L’interpello disapplicativo nella disciplina delle società c.d. di “comodo”

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Il caso

La vicenda in esame trae origine dal ricorso avverso l’avviso di accertamento, concernente l’irrogazione di sanzioni amministrative in materia “Ires”, oltre interessi.

La società ricorrente, in particolare, lamenta che l’atto di accertamento si fondi sul mancato esperimento dell’istanza di interpello c.d. “disapplicativo”, ai sensi dell’art. 30 della Legge n. 724/1994[1], ritenuta obbligatoria da parte dell’Ente impositore, e non, invece, facoltativa.

L’Agenzia delle Entrate, per contro, contesta il comportamento della società ricorrente, ritenendo che il contribuente non potrebbe autonomamente disapplicare le norme sulle società di comodo[2], senza consentire la valutazione – da parte dell’Agenzia delle Entrate – delle situazioni soggettive prospettate.

 

La decisione della Commissione provinciale di Catania

Il Giudice di prime cure accoglie il ricorso ed annulla l’atto impugnato, sul presupposto che, per insegnamento costante della giurisprudenza di legittimità, la domanda di interpello, formulata in materia di società c.d di comodo e diretta al superamento della “presunzione di non operatività” del contribuente, costituisce una “facoltà” e non un “obbligo” per quest’ultimo. L’omessa presentazione della domanda di interpello, pertanto, non comporta limiti al successivo esercizio del diritto di difesa, potendo il contribuente fornire la prova, in corso di giudizio, della sussistenza degli elementi che consentono la disapplicazione del regime anti elusivo

 

L’istituto dell’interpello alla luce delle recenti modifiche normative

Com’è noto, l’interpello è l’istituto che attribuisce al contribuente  il diritto di conoscere, attraverso “circostanziate e specifiche istanze”, la posizione dell’Amministrazione finanziaria (espressa con risposte “qualificate” e vincolanti), sulla disciplina tributaria applicabile, in concreto, a un atto, fatto o negozio da realizzare (o già realizzato)[3], ovvero sulla disapplicazione di specifiche disposizioni fiscali, in presenza di obiettive condizioni di incertezza sulla corretta interpretazione e al fine di evitare di subire a posteriori conseguenze sfavorevoli (art. 11 della L. n. 212/2000, c.d. dello Statuto dei diritti del contribuente)[4].

La nuova veste dell’art. 11 dello Statuto del contribuente ingloba quattro nuove tipologie di interpello: l’interpello ordinario, che accorpa in sé anche l’interpello c.d. qualificatorio; l’interpello c.d. probatorio; l’interpello antiabuso; l’interpello disapplicativo.

 

Cenni sulla tematica dell’interpello disapplicativo nelle società di comodo; una questione ancora aperta

La decisione della Commissione Tributaria Provinciale muove dall’analisi della natura dell’interpello c.d. disapplicativo, correttivo (o negativo) [5], alla luce della recente posizione della giurisprudenza di legittimità, attestata sul principio secondo cui la procedura di interpello di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis, comma 8, «costituisce per il contribuente una facoltà che consente di conseguire (in caso di risposta positiva dell’Ufficio) una certezza nei rapporti con la Amministrazione. Ma l’utilizzo di tale strumento non costituisce una via obbligata per il superamento della presunzione posta a carico del contribuente stesso dalle disposizioni anti-elusivo. Quindi al contribuente è sempre consentito fornire in giudizio la prova delle condizioni che consentono di superare la presunzione posta dalla legge a suo danno»[6].

Diverse sono le implicazioni che emergono da questa presa di posizione della giurisprudenza di merito, di cui, tuttavia, non può darsi pienamente conto in questa sede.

A sostegno di tale recente indirizzo, però, giova porre l’attenzione sull’esistenza di una posizione giuridica del contribuente che, in prima battuta, sembrerebbe riconducibile al diritto soggettivo, ed in particolare, tra le situazione c.d. di vantaggio, alla c.d. “facoltà”, in forza della quale il suo titolare è libero di decidere se avvalersene o meno[7].

Nel caso in esame, quindi, la presentazione dell’istanza di interpello, costituisce per il contribuente una facoltà, consistente nel “tenere un certo comportamento”,  senza che dal mancato esercizio discendano conseguenze sostanziali “sproporzionate” nei suoi confronti, come, ad esempio, la preclusione della possibilità di fornire in giudizio la prova contraria per il superamento della presunzione di non operatività della società.

