Coltivazione abusiva di cannabis: è illecito penale indipendentemente dalla successiva destinazione (Cass. pen. n. 35462/2012)

Redazione 14/09/12
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Ritenuto in fatto

1. Con sentenza del 20/4/2011 la Corte di appello di Trento ha confermato la sentenza del 15/12/2009 emessa a seguito di rito abbreviato dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Rovereto che, previa concessione delle circostanze attenuanti generiche, ha condannato il sig. S.V. alla pena di 1 anno e 4 mesi di reclusione e 12.000,00 Euro di multa per il reato di coltivazione abusiva di cannabis sativa previsto dall’art. 73, comma 5, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 in relazione all’art. 110 cod. pen., commesso fino al 4/8/2009.
2. Avverso tale decisione il ricorrente lamenta:
a. errata applicazione di legge ai sensi dell’art. 606, lett.b) cod.proc.pen. con riferimento alla sussistenza dell’elemento soggettivo del reato, posto che la difesa ha documentato l’esistenza di plurime decisioni della Corte di cassazione che, pubblicizzate sui mezzi d’informazione, hanno ingenerato nel ricorrente la giustificata convinzione che la coltivazione di “canapa” per uso esclusivamente personale non contrastasse con la legge penale, con conseguente applicabilità dei principi fissati dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 364 del 1988;
b. vizio motivazionale ai sensi dell’art. 606, lett. e) cod.proc.pen. per avere la Corte di appello omesso di considerare e valutare la documentazione prodotta e limitato le proprie argomentazioni al richiamo della sentenza delle Sezioni Unite Penali che nel 2008 risolse il contrasto di giurisprudenza (sentenza n. 28605 del 24/4-10/7/2008) optando per la punibilità della coltivazione a condizione che la sostanza ricavabile o prodotta abbia in concreto effetto stupefacente;
c. dubbia costituzionalità degli artt. 26, 28, 73 e 75 della d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309.

 

Considerato in diritto

1. La Corte rileva in via preliminare che l’impostazione data dal ricorrente ai primi due motivi non può essere condivisa. La circostanza che in passato la giurisprudenza di questa Corte abbia espresso principi interpretativi tra loro diversi rispetto alla punibilità della coltivazione di piantine da cui si ricavano principi attivi con effetto stupefacente non può essere invocata, ed è stata inutilmente documentata, a quattro anni di distanza dalla decisione con cui le Sezioni Unite Penali hanno risolto il contrasto e affermato il principio che la coltivazione costituisce illecito penale indipendentemente dalla successiva destinazione che il singolo imputato intende dare alla sostanza ottenuta Sez. 6, n. 49528 del 13/10/2009, P.M. in proclanzo, rv 245648). Si tratta di principio ormai consolidato e conosciuto, così che la pretesa di buona fede è destituita in sé di fondamento, prima ancora che irrilevante anche rispetto al contenuto della invocata sentenza della Corte costituzionale. Sul punto si rinvia alle condivisibili motivazioni della sentenza della Sez. 6, n. 6991 del 25/1/2011, Sirignano e altro, rv 249451.
2. Quanto detto impone di ritenere infondato anche il secondo motivo, avendo i giudici di merito fatto buon uso del principio fissato dalla sentenza n. 28605 del 24/4/2008 e ritenuto irrilevante la documentazione prodotta ai fini sopra ricordati.
3. La Corte, infine, non ritiene che possa considerarsi fondata la richiesta di sottoporre alla Corte costituzionale la questione prospettata col terzo motivo di ricorso. La citata decisione delle Sezioni Unite trova fondamento normativo nel testo della legge e nella specifica disciplina che questa fissa per la condotta di coltivazione alla luce delle diverse potenzialità e della diversa pericolosità che questa condotta assume sul piano di sistema. La diversa situazione di fatto e la diversa valutazione di pericolosità costituiscono elemento differenziante che non appare suscettibile di censura sotto il profilo della disparità di trattamento (si veda anche Sez. 6, n. 10425 del 28/4/1987, ********, rv 176796; Corte costituzionale, ordinanza n. 414 dell’11/12/1996).
4. Alla luce delle considerazioni fin qui esposte il ricorso deve essere respinto e il ricorrente condannato, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., al pagamento delle spese del presente grado di giudizio.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Redazione