Colpevole di bancarotta per distrazione il commercialista che aiuta il fallito a sottrarre i beni ai creditori (Cass. pen. n. 39988/2012)

Redazione 09/10/12
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Svolgimento del processo

1. La Corte di Appello di Ancona, con sentenza del 14 aprile 2011, ha confermato la sentenza del GUP presso il Tribunale di Ancona del 16 marzo 2009, nei confronti di Ga.Va., G. G., L.M., G.E. e L.E. condannati i primi due quali amministratori, il terzo quale liquidatore, il quarto quale consulente commercialista e il quinto quale amministratore di fatto della F. G. s.r.l. dichiarata fallita dal Tribunale di Ancona il (omissis), per il delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione.

2. Avverso tale sentenza hanno proposto distinti ricorsi per cassazione gli imputati, a mezzo dei propri difensori, lamentando: G.E. e L.M..

a) una mancanza di motivazione e un travisamento delle prove quanto all’accertata bancarotta per distrazione;

b) una mancanza di motivazione e un travisamento delle prove quanto ai contributo causale agli episodi distrattivi;

c) una erronea applicazione della legge penale con riferimento alla pena accessoria di cui alla *******., art. 216.

Ga.Va., Ga.Gr. e L.E..

a) una mancanza di motivazione e un travisamento delle prove quanto all’accertata bancarotta per distrazione con particolare riferimento ad una perizia di stima nonchè al contratto di subaffitto;

b) una erronea applicazione della legge penale con riferimento alla pena accessoria di cui alla *******., art. 216.

Motivi della decisione

1. I ricorsi sono tutti da rigettare, essendo ai limiti dell’inammissibilità in quanto i relativi motivi riproducono quasi integralmente le doglianze avanzate avanti la Corte territoriale ed alle quali è stata data corretta e logica risposta.

2. Quanto ai dedotti comuni motivi di travisamento delle prove in merito all’affermazione della penale responsabilità per la bancarotta fraudolenta per distrazione deve notarsi come, sebbene in tema di giudizio di Cassazione, in forza della novella dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), introdotta dalla L. n. 46 del 2006, sia ora sindacabile il vizio di travisamento della prova, che si ha quando nella motivazione si faccia uso di un’informazione rilevante che non esiste nel processo o quando si ometta la valutazione di una prova decisiva, esso può essere fatto valere nell’ipotesi in cui l’impugnata decisione abbia riformato quella di primo grado, non potendo, nel caso di c.d. doppia conforme, superarsi il limite del “devolutum” con recuperi in sede di legittimità, salvo il caso in cui il Giudice d’appello, per rispondere alla critiche dei motivi di gravame, abbia richiamato atti a contenuto probatorio non esaminati dal primo Giudice (v. da ultimo, Cass. Sez. 4^ 3 febbraio 2009 n. 19710).

Nel caso di specie, invece, il Giudice di appello ha riesaminato lo stesso materiale probatorio già sottoposto al Tribunale e, dopo avere preso atto delle censure degli appellanti, è giunto alla medesima conclusione della affermazione della penale responsabilità.

In definitiva, non appare operazione consentita avanti questa Corte di legittimità riesaminare il materiale probatorio già oggetto dei due giudizi di merito e materialmente riprodotto anche nei presenti ricorsi, in ossequio ad un mal interpretato principio di c.d. autosufficienza, che non vuoi dire rimettere in generale discussione l’accertamento in fatto compiuto nei gradi anteatti del merito ma soltanto, nell’ipotesi di specifica contestazione circa l’invalidità di determinati atti ovvero nel caso di omessa valutazione di una prova decisiva o di converso di uso di informazione inesistente, di consentire a questa Corte di valutare la fondatezza o meno della specifica doglianza.

Nella specie i ricorsi non hanno affatto chiarito la decisività della perizia giurata P. ovvero delle dichiarazioni del Curatore rag. Pe. nè del contratto di subaffitto 1 ottobre 2003 o di affitto 31 agosto 2001 che, di converso, si sostiene essere stati “travisati” dai Giudici del merito, con ciò non sottraendosi alla patente di infondatezza dei relativi motivi.

Orbene, fatta questa doverosa premessa e sviluppando coerentemente i principi suesposti, deve ritenersi che la sentenza impugnata regga al vaglio di legittimità, non palesandosi neppure la dedotta assenza, contraddittorietà od illogicità della motivazione.

Quanto al ricorso G., si osserva come la Corte territoriale abbia correttamente motivato in merito alla sua penale responsabilità quale commercialista della società decotta, citando la pacifica giurisprudenza di questa stessa Sezione sul punto sia del comportamento oggettivo che della coscienza e volontà della sua partecipazione che infine del contributo causale al dissesto societario.

In tema di reati fallimentari, i consulenti commercialisti o esercenti la professione legale concorrono nei fatti di bancarotta quando, consapevoli dei propositi distrattivi dell’imprenditore o degli amministratori della società, forniscano consigli o suggerimenti sui mezzi giuridici idonei a sottrarre i beni ai creditori o li assistano nella conclusione dei relativi negozi ovvero ancora svolgano attività dirette a garantire l’impunità o a favorire o rafforzare, con il proprio ausilio o con le proprie preventive assicurazioni, l’altrui proposito criminoso (v. Cass. Sez. 5^ 18 novembre 2003 n. 569 e 15 febbraio 2008 n. 10742).

Quanto al ricorso L., che sostanzialmente riproduce il precedente ricorso G., si sostiene una inconsapevolezza del proprio comportamento distrattivo quale mero liquidatore della società decotta, contraddetta, però, dalla compiuta e logica motivazione espressa sul punto dalla Corte di Appello con particolare riferimento proprio ad una carica, quella di liquidatore, che non può essere rivestita da un quivis de populo, del tutto digiuno delle necessarie competenze per portare a compimento l’opera di estinzione della società.

I ricorsi Ga.Va., Ga.Gr. e L. E. riproducono le stesse doglianze dei precedenti ricorsi per cui, a fronte del convincimento logicamente espresso dal Giudice del merito, richiedere a questa Corte di legittimità una rilettura delle risultanze processuali costituisce sintomo evidente della non fondatezza dei ricorsi stessi.

3. Quanto, infine, al comune motivo relativo alle applicate pene accessorie deve premettersi, per affermarsi la legittimità dell’operato dei Giudici del merito, come di recente il Giudice delle leggi, con sentenza del 31 maggio 2012 n. 134 abbia ritenuto conforme alla Costituzione il dettato della *******., art. 216, u.c., e, quindi, dell’irrogazione della pena accessoria in misura fissa piuttosto che nella stessa misura della pena principale.

4. I ricorsi devono, in conclusione, essere rigettati e i ricorrenti condannati, ciascuno di essi, al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

La Corte, rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento ciascuno delle spese processuali.

Redazione