volontà, maggiore o minore, a seconda che egli consideri maggiore o minore la probabilità di verificazione dell’evento. Nei caso di evento ritenuto altamente probabile o certo, l’autore, invece, non si limita ad accettarne il rischio, ma “accetta l’evento” stesso, cioè lo vuole e con una intensità maggiore di quelle precedenti. Se l’evento, oltre che accettato, è perseguito, la volontà si colloca in un ulteriore livello di gravità, e può distinguersi fra un evento voluto come mezzo necessario per raggiungere uno scopo finale, ed un evento perseguito come scopo finale. Il dolo va, poi, qualificato come “eventuale” solo nel caso di accettazione del rischio, mentre negli altri casi suindicati va qualificato come “diretto” e, nell’ipotesi in cui l’evento è perseguito come scopo finale, come “intenzionale”. Con riferimento al concorso esterno del quale ci si occupa, dunque, è stato sostenuto anche nella sentenza delle SS.UU. del 2005 alla quale quella impugnata si è più volte richiamata, che la mera accettazione, da parte del concorrente esterno, del rischio di verificazione dell’evento (rafforzamento del sodalizio, connotato dal suo programma delinquenziale)- ritenuto probabile o possibile, non basta a configurare il reato. Occorre, prosegue il massimo Collegio, che la realizzazione del fatto tipico mediante l’evento di rafforzamento o conservazione sia rappresentata e voluta dal concorrente esterno, nel senso che egli abbia “accettato e perseguito” il detto obiettivo, anche a prescindere dagli ulteriori scopi avuti di mira.

Una simile chiarificazione rende evidente, in primo luogo, che l’uso, in sentenza, del vocabolo “accettato”, con riferimento all’atteggiamento psicologico dell’imputato ed ai fini che lo hanno mosso, non è di per sè affatto dimostrativo del ricorso alla figura del dolo eventuale, diversamente da quanto sostenuto dalla difesa.

Deve poi anche notarsi che la nozione di dolo diretto è quella conferente al caso di specie nel quale l’evento-rafforzamento può non avere rappresentato l’obiettivo unico o primario della condotta dell’imputato, ma questi lo ha previsto, lo ha accettato e lo ha perseguito come risultato non solo possibile o probabile ma addirittura certo o comunque “altamente probabile” di quella condotta.

In tal senso si sono già espresse Sez. 1, Sentenza n. 12954 del 29/01/2008 Ud. (dep. 27/03/2008) Rv. 240275; Sez. 1, Sentenza n. 13544 del 20/11/1998 Ud. (dep. 22/12/1998) Rv. 212058; Sez. 6, Sentenza n. 1367 dei 26/10/2006 Ud. (dep. 19/01/2007) Rv. 235789. E deve vedersi anche la sentenza delle SSUU, n. 3571 del 14/02/1996 Ud. (dep. 12/04/1996) Rv. 204167, ove si pone, ancora un volta, il discrimine tra dolo eventuale e dolo diretto in quello che è l’oggetto della accettazione da parte dell’agente: se è il rischio ossia la possibilità del verificarsi di un evento criminoso oltre a quello perseguito, si configura il dolo eventuale; se è un evento ulteriore ritenuto probabile, si configura il dolo diretto perchè con la accettazione dell’evento rimane integrata anche la prova che quello sia stato voluto.

Tanto premesso, deve darsi atto che la consapevolezza e volontà del fine perseguito dall’imputato -più volte dalla Corte territoriale indicato e motivato come fine di conservazione proprio del sodalizio mafioso, con particolare riferimento all’acquisizione di nuove e proficue relazioni patrimoniali-è stata dai giudici illustrata nelle forme proprie del dolo diretto, ossia come rappresentazione e accettazione della elevata probabilità di realizzazione dell’evento criminoso: in linea cioè con i criteri fissati dalla giurisprudenza anche a Sezioni unite, per l’individuazione del dolo diretto, in contrapposizione al dolo eventuale: un dolo, il primo, che, vai la pena ricordarlo ancora una volta, non verrebbe escluso dal fatto che l’imputato abbia agito, nella prima fase della attuazione della condotta che gli si ascrive, e cioè fino al 1978, mosso contemporaneamente dalla volontà di risolvere il problema di sicurezza personale che affliggeva B..

Un genere di dolo che, in più, appare connotato, con riferimento al medesimo periodo temporale, dalla consapevolezza e volontà che la condotta in questione si sarebbe posta nella linea del perseguimento dei fini ultimi della associazione criminale, come la Corte ha dimostrato e motivato citando le circostanze dei significativi incontri tra D. e soggetti di vertice di quel sodalizio.

In tale prospettiva è stato rievocato il comprovato incontro- già sopra menzionato – avvenuto tra il 1975 e il 1976 al ristorante ” (omissis)” tra l’imputato che accompagnava M., il quale lo aveva presentato come suo “principale”, e c. A. che stava – per sua ammissione – accompagnando a (omissis) il proprio fratello, uomo di vertice della c.d. “regione”, organismo direttivo di cosa nostra: un incontro che la Corte ha- con motivazione del tutto logica- ritenuto sintomatico della considerazione della figura di D., all’interno di cosa nostra, come soggetto affidabile e tale da poter essere coinvolto in relazioni estremamente riservate del sodalizio, perchè riguardanti personaggi come M. (in quel periodo affiliato al sodalizio anche formalmente) e i c. che, come accertato dalla Corte, si trovavano a (omissis) in un periodo in cui era attiva, anche sul posto, una guerra di mafia.

La sentenza impugnata ha anche menzionato, nella medesima prospettiva, la partecipazione di D. ad una cena con Bo.St., nella villa di questi, in una data collocabile attorno al 1977, evento parimenti considerato indicativo della qualità dei rapporti – non assimilabili a quelli di una vittima – da questi intrattenuto con i vertici di cosa nostra.

Invero, non si vuole con tale considerazione contrastare l’assunto, condiviso in giurisprudenza e ribadito nella sentenza delle SS.UU. del 2005, secondo cui le frequentazioni e le vicinanze con soggetti mafiosi non costituiscono esse stesse prova e non integrano da sole il concorso esterno.

Il fatto è però che la vicinanza o la frequentazione di mafiosi ben possono costituire elementi capaci di “colorire” prove di altro spessore, acquisite in ordine al thema probandum. Prove che, nella specie, sono state primariamente indicate nei fatti fondamentali della promozione dell’incontro di Milano nel 1974 con i capi mafiosi, nel raggiungimento in quella sede dell’accordo per la protezione della famiglia di B. e nella dazione, da parte di costui, per il tramite di D., di cospicue somme di danaro versate per alcuni anni e fatte pervenire al sodalizio mafioso cosa nostra.

Una sequela di comportamenti e di eventi perseguiti- quella appena descritta – che appare già ampiamente dimostrativa, sul piano logico, anche del fatto che il ricorrente avesse accettato di risultare aderente al fine perseguito dal sodalizio, il quale traeva il vantaggio patrimoniale finale dall’intera operazione. Una sequela di comportamenti che, in più, è stata giudicata dalla Corte territoriale ulteriormente avvalorabile attraverso la considerazione delle cene delle quali si è detto, certamente non occasionali o casuali, ma espressione di un intraneità e continuità di relazioni rapportabile, anche finalisticamente, al genere di quella contestata nel capo di imputazione interessato. E a fronte di una ricostruzione così ampia e logica, le osservazioni della difesa riguardo alle emergenze probatorie che starebbero a delineare una posizione del D. assimilabile a quella di una vittima che è costretta a subire, presenta connotati ai limiti della inammissibilità, risolvendosi in una lettura alternativa dei risultati di prova, contrapposta a quella accreditata dai giudici del merito.

