Compie atti osceni sul balcone: per la prova della colpevolezza sufficiente la dichiarazione della persona offesa (Cass. pen. n. 39824/2012)

Redazione 09/10/12
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Ritenuto in fatto

1. Con sentenza del 12/04/2011 la Corte d’Appello di Reggio Calabria ha confermato la sentenza del Tribunale di Locri di condanna di A.N. per il reato di cui all’art. 527 c.p. (per avere compiuto atti osceni consistiti nel masturbarsi su un balcone) e lo ha condannato alla pena di mesi otto di reclusione. I giudici hanno rilevato come la materialità del fatto fosse provata dalle dichiarazioni della parte offesa C.N. , del fidanzato e della sorella della stessa e da un altro testimone, quali persone, tutte, che non avevano motivi di astio verso l’imputato che legittimassero il dubbio di una accusa arbitraria; hanno aggiunto che le discordanze esistenti tra le prove dichiarative non hanno incrinato l’attendibilità dei testi, tutti concordi nel narrare la parte rilevante della condotta antigiuridica e hanno richiamato a riprova l’esistenza agli atti di un filmino (che ha ripreso solo la parte finale della condotta e pertanto non è in perfetta sintonia con le dichiarazioni testi) e che l’imputato ha ammesso il fatto pur minimizzandolo, La Corte territoriale ha inoltre escluso che la fattispecie fosse colposa e che fosse applicabile l’indulto (stante l’intervenuta concessione della sospensione condizionale della pena).
2. Per l’annullamento della sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’imputato personalmente. Dopo avere trasposto nel ricorso, da pag. 1 a pag. 23, il contenuto dell’atto di appello già interposto nei confronti della sentenza di primo grado nonché il contenuto della sentenza di appello, deduce, con un primo motivo, inosservanza di norme processuali nonché mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione. Con un primo motivo, denunciante erroneità dei criteri adottati in punto di valutazione della prova, lamenta che la pronuncia impugnata sia fondata sulle sole dichiarazioni della persona offesa, non supportate da riscontri, se non assolutamente ambigui. La sentenza impugnata avrebbe infatti riprodotto sostanzialmente alla lettera la motivazione della sentenza di primo grado in tal modo dandosi luogo a motivazione apparente in violazione dell’art. 125 c.p.p.; inoltre in essa vi sarebbe una mera elencazione delle risultanze processuali senza che però siano esposti i criteri adottati per la valutazione delle stesse ai fini dell’attribuzione all’imputato del fatto – reato. Con un secondo motivo, volto ad invocare l’erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, censura la valutazione di attendibilità delle dichiarazioni della parte civile, da sottoporre ad un vaglio critico particolarmente rigoroso e dei testimoni le cui dichiarazioni sarebbero contraddittorie. Per dimostrare il suo assunto il ricorrente passa in analitica rassegna il narrato dei vari dichiaranti per focalizzare la diversità tra le prime dichiarazioni e quelle dibattimentali nonché le divergenze dei vari racconti; questi sono poi smentiti dal filmato che dimostrerebbe come l’operatore si sia sporto notevolmente dal balcone dal quale, quindi, non era visibile ciò che l’imputato stesse facendo nel piano sottostante. In tale ambito di complessiva doglianza lamenta poi che i giudici non abbiano tenuto conto della situazione di attrito tra la parte civile e l’imputato per ragioni di cattivo vicinato e non abbiano considerato la necessità di riscontrare positivamente le dichiarazioni degli altri testi anche mediante riscontri esterni. Con un terzo motivo, volto a denunciare mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione in ordine alla valutazione delle dichiarazioni testimoniali, lamenta che i giudici non abbiano in particolare considerato l’ipotesi alternativa segnalata dalla Difesa relativa ad un gesto non sessuale malamente interpretato, senza motivare in ordine alla richiesta di derubricazione del reato di cui all’imputazione in quello ex art. 527, comma 3, c.p. Infine, con un ultimo motivo, rileva che avrebbe dovuto essere applicato l’indulto solo o in concorso con la sospensione condizionale della pena e che è insufficiente la motivazione, affidata a clausole di stile, in ordine al regime sanzionatorio, già invocato nei limiti del minimo edittale della pena.