In conclusione, il contribuente, anche laddove non avesse presentato istanza di interpello disapplicativo per il superamento della presunzione di non operatività della società, potrà ugualmente conseguire il risultato della disapplicazione del regime delle cc.dd. società di comodo, fornendo la prova contraria, in corso di giudizio, di non essere stato realmente operativo, e quindi di rientrare nei parametri normativi necessari per poter beneficiare delle disposizioni anti elusive.

 

 


[1] L’art. 30, comma 4-bis della L. 23 dicembre 1994, n. 724, c.d. collegato alla legge finanziaria 1995, recita: «in presenza di oggettive situazioni che hanno  reso  impossibile il conseguimento dei ricavi, degli incrementi di rimanenze e  dei  proventi nonché del reddito determinati ai sensi del presente articolo,  ovvero  non hanno consentito di effettuare le operazioni rilevanti ai fini dell’imposta sul valore  aggiunto  di  cui  al  comma  4,  la  società  interessata  può richiedere la disapplicazione delle relative  disposizioni  antielusive  ai sensi dell’articolo 37-bis, comma  8,  del  decreto  del  Presidente  della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600».

[2] L’articolo 30 della legge 724/1994, definisce “di comodo” le società che non superano il test di operatività, ovvero quelle società i cui ricavi “figurativi” sono superiori rispetto ai ricavi effettivi

[3] Pistolesi F., Dalla delega fiscale più omogeneità ed efficienza per gli interpelli, Corriere tributario n. 24 del 2014, pag. 1836

[4] È opportuno ricordare che la Legge di delega fiscale (legge 11 marzo 2014, n. 23), con l’art. 6, comma 6, ha posto le basi per operare una “revisione generale” degli interpelli, allo scopo di garantire una maggiore omogeneità delle diverse procedure, «anche ai fini della tutela giurisdizionale e di una maggiore tempestività nella redazione dei pareri», e nell’ottica dell’introduzione nel processo tributario di forme di tutela immediata alternative rispetto alla tutela mediata tipica. In particolare, il decreto ha eliminato diverse forme di interpello obbligatorio, ridotto i tempi di risposta da parte dell’Amministrazione (da 120 a 90 giorni) e, a garanzia del contribuente, e ha esteso la regola del silenzio-assenso a tutte le tipologie di interpello.

Con la circolare n. 9/E del 2016, l’Agenzia delle Entrate ha affrontato la nuova disciplina degli interpelli in seguito alle modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 156/2015 in attuazione della legge di delega fiscale, integrando le indicazioni di carattere procedurale contenute nel provvedimento n. 27 del 4 gennaio 2016.

[5] Si badi che tale figura trova la sua disciplina nell’art. 37-bis, ottavo comma, del D.P.R. n. 600/1973, prevede la disapplicazione delle norme che, allo scopo di contrastare comportamenti elusivi, limitano deduzioni, detrazioni, crediti d’imposta o altre posizioni soggettive altrimenti ammesse dall’ordinamento tributario, qualora il contribuente dimostri l’inesistenza degli effetti elusivi nella fattispecie concreta. Immediatamente percepibile è la differenza rispetto agli altri interpelli: non la richiesta di un preventivo parere, ma la comunicazione della disapplicazione di specifiche norme antielusive, che consegue ad un giudizio sulla insussistenza dei connotati dell’elusione.

 

[6] Cass. 15 luglio 2014, n. 16183.  Il principio di effettività di cui all’art. 53 Cost., impone, secondo tale indirizzo, di limitare nel più ristretto ambito le presunzioni juris et de jure. Nel caso di specie, il giudice di merito ha ritenuto provata la presenza di oggettive situazioni che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi, degli incrementi di rimanenze e dei proventi nonchè del reddito determinati ai sensi del presente articolo, ovvero non hanno consentito di effettuare le operazioni rilevanti ai fini dell’imposta sul valore aggiunto di cui al comma 4 (L. n. 724 del 1994, art. 30, comma 4 bis). In tal senso, si veda altresì Cass. 5 ottobre 2012 n. 17010.

[7] Laddove, invece, dal mancato esperimento della situazione giuridica soggettiva conseguissero effetti negativi per il contribuente, si rientrerebbe nelle ipotesi di “onere”. Nella teoria generale del diritto, il termine “onere” indica il comportamento che un soggetto deve tenere per conseguire un risultato a lui favorevole. Tuttavia, tale configurazione sembra escludersi nel caso in esame.

 

Sentenza collegata

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Avv. Nicotra Antonio

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