Non può dirsi, infatti, rappresentata dalla difesa e trascurata in appello, una diversa ricostruzione dei fatti, basata su prove in sè inequivoche, capaci di andare ad integrare la ipotesi del ragionevole dubbio, mentre può e deve affermarsi che la doglianza della difesa viene proposta a questa Corte, direttamente nella forma – come detto inammissibile- della plausibilità della ricostruzione alternativa.

6 B. Tanto premesso, deve a questo punto darsi atto, riprendo quanto sopra anticipato a proposito della manifesta illogicità e della incompletezza rilevate a carico di una parte della motivazione, che il dolo del reato in esame, così come apprezzato in relazione ai comportamenti dell’imputato fino agli inizi del 1978,non ha formato oggetto di una disamina ugualmente convalidabile per il periodo successivo.

In ordine al quadriennio o quinquennio seguito all’allontanamento di D. dall’area imprenditoriale berlusconiana, si è rilevata addirittura una carenza di motivazione riguardo all’elemento oggettivo che, solo se superabile, renderebbe rilevante e da emendare anche la carenza dei requisiti ulteriori del reato.

Per il periodo che poi è decorso dal ritorno di D. a Publitalia, invece, i numerosi elementi problematici evidenziati retro a pag. 129 e 130 e concernenti essenzialmente i comportamenti riluttanti di D. verso cosa nostra nonchè gli attentati realizzati ai danni di beni privati e inerenti alla attività imprenditoriale di B., richiedono una valutazione e una motivazione non solo parcellizzate ma anche – salvo un apposito e rinnovato ragionamento dimostrativo del contrario – unitarie e complessive: tali cioè da dare il senso compiuto, sul piano argomentativo, di elementi probatori e normativi apparentemente contrapposti. Da un lato, cioè, la registrazione di una condotta, da parte di D., che si risolve, oggettivamente, in un arricchimento di cosa nostra ma che, negli anni ’80 appare divenuta riottosa e recalcitrante, oltre che punteggiata da recriminazioni e atteggiamenti ostruzionistici nei riguardi degli esponenti o emittenti del sodalizio e per giunta in un contrappunto alquanto equivoco con gli attentati anche dinamitardi dalla evidente carica intimidatoria. Dall’altro lato, il rigore della prova del dolo diretto che non ammette presunzioni e che richiederebbe che, anche in ordine ai comportamenti appena rievocati, potesse darsi una spiegazione compatibile e in linea con la tesi dell’avere D. accettato e perseguito l’evento del rafforzamento del sodalizio mafioso, recando un contributo alla realizzazione del programma comune.

E’ infatti evidente che se la prova di tale finalizzazione può essere ed è, in genere, di carattere essenzialmente logico, non per questo essa può essere inferiore allo standard richiesto per superare il ragionevole dubbio e ancor meno può essere ritenuta acquisita negando o misconoscendo – come si evince dalla sentenza impugnata e come sopra si è sottolineato- la valenza di emergenze che si connotano, all’apparenza, come segni del contrario e cioè di una possibile caduta della precedente unitarietà di intenti. Di quei comportamenti si richiede una nuova giustificazione probatoria ad opera del giudice del rinvio, apparendo insufficiente il ragionamento effettuato nella sentenza impugnata che, anzichè motivare sulle cause di certe “prese di distanza” da parte di Dell’lltri nei confronti di cosa nostra, anche in costanza degli attentati, si sofferma sulle conseguenze delle prime e dei secondi e sulla asserita significatività della ripresa di contatti tra le parti, “nonostante” quegli eventi.

Per converso, deve anche darsi atto che la effettività di eventi e comportamenti del genere appena descritto, risalenti però agli anni ’80, non potrebbe valere, come pure il difensore e il Procuratore Generale hanno auspicato, a svilire la giustificazione probatoria del comportamento tenuto in antecedenza, giustificazione che ha riguardato un arco di tempo apprezzabile e che, per la natura permanente del reato in discussione, rimarrebbe completa e razionale anche se dovesse andare incontro ad una (ulteriore) delimitazione cronologica o all’accertamento di una interruzione seguita da ripresa.

7. I motivi sub H) e I) debbono ritenersi assorbiti.

8. Il motivo sub L), attinente al metodo di computo della prescrizione del reato, è stato di fatto oggetto di analisi nella precedente parte di questa sentenza.

Deve qui solo precisarsi ulteriormente che, allo stato, non possono dirsi fondate e decisive le doglianze con le quali la difesa ha sostenuto che, qualunque sarebbe stata la valutazione dei motivi sul merito, il reato è già prescritto anche allo stato attuale dei fatti accertati. La denuncia di mancata applicazione della prescrizione poggia infatti sul rilievo che le prove acquisite riguardo ai presunti pagamenti effettuati da Fininvest in favore della mafia, per il tramite del ricorrente, riguarderebbero un periodo non protrattosi oltre il 1986.

La difesa trascura però del tutto di confrontarsi criticamente con l’accertamento illustrato a pagina 308 e seguenti della sentenza e relativo al fatto che i pagamenti di Fininvest in favore della mafia sono stati ritenuti dai giudici, sulla base delle dichiarazioni del collaborante F. – la cui credibilità sul tema è stata adeguatamente analizzata-, protratti con cadenza semestrale o annuale, fino a tutto il 1992.

E’ dunque a tale data- e, oggi, deve dirsi, per la ipotesi che in sede di rinvio sia possibile motivare sulla sussistenza del dolo del reato- che la sentenza impugnata ha ancorato la data di decorrenza della prescrizione. E’ infatti da ricordare la natura permanente del reato de quo che è quella che è stata invocata dalla stessa difesa a sostegno della tesi,accolta dalla Corte, per cui allorchè sia stato contestato il delitto di associazione per delinquere, proseguito, anche dopo l’entrata in vigore della L. n. 646 del 1982 – introduttiva del delitto di associazione di tipo mafioso, nella forma più grave della previsione sopravvenuta – non si è in presenza di un concorso di reati in continuazione, ma di un unico reato permanente, la cui disciplina ricade interamente sotto il vigore della più recente disposizione (Rv. 248461). E7 comunque da ritenere condivisibile la tesi secondo cui la cessazione della permanenza non potrebbe che ancorarsi al momento in cui il concorrente abbia perso il potere e la capacità di far cessare gli effetti pregiudizievoli del proprio comportamento antigiuridico il quale, però, deve ritenersi abbia visto il momento di inizio della rilevanza causale nella data del raggiungimento dell’accordo o della rinnovazione dell’accordo col quale ha prodotto un rafforzamento della mafia.

Il patto, cioè, diversamente da quanto sostenuto dalla difesa, non è il fatto indicativo della consumazione di un reato istantaneo, ma un evento dotato di rilevanza causale per la vitalità del sodalizio.

I suoi effetti antigiuridici hanno conservato efficacia permanente, visualizzabile in particolare nei successivi momenti di realizzazione dei pagamenti che, come detto, i giudici del merito hanno ritenuto procrastinati (deposizione F.) fino a tutto il 1992. E tali pagamenti non sono affatto indifferenti ai fini della fissazione della consumazione del reato, come rilevato dalle Sezioni unite proprio nella sentenza ***** del 2010, citata dalla difesa: una decisione che ha rimarcato il principio secondo cui il delitto di corruzione si perfeziona alternativamente con l’accettazione della promessa ovvero con la dazione -ricezione dell’utilità, e tuttavia, ove alla promessa faccia seguito la dazione -ricezione, è solo in tale ultimo momento che, approfondendosi l’offesa tipica, il reato viene a consumazione. (Sez. U, Sentenza n. 15208 del 25/02/2010 Ud. (dep. 21/04/2010) Rv. 246583).

