Colpevole di dichiarazione fraudolenta mediante artifici l’imprenditore che ‘gonfia’ gli stipendi (Cass. pen. n. 36900)

Redazione 09/09/13
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Ritenuto in fatto

1. La Corte di appello di Palermo con sentenza del 24 aprile 2012, ha confermato la sentenza del Tribunale di Palermo del 9 luglio 2010 che ha condannato G.N. , alla pena di quattro mesi di arresto con il beneficio della sospensione condizionale della pena, perché nella qualità di amministratore unico della società La *********, al fine di evadere le imposte sui redditi, indicava nella dichiarazione IVA, per l’esercizio 2003 elementi passivi fittizi per un totale imponibile di Euro 4.322, evadendo la somma di euro 1.469, fatto accertato il (omissis).
2. Avverso la sentenza ha proposto ricorso l’indagato, tramite il proprio difensore, chiedendone l’annullamento per i seguenti motivi: 1) Inosservanza ed erronea applicazione della legge penale per violazione degli artt. 2, 491, c. 1 e 550 c.p.p., in quanto la Corte di appello ha rigettato la censura proposta in merito alla competenza funzionale del giudice di primo grado, sollevata prima dell’apertura del dibattimento di primo grado con la quale si lamenta che il giudizio era stato promosso con citazione diretta a giudizio, con elisione della celebrazione dell’udienza preliminare, necessaria in relazione al reato ascritto; 2) Nullità della sentenza per violazione degli artt. 522, 523, c. 1 e 546 c.p.p., per difetto di contestazione e per mancanza di adeguata motivazione ex art. 125 c.p.p. e motivazione contraddittoria e manifestamente illogica, con la versione fornita dall’imputato ai giudici di prime cure ossia alla mancata corrispondenza tra busta paga e retribuzione settimanale; il capo di imputazione fa riferimento ad una presunta violazione tributaria commessa durante l’esercizio 2003, in relazione a percezione di una busta paga non corrispondente ricevuta nel 2004, secondo quanto dichiarato alla Guardia di finanza nel 2004, in risposta ad un questionario, laddove si faceva espresso riferimento al tempo presente, ossia al 2004, per cui la Corte sarebbe incorsa in errore; 3) Nullità della sentenza ai sensi dell’art. 606 lett. c) c.p.p. per violazione dell’art. 522 c.p.p., per difetto di contestazione e mancata di adeguata motivazione, posto che a fronte della contestazione relativa all’anno 2003, il G. sarebbe stato condannato per un fatto diverso, ossia sulla mancata erogazione da parte del datore di lavoro dei una parte delle somme riportate nella busta paga e non già in ordine alle prestazioni lavorative non effettuate,, essendo palese la differenza tra l’annoverare tra i costi prestazioni di lavoro mai ricevute e mai pagate (capo di imputazione) ed invece il portare in contabilità i costi del lavoro effettivamente rispondenti alla prestazione effettuata dal dipendente, ma pagati solo parzialmente (conclusioni della sentenza); 4) Nullità della sentenza per violazione dell’art. 238 bis, 187, 192 e 546 c.p.p. per mancanza dell’imputazione e mancata enunciazione delle ragioni per le quali le prove contrarie sarebbero inattendibili, nonché illogicità e contraddittorietà della motivazione, avendo i giudici disatteso la sentenza favorevole della Commissione tributaria, che ha annullato in radice l’accertamento fiscale della Guardia di finanza eseguito nel 2004; 5) Nullità della sentenza per erronea applicazione dell’art. 2 c. 3 D.lgs. n. 74 del 2000 e omessa applicazione degli artt. 3 e 4 del medesimo d.lgs e per mancata assoluzione, in quanto il fatto accertato non può essere considerato quale operazione fittizia, secondo quanto affermato dalla giurisprudenza, posto che è elemento indiscusso nelle sentenze la sussistenza dei due rapporti di lavoro (C. e S. ), residuando solo difformità tra importo indicato in busta paga e importo erogato i giudici avrebbero dovuto esaminare se la stessa poteva avere rilevanza penale tributaria.

