Colpevole del reato di diffamazione per avere definito il sindaco “una marionetta” (Cass. pen. n. 49776/2012)

Redazione 21/12/12
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Fatto e diritto

Con sentenza 25.10.2011, la corte di appello di Catania ha confermato la sentenza 28.5.08 del tribunale di Catania, con la quale L.P.M. è stato condannato, previa concessione delle attenuanti generiche equivalenti, alla pena di Euro 600 di multa, perché riconosciuto colpevole del reato di diffamazione, per aver affisso e distribuito volantini, in data 16.11.04, ritenuti lesivi della reputazione di L.P. ha presentato ricorso per i seguenti motivi:
1. vizio di motivazione: l’imputato, consigliere comunale e segretario del partito del precedente sindaco D.G. e dei componenti della precedente giunta comunale, aveva diffuso il volantino in risposta al manifesto, fatto affiggere dal sindaco C., a spese del comune, e contenente ingiuste censure sulla correttezza del comportamento del D.G. e della giunta da lui presieduta. La corte non ha riconosciuto che si è trattato di una manifestazione di critica politica, sia in relazione al contenuto del manifesto di censura contro la precedente amministrazione comunale, sia in relazione all’illegale impiego di pubbliche risorse finanziarie, spese per far fronte al costo di stampa e di affissione delle copie. Il sostantivo ‘‘marionetta”, utilizzato nella critica alla C., era finalizzato a mettere in risalto la pubblica recita, inscenata dal sindaco, che, con il precedente manifesto, aveva diffuso la notizia del rinvio a giudizio del D.G. e dei componenti della giunta, in ordine a un reato da cui erano poi stati assolti. Questo termine rientra pienamente in modalità espressiva formalmente contenuta e diretta non alla persona, ma alla pubblica funzione della C.
2. violazione di legge, in riferimento all’art. 599 cp.: nell’atto di appello è stato chiesto il riconoscimento dell’esimente della provocazione, ex art. 599 co. 2 cp, per aver agito L.P. nello stato d’ira determinato dal fatto ingiusto altrui, in danno di persona diversa (l’ex sindaco D.G.). La Corte di appello ha erroneamente rigettato la richiesta di concessione dell’attenuante ex art. 62 n. 2 c.p. Nella sentenza quindi non è stato riconosciuto che il L.P., come cittadino, come consigliere comunale nonché come segretario del medesimo partito di D.G., era legittimato a intervenire nella polemica politica, instaurata dalla C. con il manifesto di censura dell’ex sindaco, contenente ingiuste accuse di scorrettezza amministrativa e politica e per di più costituente causa di spreco di denaro pubblico.
Il ricorso non merita accoglimento.
Correttamente i giudici di merito hanno affermato il carattere diffamatorio del contenuto del volantino, nella parte in cui la C. è stata definita ‘‘marionetta”, utilizzando un termine che comunemente attribuisce alla persona, destinataria di tale qualifica, l’assenza di personalità, la soggezione al volere e alle strategie operative di altra o altre persone, il ruolo di acritico strumento di diffusione e di realizzazione di idee altrui. L’attribuzione alla persona offesa di incapacità di intendere e di volere in maniera libera ed autonoma, si carica intrinsecamente, nell’attuale condizione culturale del nostro Paese, di una ancor maggiore efficacia diffamatoria, in quanto diretta contro un soggetto di sesso femminile, impegnato nel mondo politico, in un ambiente cioè notoriamente egemonizzato – nonostante moderni e civili principi costituzionali – dagli uomini e, conseguentemente, non benevolo, se non addirittura ostile nei confronti delle donne. Nessun fatto ingiusto è poi addebitabile alla C., la quale, nella posizione di vertice dell’amministrazione comunale, succeduta a quella diretta dal D.G. e dai compagni di partito, ha inteso informare la collettività sulla irregolare gestione del potere pubblico, da parte di questi ultimi. Correttamente, quindi, sono state investite dalla C., in questa legittima e doverosa opera di informazione, risorse finanziarie del comune. L’esito positivo per i pubblici amministratori del processo penale, non è, d’altro canto, sicuramente idoneo a dimostrare la piena regolarità dell’azione di governo della giunta precedente e quindi la strumentalizzazione della notizia sul processo, a fini di propaganda politica, da parte dell’opposto schieramento. La sentenza di proscioglimento ha naturalmente avuto come unico e limitato presupposto il mancato accertamento di violazioni di norme penali, lasciando impregiudicata la valutazione sul rispetto delle altre norme (amministrative e deontologiche) che comunque vincolavano l’azione della giunta D.G. Il ricorso va quindi rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

 

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Redazione