In conclusione il giudice del rinvio dovrà nuovamente esaminare e motivare, con percorso argomentativo diverso da quello contenuto nella parte di motivazione censurata, se il concorso esterno contestato sia oggettivamente e soggettivamente configurabile, a carico del ricorrente, anche nel periodo di assenza dell’imputato dall’area imprenditoriale Fininvest e società collegate (periodo intercorso, secondo la sentenza impugnata, tra il 1978 e il 1982); se il reato contestato sia configurabile, sotto il profilo soggettivo, anche nel periodo successivo a quello appena indicato.

In base alla soluzione che riterrà di adottare sui punti sopra indicati, il giudice del rinvio dovrà, eventualmente, assumere le conseguenti determinazioni sulla causa estintiva operante in riferimento al reato che non è oggetto di rinvio sull’”an”, ai sensi dell’art. 129 c.p.p., comma 1.

Il ricorso del Procuratore Generale della Corte di appello è invece inammissibile.

1. Esaminando le sue censure nell’ordine sopra ricordato, si osserva che la prima è inammissibile perchè con essa si sollecita, nella sostanza, una diversa valutazione del risultato di prova. La Corte d’appello ha già evidenziato, infatti, che le dichiarazioni di G. sulla protrazione delle date dei pagamenti fino al 1995- dichiarazioni che oggi il ricorrente chiede tout-court di rivalutare e che dovrebbero costituire l’asse portante della censura-, sono prive di riscontri obiettivi.

2.La seconda censura è manifestamente infondata: il ricorrente sembra dedurre (peraltro senza un costrutto della censura, nell’ottica dell’art. 606 c.p.p., lett. e), dato che non allude a travisamento della prova nè a manifesta illogicità) il vizio di motivazione derivante dal fatto che la Corte d’appello avrebbe trascurato il movente politico degli attentati alla (omissis), invece accertato nella sentenza catanese che ha giudicato quei fatti. Il ragionamento contenuto nella sentenza impugnata è invece diverso e non esposto a censure sulla motivazione.

Nella sentenza in esame (a pag. 354), infatti, si da atto della tesi dell’accusa (vedi retro pagina 37) circa il fine politico degli attentati alla (omissis) compiuti da S., tesi fondata anche sulle affermazioni di Si., e si sostiene anche che ha trovato dimostrazione la volontà dei mafiosi palermitani, a partire dalla metà degli anni ’80, di avvicinare anche l’onorevole Cr.. Tuttavia la stessa corte ha anche ritenuto l’indicazione di una simile finalità estremamente imprecisa, ricordando che secondo le dichiarazioni di Si., Br. incitava S. nel 1991 ad azioni intimidatorie contro B. e che R. avviò la stagione stragista tra il 1992 e il 1993, segno di assenza di contatti politici.

Non si è in presenza dunque di una motivazione manifestamente illogica o errata su un punto decisivo ma di una valutazione completa e plausibile, la quale oltretutto non ha influenzato e non è stata la causa della negativa valutazione dei collaboratori che hanno parlato dell’argomento ma è stata il suggello della analisi delle complesse ed articolate ragioni, tutte illustrate in sentenza, che hanno portato la corte a ritenere le propalazioni dei collaboratori sull’argomento del tutto inattendibili se non addirittura false in ragione sia di sospette progressioni accusatone che di sconfessioni derivanti dalle ricostruzioni cronologica dei fatti narrati.

D’altra parte l’apprezzamento della finalità politica perseguita dai mafiosi attraverso gli attentati in questione non avrebbe comunque potuto condizionare la valutazione delle emergenze probatorie che avrebbero dovuto riguardare le iniziative assunte in ipotesi da D., la cui ricerca di un componimento con la mafia è stato escluso nella sentenza in esame sulla base dell’oggetto dell’accertamento catanese come riportato, nel senso cioè che è mancata la prova sia del pagamento di un “pizzo” sia di trattative avviate nell’interesse della parte offesa.

Infine la motivazione della inattendibilità di ga. è plausibile e completa perchè fa riferimento a un dato obiettivo e cioè alla circostanza che questi non poteva aver appreso dai terzi menzionati in sentenza le notizie sui movimenti di D. a proposito degli attentati posto che la conoscenza di quei “terzi” era stata successiva ad essi.

Il ricorrente ha poi richiesto il riconoscimento, che sarebbe del tutto congetturale, di presunte intromissioni di D.A. nella vicenda. Chiedere di rovesciare il ragionamento della Corte territoriale e pretendere che questa valuti le dichiarazioni dei collaboratori sulla base di una finalità riferibile agli attentati Standa, rimasta in parte incerta secondo la motivata argomentazione della Corte d’appello, si traduce in una censura, oltre che di natura fattuale, comunque non rispettosa dei principi in tema di valutazione indiziaria espressi dalla sentenza delle sezioni unite *******.

Secondo tale decisione, in tema di valutazione della prova indiziaria, il metodo di lettura unitaria e complessiva dell’intero compendio probatorio non si esaurisce in una mera sommatoria degli indizi e non può perciò prescindere dalla operazione propedeutica che consiste nel valutare ogni prova indiziaria singolarmente, ciascuna nella propria valenza qualitativa e nel grado di precisione e gravità, per poi valorizzarla, ove ne ricorrano i presupposti, in una prospettiva globale e unitaria, tendente a pome in luce i collegamenti e la confluenza in un medesimo contesto dimostrativo (Sez. U, Sentenza n. 33748 del 12/07/2005 Ud. (dep. 20/09/2005) Rv. 231678).

3.La terza doglianza è inammissibile in quanto, in primo luogo, il motivo non è specifico in ordine alle ragioni in fatto che avrebbero dovuto sostenere la doglianza.

E tale doglianza avrebbe dovuto prendere le mosse dal rilievo che, in linea di principio, la ricerca della prova del patto politico mafioso era richiesta al giudice del merito in termini di assoluta precisione e concretezza, secondo lo statuto probatorio indicato nella sentenza delle sezioni unite *******: in base ad essa, il concorso esterno nel reato di associazione di tipo mafioso è configurabile – si- anche nell’ipotesi del “patto di scambio politico-mafioso”, in forza del quale un uomo politico, non partecipe del sodalizio criminale (dunque non inserito stabilmente nel relativo tessuto organizzativo e privo delP”affectio societatis”) si impegna, a fronte dell’appoggio richiesto all’associazione mafiosa in vista di una competizione elettorale, a favorire gli interessi del gruppo. Per la integrazione del reato è necessario, però – tra l’altro- che gli impegni assunti dal politico a favore dell’associazione mafiosa presentino il carattere della serietà e della concretezza, in ragione della affidabilità e della caratura dei protagonisti dell’accordo, dei caratteri strutturali del sodalizio criminoso, del contesto storico di riferimento e della specificità dei contenuti (Sez. U, Sentenza n. 33748 del 12/07/2005 Ud. (dep. 20/09/2005) Rv. 231673) sicchè non sarebbe bastato, come invece richiesto dal ricorrente inseguire -sul piano della prova – l’insorgere di “favorevoli contingenze, determinate dal futuro assetto politico complessivo, non precisabili al momento della promessa, e volte a sollecitare l’attuazione delle consuete provvidenze legislative da cosa nostra”. 4. La quarta doglianza è manifestamente infondata. Il ricorrente ripropone la tesi dell’avere, il ca., riferito meno di quello che sapeva a proposito del coinvolgimento di D. nel tentare di dare rilievo agli esponenti di Sicilia Libera all’interno del costituendo partito di Forza Italia.

Si tratta però di una doglianza, in sè, inapprezzabile perchè ripropone una questione alla quale la sentenza ha già fornito risposta plausibile (vedi retro, pagina 42 e pagine 391 e seguenti della sentenza impugnata), condividendo le identiche motivazioni sul punto rese anche dal giudice di primo grado e rilevando come, anche a dubitare della complessiva attendibilità delle dichiarazioni riduttive di ca., resta il fatto che non può invocarsi la sua testimonianza come prova (inesistente) del coinvolgimento di D. nelle attività politiche di interesse della mafia nel ’93- ’94.