Considerato in diritto

1. Va innanzitutto rigettato il primo motivo di ricorso che censura un vizio processuale, dovendosi ritenere corretta la motivazione della reiezione dell’eccezione di cui alla pag 4 della sentenza impugnata che ha rilevato la tardività della sollevata eccezione.
2. Va invece accolto, e con valore assorbente rispetto a tutte le altre censure, la doglianza di cui al terzo motivo, relativa alla mancanza di correlazione tra fatto contestato e fatto accertato. Per configurare infatti il reato contestato (art. 2 Dlgs n. 74 del 2000) è necessaria l’indicazione di “elementi passivi fittizi” nella dichiarazione fiscale con lo scopo di evadere le imposte attraverso l’indicazione. Infatti la giurisprudenza ha precisato che per integrare l’utilizzazione fraudolenta in dichiarazione di fatture per operazioni inesistenti basta che le stesse siano inesistenti dal punto di vista oggettivo, ossia che vi sia “diversità, totale o parziale, tra costi indicati e costi sostenuti” (in tal senso, Sez. 3, n. 10394 del 14/1/2010, dep. 16/3/2010, *******, Rv. 246327). L’art. 2 si riferisce a “fatture o altri documenti per operazioni inesistenti” e l’art. 1, lett. a), dello stesso decreto legislativo chiarisce che tale locuzione inerisce a quelle fatture o documenti che sono emessi a fronte di operazioni in tutto o in parte inesistenti o che indicano i corrispettivi o l’imposta sul valore aggiunto in misura superiore a quella reale ovvero che riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi. È indispensabile quindi che la documentazione fraudolenta sia stata emessa a fronte di operazioni non realmente effettuate (come richiesto per l’utilizzo dell’avverbio “realmente” nella norma definitoria menzionata di cui all’art. 1, lett. a), del decreto legislativo). Invece la dichiarazione fraudolenta prevista e sanzionata dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 3, rappresenta una frode contabile alla quale deve associarsi un quid pluris artificioso non tipizzato (diverso dall’uso di fatture o altri documenti falsi, integrante l’ipotesi di cui al precedente art. 2) ma comunque caratterizzato dalla idoneità ad indurre in errore e ad impedire il corretto accertamento della realtà contabile del soggetto che presenta la dichiarazione annuale d’imposta (è stato ritenuto che rientri nella fattispecie la tenuta di un sistema parallelo di contabilità “in nero”).
Recentemente è stato precisato che il “quid pluris” rispetto alla falsa rappresentazione offerta nelle scritture contabili obbligatorie deve consistere in una condotta connotata da particolare insidiosità derivante dall’impiego di artifici idonei ad ostacolare l’accertamento della falsità contabile (cfr. Sez. 3 n. 2292 del 22/11/2012, dep. 16/1/2013, ******, Rv. 254136),
Tanto premesso e con specifico riferimento alla questione di diritto posta nel ricorso in esame, rileva il Collegio che i giudici di merito hanno evidenziato che a fronte di un rapporto di lavoro esistente, la differenza tra l’importo indicato in busta paga e quello inferiore effettivamente corrisposto, determina una fittizia indicazione di voci passive ed una decurtazione della base imponibile, con conseguente evasione IVA per la somma indicata nel capo di imputazione ed hanno ritenuto che le buste paga indicanti la corresponsione al dipendente di un compenso superiore a quello effettivamente versato sono documenti attestanti operazioni parzialmente inesistenti.
La motivazione della sentenza non è condivisibile e risulta apodittica, posto che la prestazione di lavoro risulta effettuata per cui si pone un problema di qualificazione giuridica del fatto, eventualmente rientrante nella tipizzazione di cui al menzionato art. 3 dlgs n. 74 del 2000, in relazione all’omessa indicazione di una parte di quanto corrisposto ai due dipendenti. D’altra parte i giudici di appello non hanno neppure specificato in che cosa consisterebbero i raggiri ed i mezzi fraudolenti adoperati dall’imputato per ostacolare l’accertamento della falsa rappresentazione indicata nelle buste paga e trasfusa nella dichiarazione, limitandosi ad affermare la parziale inesistenza delle operazioni, senza spiegare la ragione per la quale un comportamento omissivo costituisca un raggiro e comunque un mezzo fraudolento idoneo ad ostacolare l’accertamento di tali falsi rappresentazione contenute nella dichiarazione.
Di conseguenza la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Palermo.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata e rinvia ad altra Sezione della Corte di appello di Palermo.

Redazione