Considerato in diritto

3. Va anzitutto, metodologicamente, premesso che, con riguardo al ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p., la denunzia di minime incongruenze argomentative o l’omessa esposizione di elementi di valutazione, che il ricorrente ritenga tali da determinare una diversa decisione, ma che non siano inequivocabilmente muniti di un chiaro carattere di decisività, non possono dar luogo all’annullamento della sentenza, posto che non costituisce vizio della motivazione qualunque omissione valutativa che riguardi singoli dati estrapolati dal contesto. Al contrario, è solo l’esame del complesso probatorio entro il quale ogni elemento sia contestualizzato che consente di verificare la consistenza e la decisività degli elementi medesimi, oppure la loro ininfluenza ai fini della compattezza logica dell’impianto argomentativo della motivazione (Sez. 2, n. 18163 del 22/04/2008, *******, Rv. 239789; n. 7380 del 2007, Rv. 235716);
Ciò posto, le doglianze complessivamente poste con i primi due motivi con riferimento all’assunzione delle dichiarazioni della persona offesa quale elemento di prova asseritamente non supportato da riscontri, e alla valutazione di attendibilità del complessivo dato testimoniale, sono manifestamente infondate. Questa Corte ha più volte puntualizzato che la testimonianza della persona offesa costituisce una vera e propria fonte di prova sulla quale può essere anche esclusivamente fondata l’affermazione di colpevolezza dell’imputato, a condizione che sia intrinsecamente attendibile, in particolare laddove la persona offesa si sia anche costituita parte civile e sia, perciò, portatrice di pretese economiche, e che di ciò si dia adeguata motivazione (Sez. 3, n. 28913 del 03/05/2011, C. ed altro, Rv. 251075; Sez. 6, n. 27322 del 14/04/2008, ******** e altri, Rv. 240524; Sez. 3, n. 34110 del 27/04/2006, Rv. 234647); la valutazione effettuata dal giudice di merito in ordine a detta attendibilità, ove adeguatamente, appunto, motivata, resta quindi preclusa in sede di legittimità.
Nella specie, a fronte delle censure dell’appellante, peraltro costruite attraverso un’esasperata frammentazione degli elementi di prova, in contrasto con la già ricordata necessità di una valutazione complessiva, e sostanzialmente ripropositive della linea difensiva già esaminata dal giudice di prime cure, la Corte territoriale, anche richiamando il contenuto della sentenza di primo grado, ha correttamente evocato la giurisprudenza di questa Corte or ora ricordata; ha, quindi, rilevato, recependo anche l’opportunità, suggerita da detta giurisprudenza, di riscontri esterni laddove la persona offesa sia portatrice di pretese economiche (Sez. 1, n. 29372 dei 24/06/2010, *********, Rv. 248016), che l’impianto accusatorio emergente dalle dichiarazioni di C.N. ha trovato puntuale conferma non solo nelle dichiarazioni rese dalla sorella e dal fidanzato della stessa (che si trovavano, assieme alla persona offesa, al momento dei fatti, nell’appartamento posto al piano superiore rispetto a quello di A.), ma anche nella testimonianza resa da L.P. quale persona che si trovava nella propria abitazione, posta al terzo piano parallelo al piano di abitazione della persona offesa. La valorizzazione, in particolare, delle dichiarazioni di L. , quale soggetto del tutto disinteressato rispetto alla vicenda, rappresenta, anzi, una implicita e allo stesso tempo logica risposta alle ragioni di non adeguata valutazione di attendibilità rappresentate, secondo il ricorrente, da motivi di attrito per cattivo vicinato intercorrenti tra imputato e persona offesa, dimoranti nel medesimo edificio condominiale. La Corte reggina ha aggiunto, poi, che lo stesso sviluppo, anche cronologico, dei fatti come raccontati dalla persona offesa (in relazione, progressivamente, all’avere udito, mentre si trovava sul balcone, dei gemiti di piacere, all’essersi affacciata vedendo A. che, con i pantaloni abbassati, teneva con la mano destra uno specchietto puntato verso l’alto e si toccava, con la mano sinistra, le parti intime, all’avere quindi richiamato la sorella, subito corsa in cucina e poi postasi a filmare la parte finale della condotta criminosa), è significativamente confermato dallo stesso filmato, acquisito quale prova documentale ex art. 234 c.p.p., che, infatti, riprendendo, in conformità a tale dinamica, soltanto la parte finale della condotta criminosa, evidenzia che l’imputato teneva in mano il solo specchietto e con l’altra mano era “impegnato con il basso ventre”.