La Corte ha esaminato anche le dichiarazioni di Ca., autista di Ba., a proposito del coinvolgimento di M. nel sostenere le iniziative di ca. per la nascita del nuovo movimento politico favorevole alla mafia, ma ha evidenziato che tale dichiarante ha parlato della sospensione della condanna a morte del M., per tale fine, nel 1994 quando cioè le elezioni erano già avvenute e quindi in epoca che non aveva direttamente a che vedere con la tesi del patto politico mafioso che, secondo l’accusa, sarebbe stato finalizzato alle elezioni del marzo ’94. 5. La quinta doglianza è inammissibile: essa è formulata senza rispetto del disposto dell’art. 581 c.p.p. che richiede l’indicazione specifica delle ragioni in fatto e in diritto a sostegno della critica, oltre che la puntualizzazione dell’oggetto dell’impugnativa, ossia, deve intendersi, dei passaggi della motivazione che si ritengano affetti da vizi.

Il ricorrente critica le ritenute discordanze fra le dichiarazioni di G. e Cu. senza menzionare il tema specifico al quale queste dichiarazioni afferirebbero ed anzi riferendosi, senza altre coordinate, all’”incontro di cui si parla” (pagina 27 motivi di ricorso).

Non specifica neppure la rilevanza della collocazione di questo presunto incontro nella seconda metà del 1994 ai fini della critica alla ritenuta non conformità delle dichiarazioni di G. e di Cu., ma soprattutto chiede -ancora una volta inammissibilmente- che vengano accreditate dalla Corte di cassazione delle congetture sulla ragione per la quale la detta discrasia sulla ricostruzione cronologica, si sarebbe verificata (“…può, invece, razionalmente sostenersi che l’aggancio c’era stato ma era ignorato da Cu.”, così testualmente pag. 28 primo capoverso).

In sostanza il motivo in questione affida la conoscenza delle ragioni in fatto sulle quali si fonda, alla lettura, da parte della Cassazione, della intera parte della complessa sentenza- di centinaia di pagine- che sarebbe interessata, lasciando al giudice della legittimità il compito di individuare autonomamente i punti critici della complessiva motivazione sul tema evocato e limitandosi a considerazioni chiaramente sollecitatorie di una alternativa ricostruzione della vicenda, piuttosto che indicative di un espresso vizio il quale, a sua volta, avrebbe dovuto riguardare o la mancanza di motivazione o una specifica illogicità a carattere “manifesto”. 6.La sesta doglianza è inammissibile anche per manifesta infondatezza. La prima parte della censura è inammissibile perchè con essa il ricorrente prospetta alla Corte una ricostruzione del risultato di prova alternativa a quella plausibilmente accreditata dal giudice del merito. Questi, invero, ha argomentato circa il fatto che le due annotazioni di possibili contatti che il M. aveva cercato presso il D. nel 93 non costituivano la prova della effettività degli incontri stessi, in mancanza di altri elementi di riscontro. Il procuratore generale oppone a tale logica considerazione l’opinione del tutto congetturale e indimostrabile che gli incontri o quantomeno un incontro potrebbe essere realmente avvenuto, non essendo stato provato il contrario. Si tratta, com’è evidente, non solo della prospettazione di un’opzione interpretativa alternativa ma, quel che più conta, della rappresentazione di una illogicità dell’argomentare del giudice fondata non su massime di esperienza, ma su una ipotesi che avrebbe potuto lasciare il passo – e lo ha fatto- ad altre legittime ipotesi di segno contrario: una doglianza, in altri termini, che non può trovare ingresso della sede del controllo di legittimità.

La mancata riassunzione di Cu. oppure in alternativa la mancata acquisizione della memoria nella quale si descrivevano le sue dichiarazioni e, altresì, la mancata ammissione del teste ci., d’altra parte, risultano il frutto di decisioni correttamente e legittimamente motivate dalla Corte di merito.

La Corte ha rilevato che le dichiarazioni di Cu. sulla genesi dei viaggi di M. a (omissis) alla fine del 1994 erano risultati palesemente errati quanto ai riferimenti cronologici che lo stesso aveva utilizzato nella ricostruzione. Quel racconto era risultato inoltre ontologicamente diverso dal resoconto fatto dal collaboratore G. a proposito delle confidenze a lui fatte sul tema da Co.. E diverso altresì, quest’ultimo, dal racconto di L. M. il quale aveva parlato di un incontro preventivo di M. con ambienti milanesi, prima delle elezioni del marzo 1994: una differenza di ricostruzione che non è solo di tipo cronologico ma attiene al significato stesso dell’incontro che, se antecedente una competizione elettorale (come ritenuto dal Tribunale), può assumere il significato della ricerca di un patto sulle elezioni mentre invece, se successivo (come ritenuto dal PG), scade necessariamente al livello di un tentativo di pressione, sganciato, in assenza di altri elementi certi, dalla promessa di aiuto per la affermazione alle elezioni da parte della formazione politica di riferimento per D..

In terzo luogo la corte ha evidenziato che neppure la ricostruzione accreditata dal tribunale – secondo cui l’incontro (omissis) avrebbe potuto collocarsi nel dicembre 1993 – poteva essere condivisa per la ragione che all’epoca era assolutamente prematura, dato lo scenario politico esistente- per giunta ad elezioni ancora da espletare-, l’eventualità di un patto politico-mafioso del genere di quello indicato dall’accusa.

Oltre a ciò la Corte ha posto in evidenza- in maniera plausibile e logica- che anche a collocare l’incontro di M. con D. nel dicembre 1994 – secondo la tesi dell’accusa – non aveva senso l’ipotesi della stessa accusa che potessero essere fatte promesse politiche alla mafia in epoca di turbolenze che di lì a pochi giorni portarono alla caduta del governo.

La Corte ha evidenziato infine che il racconto del G. e del Cu. conteneva riferimenti ai soli tentativi degli interessamenti sollecitati presso D., per giunta dopo la vittoria di Forza Italia alle elezioni del 1994 e non in vista della competizione elettorale e non menzionava il raggiungimento di risultati concreti.

Rispetto a tale costrutto, appare ineccepibile la decisione di rigettare la richiesta di assumere nuovamente Cu., non essendovi motivi atti a far ritenere decisive eventuali sue propalazioni sul tema degli interventi legislativi: un tema che la Procura generale riteneva di poter introdurre, infatti, non sulla base di diverse dichiarazioni di Cu. (il quale, come ricordato in sentenza pagina 440, aveva già chiaramente affermato in dibattimento di non essere a conoscenza di alcun concreto risultato degli incontri fra D. e M.) ma della esistenza di lavori preparatori di un testo normativo sicuramente ritenuto foriero, in diverse sedi, di un abbassamento delle difese dell’ordinamento rispetto al pericolo rappresentato da gravi reati.

Un testo normativo, peraltro, che sotto nessun profilo poteva porsi come prova nuova, oppure come prova decisiva, nell’ottica dei presupposti- assolutamente residuali ed eccezionali- previsti per la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in appello.

E ciò a tacere del rilievo procedurale ineccepibile formulato dal giudice dell’appello ed ignorato dal PG nel suo ricorso: l’essere stata, cioè, la richiesta di rinnovazione istruttoria relativa a .******* e.a.d.s.l.a.

t.e.c.n.n.d.a.e.t.n.m.

p.a.n.d.5.c.c.4.

O.l.g.c.l.n.p.d.c.r.

p.c.d.m.a.d.u.p.a.

d.q.d.p.n.s.s.d.t.

s.l.d.v.i.m.N.c.d.r.

t.i.g.n.h.n.l.d.d.s.d.

o.a.e.l.d.u.p.s.p.n.s.

n.c.m.d.r.e.a.6.c.l.d.m.n. d.n.a.n.o.v.d.c.d.m.

d.s.(.3.S.n.1.d.2.U.).

0.R.1.

Q.i.a.m.a.d. c., prova nuova secondo la prospettazione dell’accusa, la Corte ha dato atto a pagina 500 della sentenza, della manifesta superfluità e irrilevanza delle relative dichiarazioni che si prospettavano comunque prive di qualsiasi riferimento al ricorrente.

7. La settima doglianza è inammissibile. Il ricorrente censura la ricostruzione della Corte, operata sulla base di un ragionamento plausibile e rispondente ai criteri della logica e della razionalità, non ulteriormente sindacabile, dunque, dalla Cassazione.

Il ragionamento, formulato sulla base delle negative dichiarazioni di D. a proposito di un interessamento di D. per il provino cui voleva far sottoporre il figlio, nonchè su una ricostruzione delle dichiarazioni dei tecnici del Milan che riporta la situazione di tale provino ad epoca (1992) antecedente a quella della presenza di D. in (omissis) assieme ai G., viene criticato dal ricorrente sulla base di considerazioni del tutto soggettive ed opinabili che non riescono a dare corpo al vizio di manifesta illogicità della motivazione o di incompletezza della stessa, alla luce di prove decisive: i soli vizi per i quali è consentito sollecitare il controllo di legalità della Cassazione.

Inammissibile, in tale prospettiva, è la richiesta del ricorrente di provocare, da parte della Cassazione, una scelta di campo sull’interpretazione da attribuire alle parole di un collaboratore di giustizia, sulla base per giunta delle dichiarazioni da quello rese nella fase delle indagini preliminari, in riferimento alle quali non sono chiarite e tantomeno indicate da parte del ricorrente, le ragioni legittimanti il relativo utilizzo processuale quali prova del relativo contenuto.

E’ appena il caso di notare che tale “impasse” non è superabile alla luce del fatto che il PG, nel suo ricorso, afferma a pag. 73 che le dichiarazioni di D. del 23 marzo 1996 sarebbero entrate nel processo perchè utilizzate per le contestazioni all’interrogatorio di D. del 1 luglio 1996, come sarebbe attestato a pag. 362 della sentenza impugnata. Infatti, alla citata pag. 362 è detto solamente che nel corso dell’interrogatorio di D., è stata usata, per contestazione, una affermazione fatta da D. nell’interrogatorio del 30 gennaio 1994 e relativa all’interessamento che Ba. avrebbe cercato presso D. per cercare un lavoro.

Inoltre, quand’anche la citazione degli interrogatori di D. fosse funzionale a delineare il vizio della contraddittorietà della motivazione rispetto ad un atto del processo ai sensi del nuovo testo dell’art. 606 c.p.p., lett. e), non potrebbe non notarsi che non è stato rispettato il costante insegnamento della giurisprudenza sulla autosufficienza del ricorso che deve recare, in allegato, o la copia integrale o la trascrizione integrale del contenuto dell’atto: e ciò, al fine di impedire che la deduzione del detto vizio – ravvisabile solo quando il giudice abbia completamente travisato il valore probatorio dell’atto, capace da solo di disarticolare l’intero ragionamento probatorio- non mascheri una diversa e inammissibile richiesta, rivolta alla Cassazione, di procedere ad una autonoma rivalutazione del risultato di prova, alternativa a quella già plausibilmente posta in essere dal giudice del merito.

Vi è comunque da notare che le dichiarazioni di D. nel corso delle indagini preliminari sono citate anche a pag.368 della sentenza, ancora una volta a causa del loro uso per le contestazioni a D. nel corso dell’interrogatorio del 1 luglio 1996 e sono state valutate dalla Corte territoriale come corrispondenti, per tenore, a quelle rese dallo stesso D. nel dibattimento, negative di interessamenti di G. presso D. e il Milan in favore del figlio.

Le censure del ricorrente, nella sostanza risoltesi nella riproposizione degli argomenti della requisitoria, si basano d’altra parte in maniera esplicita su canoni irricevibili come dimostrato dall’uso di espressioni quali “non appare convincente l’argomentare della corte” (pagina 75 dei motivi), “La logica impone di dare per certo che D. ……non potè che chiedere al G. di intervenire presso D. per sistemare la questione del figlio”(pagina 80), “è lecito dubitare dell’esattezza dei ricordi temporali di Z.” (pagina 76): espressioni chiaramente indicative della richiesta di un’alternativa di costruzione dei risultati di prova e non dell’argomentazione di una illogicità insanabile nel ragionamento della Corte o dell’aporta dello stesso in relazione una circostanza fondamentale.

E ciò senza considerare che il tema in questione sarebbe utile per dimostrare, non accordi di rilievo penale, ma relazioni di contiguità o di frequentazione in ipotesi poco commendevoli, tra l’imputato e soggetti gravitanti in ambienti mafiosi, come tali non idonei ad integrare la ipotesi delittuosa in contestazione.

Ha ricordato più volte questa Corte, infatti, invero nell’analogo tema della associazione di tipo mafioso, che la mera frequentazione di soggetti affiliati al sodalizio criminale per motivi di parentela, amicizia o rapporti d’affari, ovvero la presenza di occasionali o sporadici contatti in occasione di eventi pubblici e in contesti territoriali ristretti, non costituiscono elementi di per sè sintomatici da valutare ai sensi dell’art. 192 c.p.p., comma 3, quando risultino qualificati da abituale o significativa reiterazione e connotati dal necessario carattere individualizzante (Sez. 6, Sentenza n. 24469 del 05/05/2009 Ud. (dep. 12/06/2009) Rv. 244382).

E, in tale ottica, è indiscutibile pure che non risulti in alcun modo indicato come l’ipotetico favore fatto da D. ai fratelli G., nel gennaio 1994, relativamente alla questione di interesse calcistico, potrebbe costituire elemento di riscontro individualizzante dell’accusa principale, rappresentata dalla realizzazione di un patto politico che avrebbe dovuto riguardare le elezioni del marzo 1994, con esponenti mafiosi soggettivamente nemmeno coincidenti con quelli menzionati.

8. La ottava doglianza è manifestamente infondata. La esposizione del motivo di ricorso in questione- particolarmente farraginosa e fondata su una serie di dati riportati in maniera affastellata e senza un progredire ragionato- risulta effettuata con modalità che non rispettano ed anzi violano apertamente il disposto dell’art. 581 c.p.p., in tema di specificità del motivo di ricorso. Un simile rilievo, cui è connessa, dal codice, l’inammissibilità del motivo di gravame, deve essere effettuato sia con riferimento al precetto codicistico e alla costante interpretazione giurisprudenziale, sia in ragione dell’effetto prodotto dall’articolazione assolutamente non chiara della doglianza: l’effetto cioè dell’impossibilità, per il giudice del controllo di legittimità, di cogliere esattamente le ragioni della manifesta illogicità o della mancanza di motivazione con riferimento a punti specìfici della motivazione. Per tali ragioni non è consentito, dalla costante giurisprudenza, riproporre in Cassazione, tal quale, un motivo di censura rappresentato al giudice dell’appello, così come invece sembra dedursi dal fatto che l’impugnante abbia affidato una parte consistente delle sue critiche al pedissequo richiamo del contenuto della requisitoria scritta presentata alla Corte d’appello.

Della doglianza rappresentata al giudice del merito e, in ipotesi ingiustamente trascurata o rigettata, la parte ha l’onere di riprodurre il punto o i punti di specifico rilievo con riferimento alla motivazione che si ritiene inadeguata e ciò al fine di consentire al giudice di legittimità di individuare la esatta e puntuale delimitazione della critica, nell’ottica di una decisione mirata e dettagliata: alla quale non può invece pervenirsi se il ricorrente riproduce pedissequamente tutte le questioni di merito che erano state sottoposte al giudice dell’appello, in un’ottica completamente diversa.