In definitiva, dunque, la sentenza impugnata risulta avere adeguatamente motivato, senza imperfezioni logiche, in ordine alla valutazione di idoneità degli elementi emersi dal giudizio a dimostrare la responsabilità dell’imputato in ordine al reato ascrittogli, ciò bastando, alla stregua della premessa sopra posta, a sottrarre la stessa al sindacato di questa Corte.
4. Anche il terzo motivo, inteso a denunciare la mancata derubricazione del reato contestato in quello di cui all’art. 527, comma 3, c.p. sul presupposto di un fraintendimento del gesto dell’imputato, è del tutto infondato. La sentenza impugnata ha motivatamente affermato, logicamente attribuendo all’uso dello specchietto rivolto verso l’alto un significato di evidente corroborazione della sussistenza dei fatti, sulla inconsistenza della tesi. Del resto, qualsivoglia lettura alternativa dei fatti si porrebbe in contrasto con il principio più volte affermato da questa Corte, secondo cui, essendo il sindacato della Cassazione quello di sola legittimità, continua, pur dopo la modifica dell’art. 606 lett. e) c.p.p., introdotta dalla l. n. 46 del 2006, ad esulare dai poteri della stessa quello di una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione anche laddove venga prospettata dal ricorrente una diversa e più adeguata valutazione delle risultanze processuali (da ultimo, Sez. 2, n. 23419 del 23/05/2007, P.G. in proc. *********, Rv. 236893).
5. Con riguardo, infine, all’ultimo motivo, puntualmente la Corte d’Appello ha richiamato l’indirizzo espresso da Sez. U., n. 36837 del 15/07/2010, P.G. in proc. ******, Rv. 247940, secondo cui con la sentenza di condanna non può essere contestualmente applicato l’indulto e disposta la sospensione condizionale della pena, in quanto quest’ultimo beneficio prevale sul primo. Si è, sul punto, sottolineato che con l’applicazione del beneficio della sospensione prende le mosse un complesso iter generativo di diversi e non contestuali effetti, quello, immediato ed accessorio, della sospensione dell’esecuzione della pena e quello, principale, ma futuro ed eventuale, della estinzione del reato, effetti però tra loro strettamente collegati ed entrambi da subito contemplati; il condono è, invece, applicabile solo ed esclusivamente in relazione a pene suscettibili di esecuzione; è dunque inconciliabile con siffatto principio una applicazione dell’indulto in contestualità con una decisione di sospensione della pena ex art. 163 c.p., ossia in relazione ad una pena non suscettibile in quel momento di esecuzione e, quindi, in una situazione nella quale viene ad essere impedita l’operatività del beneficio indulgenziale, il quale non è, in concreto, in grado di agire sotto alcun profilo.
5.1. Neppure la motivazione a sostegno della terminazione della pena inflitta merita censura, stante l’avvenuta irrogazione, da parte del Tribunale, che ha richiamato esaustivamente, in particolare con riferimento a luogo e modalità dell’azione, i parametri dell’art. 133 c.p., della pena di mesi otto di reclusione a fronte di una “forbice” edittale ricompresa tra i tre mesi nel minimo e i tre anni nel massimo. Nell’ipotesi in cui la determinazione della pena non si discosti eccessivamente dai minimi edittali, il giudice ottempera infatti all’obbligo motivazionale di cui all’art. 125, comma 3, c.p., anche ove adoperi espressioni come “pena congrua”, “pena equa”, “congruo aumento”, ovvero si richiami alla gravità del rato o alla personalità del reo (tra le tante, Sez. 3, n. 33773 del 29/05/2007, ********, Rv. 237402).
6. La manifesta infondatezza dei motivi impone pertanto la declaratoria di inammissibilità del ricorso con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento in favore della Cassa delle Ammende della somma di cui all’art. 616 c.p.p. da determinarsi nella misura di Euro 1.000,00.

 

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa della Ammende.

Redazione