Tutti i rilievi fin qui formulati, che valgono a collocare il motivo di gravame su una soglia assolutamente prossima all’inammissibilità, si aggiungono all’inevitabile osservazione della manifesta infondatezza del motivo di ricorso nel merito, quale è possibile desumere nel tentativo di una sintesi, resa ardua dalla congerie di elementi di fatto rappresentati.

In particolare il ricorrente si duole della negativa valutazione resa dalla Corte sull’attendibilità intrinseca di Sp., in relazione al processo in esame. Ed è appena il caso di rilevare che il giudizio sulla credibilità del collaboratore di giustizia ha natura di accertamento in fatto che si sottrae al sindacato della Cassazione, se effettuato in base a un ragionamento logico e completo. E’ innegabile che la Corte abbia reso un tal genere di ragionamento a sostegno della propria conclusione, ponendo in evidenza in primo luogo il dato del lungo tempo lasciato ingiustificatamente e quindi sospettosamente trascorrere dal collaborante – che pure aveva parlato, nel corso di indagini preliminari, di D. e dei suoi rapporti con ambienti mafiosi – prima di riferire in ordine alla vicenda del bar (omissis) e quindi della presunta compromissione dell’imputato in un accordo raggiunto con ambienti mafiosi palermitani, per iniziative politiche ad essi favorevoli, da realizzare assieme a B.. In secondo luogo la Corte ha posto in evidenza la inadeguatezza della ricostruzione del colloquio avuto da Sp. con G. al bar (omissis), al fine di dimostrare che questi avesse inteso parlare di un accordo politico con D.: la frase di G. era stata infatti generica e il collegamento con il contenuto del precedente colloquio a (omissis) era risultato il frutto di un personale collegamento fatto da Sp..

In conclusione, nel rimandare a tutti gli argomenti utilizzati dalla Corte e riassuntivamente riportati retro a pagina 49 e seguenti, non si rileva alcuna manifesta illogicità del ragionamento espresso nella sentenza impugnata e segnatamente non si apprezza, come tale, la presunta erroneità e quindi la opinabilità dell’interpretazione della Corte così come denunciate dal Procuratore generale.

Prima ancora che per la tardività delle dichiarazioni infatti, le dichiarazioni di Sp. sono state giudicate dalla Corte estremamente approssimative e generiche come prova del tema specifico da dimostrare, essendosi fatto notare che la frase pronunciata da G.G. al bar (omissis) non era stata di per sè indicativa in maniera esplicita di un accordo: e non comunque, di un accordo capace di integrare la condotta penalmente rilevante in contestazione, dovendosi al riguardo avere a mente i parametri fissati dalla più recente giurisprudenza a Sezioni unite: secondo cui il concorso esterno nel reato di associazione di tipo mafioso è configurabile anche nell’ipotesi del “patto di scambio politico- mafioso”, in forza del quale un uomo politico, non partecipe del sodalizio criminale (dunque non inserito stabilmente nel relativo tessuto organizzativo e privo dell’”affectio societatis”) si impegna, a fronte dell’appoggio richiesto all’associazione mafiosa in vista di una competizione elettorale, a favorire gli interessi del gruppo. Per la integrazione del reato è necessario che: a) gli impegni assunti dal politico a favore dell’associazione mafiosa presentino il carattere della serietà e della concretezza, in ragione della affidabilità e della caratura dei protagonisti dell’accordo, dei caratteri strutturali del sodalizio criminoso, del contesto storico di riferimento e della specificità dei contenuti; b) all’esito della verifica probatoria “ex post” della loro efficacia causale risulti accertato, sulla base di massime di esperienza dotate di empirica plausibilità, che gli impegni assunti dal politico abbiano inciso effettivamente e significativamente, di per sè ed a prescindere da successive ed eventuali condotte esecutive dell’accordo, sulla conservazione o sul rafforzamento delle capacità operative dell’intera organizzazione criminale o di sue articolazioni settoriali.

La Corte ha anche, congruamente, motivato sull’assenza di riscontri obiettivi individualizzanti, data la estrema genericità delle dichiarazioni del collaborante a proposito degli interessi economici che avrebbero legato i G., D. e B..

Nient’affatto illogici, e tantomeno manifestamente illogici risultano infine i rilievi dei giudici dell’appello a proposito della sospetta tardività delle dichiarazioni di Sp. sui rapporti politico mafiosi in cui sarebbe stato implicato, nel 1993-94, il ricorrente, risultando assolutamente plausibile l’argomentazione con la quale i giudici dell’appello hanno respinto la tesi dello ********, dell’avere taciuto sulla vicenda del bar (omissis), per il timore che gli derivava dall’essere, i suoi muti protagonisti, in ruoli di vertice dell’assetto governativo.

Risulta infatti dallo stesso ricorso del Procuratore generale che sul tema dei rapporti di D. con ambienti mafiosi vi fossero state, da parte del collaboratore, esternazioni in epoche pregresse e che dunque il silenzio sulla vicenda specifica in esame non sembra trovare logica spiegazione in questioni attinenti alla difficile credibilità del tema da esporre e al timore di ritorsioni che sarebbero comunque potute derivare dalle pur gravi popolazioni già effettuate.

Palesemente infondato si rivela infine il motivo di ricorso sulla illegittimità dell’ordinanza con la quale è stata rigettata la richiesta istruttoria di assunzione di Gr.: come si legge a pagina 495 e seguenti, con una motivazione che non costituisce oggetto di specifica critica da parte del ricorrente, si è posto in evidenza che la deposizione in questione era stata chiesta in violazione del disposto dell’art. 602 c.p.p., comma 4 che rinviando all’art. 523, prevede che la discussione ormai iniziata non possa essere interrotta per l’assunzione di prove nuove se non in caso di assoluta necessità.

Ebbene tale fattispecie non è stata riscontrata dalla Corte di merito la quale ha posto in evidenza in primo luogo il rilevante tema del dubbio sull’attendibilità intrinseca del dichiarante il quale aveva reso le proprie propalazioni parecchi anni dopo l’inizio della collaborazione con l’autorità giudiziaria. In secondo luogo era stato possibile appurare che il Gr. aveva manifestato la carenza di ricordo a proposito delle circostanze in cui aveva sentito pronunciare il nome dell’imputato da parte di M.A..

E tale carenza aveva dimostrato innanzi al pm essere del tutto incolmabile. Quanto ai rapporti fra D. e G. egli aveva affermato essersi trattato di mera intuizione. Rispetto a tali fondamentali osservazioni atte a giustificare l’ordinanza reiettiva, il motivo di doglianza appare del tutto aspecifico e incapace di dimostrarne l’illegittimità. 9. La nona doglianza è inammissibile. Il ricorrente richiede, nella sostanza, alla Corte di cassazione, di optare per l’interpretazione delle intercettazioni nel senso illustrato dal Tribunale, svalutando la ricostruzione prospettatane dalla Corte di merito. Si tratta evidentemente di una richiesta inammissibile tenuto conto, in primo luogo, che, in base alla costante giurisprudenza di legittimità, l’interpretazione di intercettazioni costituisce un giudizio di fatto devoluto al giudice del merito e non sindacabile da parte della cassazione una volta che la ricostruzione operata nella sentenza impugnata si presenti frutto di un’operazione logica e completa.

E deve escludersi qualsiasi profilo di manifesta illogicità del ragionamento della Corte d’appello avendo la stessa, come ricordato anche dal ricorrente, evidenziato circostanze di fatto (notevole distanza di tempo – oltre cinque anni – tra le conversazioni in questione e il patto politico mafioso che dovrebbero dimostrare;

riscontro negativo dell’esistenza del patto dato dal rilievo che D. non fu eletto dal collegio Sicilia-Sardegna ma da altro del Nord) che inammissibilmente il Procuratore ricorrente critica mediante il rappresentare alla Cassazione elementi di fatto (presunto siluramento da parte di Mi., come riferito da Gu.) che di sicuro la Cassazione non può valutare direttamente da autonomamente.

Oltre a ciò la Corte, tra gli altri argomenti, ha anche evidenziato che l’impegno elettorale di cosa nostra in favore di D., emergente dalla conversazione intercettata nel 1999, non vale a costituire essa stessa prova dell’esistenza di un patto a monte e quindi della sua natura sinallagmatica.

Difficile, dunque, sostenere come fa il ricorrente che la ricostruzione della Corte sia frutto di un ragionamento illogico, apparendo la censura, semmai, espressione di un’opinione dissenziente che non può trovare ingresso fra i motivi di ricorso previsti dall’art. 606 c.p.p..

10.La decima doglianza è inammissibile: la tesi della possibile millanteria da parte di M. a proposito degli incontri di natura politica che avrebbe avuto con D. alla fine del 1993 o nel 1994 viene argomentata dalla Corte di merito in primo luogo alla luce di una serie di prove testimoniali relative al fatto che M. era considerato, all’interno di cosa nostra, un chiacchierone, uno che aveva il vizio di pavoneggiarsi; ed inoltre alla luce di un più che plausibile movente di tale condotta millantatrice, desunto dal fatto che, essendo stato condannato da Ba., egli volesse accreditarsi presso lo stesso Ba. e Br. come utile canale di collegamento con D.: il tutto sulla base del rilievo che dei contatti fra D. e M. comunque vi sono stati anche nel 1993, essendo stati ammessi dall’imputato, ma senza che se ne conosca il reale contenuto.

Non sembra capace di inficiare la tenuta di tale ragionamento il rilievo, del Procuratore generale, dell’effettiva presenza di M. ad una cena importante tenutasi nella villa di (omissis), essendo, tali fatti, già ritenuti provati e capaci di dimostrare l’esistenza di un concorso esterno all’associazione mafiosa riferibile ad epoca antecedente al 1992, sulla base di una condotta del D. diversa da quella del patto politico- mafioso.

Quanto alla capacità, della conversazione intercettata di Gu., di dimostrare l’effettività di rapporti politici che M. intratteneva a (omissis) prima del suo arresto a metà degli anni ’90, il ricorrente semplicemente ignora l’affermazione e il relativo accertamento contenuti nella sentenza impugnata a pagina 522 e seguenti, secondo cui è stato ritenuto oggettivamente e manifestamente inconsistente sul piano probatorio quell’isolato accenno fatto dal capomafia, rimasto privo d’ogni ulteriore sviluppo investigativo: così cadendo, il PG, nel vizio di riformulare,a titolo di censura nella sede di legittimità, un motivo di gravame che era stato presentato al giudice dell’appello e da questi trattato in maniera plausibile e logica.

11. La undicesima censura è inammissibile. La doglianza è nel suo contenuto assai suggestiva ma non può che risultare inammissibile sol che si osservi che consiste nella riproposizione di una ricostruzione delle emergenze probatorie formulata nella requisitoria che il Procuratore generale della Corte d’appello presentò al giudice di secondo grado nell’ottica dell’esito di quel giudizio di merito.

Invero in quella requisitoria si presentavano come prove una serie di dichiarazioni e ricostruzioni storiche che, successivamente, nella sentenza impugnata sono state fatte oggetto di una revisione critica, che ha negato argomentatamente valenza dimostrativa sicura alle stesse emergenze. In sostanza il contenuto della requisitoria, così come riproposto quale motivo di ricorso, non tiene conto e non aggredisce, se non in prevenzione e quindi in modo non specifico, i passaggi della sentenza impugnata con i quali è stata illustrata la ragione della ritenuta insussistenza, all’esito del giudizio, di tutti gli estremi per la configurazione del concorso esterno, nella condotta ascritta a D., relativamente al periodo successivo al 1992.

E’ utile qui ricordare il costante insegnamento giurisprudenziale secondo cui è inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che si risolvono nella pedissequa reiterazione di quelli già dedotti in appello e puntualmente disattesi dalla Corte di merito, dovendosi gli stessi considerare non specifici ma soltanto apparenti, in quanto omettono di assolvere la tipica funzione di una critica argomentata avverso la sentenza oggetto di ricorso (Sez. 6, Sentenza n. 20377 del 11/03/2009 Ud. (dep. 14/05/2009) Rv. 243838; Massime precedenti Conformi: N. 8443 del 1986 Rv. 173594, N. 12023 del 1988 Rv. 179874, N. 84 del 1991 Rv. 186143, N. 1561 del 1993 Rv. 193046, N. 12 del 1997 Rv. 206507, N. 11933 del 2005 Rv. 231708).

In tale prospettiva appare decisivo il rilievo che nella requisitoria non poteva tenersi conto- e tale limite coinvolge la formulazione del motivo di ricorso corrispondente-del fatto che la dichiarazione di Cu. sull’incontro tra M. e D. non è stata ritenuta attendibile per le incertezze sulla data di verificazione degli eventi narrati e per le incongruenze rispetto al clima politico in atto; che altresì la vicenda D. è stata argomentatamente ritenuta priva di valenza dimostrativa per avere D. stesso negato contatti fra i G. e D.; e che infine le dichiarazioni di Sp. sono state ritenute inaffidabili per il ritardo con cui sono state rese, oltre che per l’incertezza del contenuto dell’affermazione di G.G..

Inoltre appare difficilmente superabile l’assunto della Corte d’appello secondo cui l’eventuale accettazione da parte di D., dell’appoggio elettorale da parte di alcuni esponenti di cosa nostra, non si sarebbe tradotto comunque in un comprovato comportamento capace di determinare, anche istantaneamente, un concreto effettivo rafforzamento del sodalizio mafioso di riferimento, misurabile ex post in termini oggettivamente apprezzabili e non rapportabili semplicemente alla causalità psichica.

La sentenza impugnata si è infatti riportata all’insegnamento della sentenza delle sezioni unite ******* secondo cui l’efficienza causale dell’impegno e della promessa di aiuto del politico sul piano oggettivo del potenziamento della struttura organizzativa dell’ente deve essere dimostrata: perchè se non lo è, non è consentito convertire surrettiziamente la fattispecie di concorso materiale in esame in una sorta di – apodittico ed empiricamente inafferrabile – contributo al rafforzamento dell’associazione mafiosa in chiave psicologica: nel senso che, in virtù del sostegno del politico, risulterebbero comunque, quindi automaticamente, sia “all’esterno” aumentato il credito del sodalizio nel contesto ambientale di riferimento, che “all’interno” rafforzati il senso di superiorità e di prestigio dei capi e la fiducia di sicura impunità dei partecipi.

Ed invero, proprio questo sembrerebbe essere il fine dimostrativo della requisitoria richiamata nel motivo di ricorso, laddove in essa il Procuratore generale indica, ai fini della verifica ex post degli effetti della promessa, indicatori assolutamente generici quali l’abbandono, da parte della associazione mafiosa, della ricerca di nuovi referenti politici – abbandono non ancorato a nessun dato probatorio oggettivo- oppure l’aumento, conseguente, della possibilità di indirizzare tutte le energie del sodalizio al conseguimento degli scopi illeciti ad esso congeniali: una conclusione, che anche se provata, viene in considerazione nella cornice e nella logica del concetto dell’aumento del rischio” (di pericolo per l’ordine pubblico) che è un criterio esattamente e testualmente rigettato nella sentenza ******* laddove, nella descrizione dello “statuto” della causalità, si richiama all’elaborazione effettuata nella sentenza delle Sezioni unite Franzese. Una sentenza, quest’ultima, che ha rifiutato qualsiasi attenuazione del rigore nell’accertamento del nesso di causalità e una nozione “debole” della stessa che finirebbe per comportare un’abnorme espansione della responsabilità penale.

D’altra parte occorre ricordare la giurisprudenza in linea con l’approdo finale delle sezioni unite della sentenza *******, giurisprudenza che già aveva dato atto ampiamente della non sufficienza, ai fini della configurazione del concorso eventuale in associazione mafiosa, della mera vicinanza tra uomo politico e i vertici di un gruppo mafioso, non essendo idonea neppure la semplice accettazione del sostegno elettorale dell’organizzazione criminosa, essendo invece necessario un accordo in base al quale l’uomo politico, in cambio dell’appoggio elettorale, si impegni a sostenere le sorti dell’organizzazione in modo idoneo a contribuire al suo rafforzamento (Cass. Sez. 5, 26 maggio 2001, n. 33913).

Al riguardo deve sottolinearsi che è condivisibile la giurisprudenza (vedi RV 215963) che sottolinea come con il reato in esame il bene giuridico violato e cioè l’ordine pubblico, lo è per il solo fatto che un’associazione mafiosa faccia valere il suo peso a favore di un candidato. La stessa giurisprudenza pone anche in evidenza che un simile evento rileva ai fini della configurazione del concorso esterno a carico del politico quando sia rappresentabile e comprovato un previo accordo tra l’uomo politico e l’associazione ed i suoi appartenenti, sicchè il rapporto sinallagmatico sussiste non tra le due prestazioni ma fra le due promesse.

Un simile rilievo, tuttavia, se vale ad evidenziare la non necessità, sul piano strutturale e probatorio, dell’esecuzione del patto, non consente neppure di attenuare il rigore dell’onere probatorio riguardo alla esistenza effettiva di un impegno reciproco concreto e serio e alla causazione di un rafforzamento del sodalizio qual effetto diretto dell’accordo stesso.

Ed è indubitabile che la prova regina di un simile effetto derivi generalmente proprio dalla dimostrazione tangibile concreta dei risultati dell’impegno dell’uomo politico in favore del sodalizio che gli ha assicurato l’appoggio elettorale.

E sul tema vai la pena ricordare che la Corte d’appello ha passato in rassegna le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e argomentato come le stesse non contenessero indicatori di un impegno preciso che D. avrebbe preso nei confronti di M. nel campo degli interventi legislativi. Così si è ricordato che secondo il racconto di G., Cu. aveva proposto l’invio di M. a (omissis) per prendere contatti con la politica;

Cu. dal canto suo aveva parlato di proposte legislative da presentare nel gennaio 1995, con un racconto che si riferiva ad un’epoca in cui il governo di B. era dimissionario; D. N. aveva parlato, senza ulteriori precisazioni, dell’euforia di gu.; L.M. aveva appreso da M.V. che si poteva votare per Forza Italia perchè i suoi referenti politici davano qualche possibilità di sequestri dei beni e sul 41 bis, “per modo di dire” (pagina 536 sentenza); gi. aveva parlato di discorsi futuri e positivi e del fatto che fosse un suo pensiero che la risposta da parte politica era arrivata; anche G. aveva parlato della mera intenzione di Cu. di mandare M. V. a Milano per parlare con D. e prendere contatti con la politica per attenuare il 41 bis.

12. La dodicesima doglianza è manifestamente infondata. La motivazione fornita dalla Corte d’appello a partire da pagina 545 della sentenza impugnata, in ordine alla richiesta di assunzione della deposizione di Ci.Ma., è del tutto congruente e risponde ai criteri in base ai quali è prevista dal codice di rito la riapertura dell’istruttoria dibattimentale al fine di escutere una prova preesistente o anche una prova sopravvenuta, dovendosi poi considerare il particolare rigore previsto per l’ammissione di una prova richiesta a discussione iniziata.

Il giudizio della Corte si è dispiegato sia sul tema della non necessità che, soprattutto, su quello della manifesta superfluità ai fini della completezza della istruttoria dibattimentale, in ragione di un duplice rilievo sulla evidente inattendibilità soggettiva della deposizione che la Procura generale chiedeva di assumere.

E’ stato infatti specificato che ****** avrebbe dovuto parlare di rapporti tra D. e la mafia in termini assolutamente generici e dunque incompatibili con le finalità dell’istruttoria in appello che non possono essere ampie e “esplorative” come nel giudizio di primo grado.

Le dichiarazioni di Ci., di cui l’accusa aveva fornito i verbali a sostegno della propria richiesta, si presentavano prima facie con evidenti incongruenze sul piano della ricostruzione cronologica ed inoltre il racconto riguardo alle lettere di Pr. che avrebbero dovuto essere recapitate a D. sarebbe risultato monco nella parte finale ed essenziale, avendo il Ci. affermato di ignorare se la lettera indirizzata a D. fosse stata a questi effettivamente consegnata.

La Corte d’appello ha anche rilevato, in replica alla reiterata richiesta di assunzione, che le dichiarazioni di Ci. sarebbero state destinate a riportare eventi che il padre aveva appreso da terzi riguardo la presunta compromissione di D. e dunque dichiarazioni de relato di secondo grado: un’affermazione di inaffidabilità difficilmente superabile sul piano della logica e certamente non superata dalle critiche del Procuratore generale il quale h potuto opporre soltanto che Ci. doveva deporre sul possesso di lettere destinate a D.: una evenienza chiaramente sovrapponile e non sostanzialmente diversa rispetto a quella già esaminata dalla Corte e reputat del tutto incapace di incidere sul quadro probatorio.

Nè, la osservazione del Procuratore ******** riesce a scalfire l’assunto della Corte circa la argomentata progressione accusatoria delle dichiarazioni di Ci. a proposito del coinvolgimento di D. in rapporti con capi mafiosi.

La Corte ha infatti ricordato che simili rapporti tra l’imputato e Pr. sono stati enunciati e verbalizzati- peraltro come frutto di conoscenze de relato- solo nell’ennesimo interrogatorio del 20 novembre 2009, dopo che, nei precedenti interrogatori del 2008 e del 2009 quello si era limitato a dire che D. era solo nei progetti di contatto del genitore e poi destinatario di lettere del padre. Addirittura al PM di Palermo, nel dicembre dello stesso anno, aveva smentito la notizia sostenendo che era falsa.

13. Inammissibile è l’ultima censura: come già rilevato precedentemente è inammissibile il motivo di ricorso formulato per relationem semplicemente riproponendo una questione già sottoposta al giudice dell’appello e da questi risolta con un argomentare logico possibile. Un motivo di gravame di tal fatta non risponde infatti criteri posti dall’art. 581 c.p.p. il quale richiede specificità della critica con la quale si aggredisca un punto della motivazione del provvedimento impugnato.

Risulta viceversa per tabulas che la riproposizione degli argomenti sull’attendibilità delle dichiarazioni del collaboratore O. non tiene in alcun conto gli argomenti esibiti dal giudice del merito il quale ha posto in evidenza, tra le altre cose, la intervenuta assoluzione, per alcuni fatti anche con formula piena, di D. in merito all’accusa di calunnia in concorso con Ci. e Ch..

La tesi è stata accreditata motivatamente dal giudice del merito, in sintonia con quella delle decisioni emesse nelle sedi proprie, e con quella dell’assenza della prova circa un concorso doloso di D. nell’attività eventualmente calunniosa di Ci. e Ch..

Una simile argomentazione non risulta in alcun modo scalfita, con argomenti puntuali, dalla modalità di formulazione del motivo di ricorso che, ancora una volta, trascura del tutto le argomentazioni del giudice del merito.

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibile il ricorso del Procuratore ******** presso la Corte di appello di Palermo.

Annulla la sentenza impugnata nel capo relativo al reato del quale l’imputato è stato dichiarato colpevole e rinvia, per nuovo giudizio su di esso, ad altra sezione della Corte di appello di Palermo.

 

Redazione