Circostanza aggravante (Cass. pen. n. 38015/2013)

Redazione 17/09/13
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Svolgimento del processo

1. – Con sentenza dell’11 novembre 2011 pronunciata a seguito di giudizio abbreviato, il GUP del Tribunale di Brescia ha condannato l’imputato, previa concessione le circostanze attenuanti generiche in misura equivalente alle contestate aggravanti e alla recidiva, considerata la diminuente per il rito, alla pena di anni 6 di reclusione ed Euro 50.000,00 di multa, oltre pene accessorie, per il reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, commi 1 e 6, art. 80, comma 2, per avere, in concorso con altri, nel quadro di uno stabile sodalizio criminoso finalizzato all’importazione dall’estero di ingenti quantitativi di cocaina, illecitamente ricevuto, trasportato, detenuto, al fine di successiva consegna agli acquirenti finali, 3 kg circa di cocaina, suddivisa in panetti occultati all’interno di un vano appositamente predisposto sotto il sedile dell’autovettura da lui condotta; con la recidiva specifica e con le aggravanti dell’aver commesso il fatto in tre o più persone e dell’avere detenuto un’ingente quantità di stupefacente.

Con sentenza del 13 aprile 2012, la Corte d’appello di Brescia, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha riconosciuto la circostanza attenuante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 7, stimata, in una con le già concesse attenuanti generiche, equivalente all’aggravante di cui all’art. 80 del richiamato D.P.R. e alla recidiva, ha – per quanto qui rileva – ridotto la pene principali inflitte ad anni 4 e mesi 8 di reclusione ed Euro 30.000 di multa.

2. – Avverso la sentenza l’imputato ha proposto, tramite il difensore, ricorso per cassazione, deducendo: 1) l’erronea applicazione del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, e la carenza di motivazione quanto alla sussistenza dell’aggravante dell’ingente quantità di stupefacente ivi prevista, perchè tale non sarebbe la cocaina ritrovata in possesso dell’imputato, in quanto dotata di un principio attivo di 2016 g; 2) l’erronea applicazione dell’art. 597 c.p.p., commi 3, 4 e 5, nonchè la manifesta illogicità della motivazione, perchè la Corte d’appello, pur avendo accolto la doglianza dell’imputato relativa alla sussistenza dell’attenuante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 7, ha operato un nuovo giudizio di comparazione tra attenuanti e aggravanti continuando a ritenere le une equivalenti alle altre, violando così il divieto della reformatio in peius; 3) con motivo aggiunto contenuto in una memoria depositata in prossimità dell’udienza, l’erronea applicazione del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 7, e dell’art. 597 c.p.p., perchè si sarebbe trascurato di considerare che l’attenuante di cui al richiamato comma 7 non è suscettibile di bilanciamento con le aggravanti contestate, trattandosi di fattispecie analoga a quella dell’attenuante speciale stabilita in tema di reati di stampo mafioso dal D.L. n. 152 del 1991, art. 8, per l’intento primario perseguito dal legislatore di offrire un concreto incentivo a chi si dissocia fattivamente dall’organizzazione.

Motivi della decisione

3. – Il ricorso è infondato e deve essere rigettato.

3.1. – Il primo motivo di impugnazione – con il quale si contesta che, a fronte di un principio attivo di 2016 g di cocaina, possa essere ritenuta sussistente la circostanza aggravante dell’ingente quantità di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 80, comma 2, – è infondato.

La questione dei presupposti per l’applicazione dell’aggravante in parola è stata oggetto della sentenza delle sezioni unite di questa Corte 24 maggio 2012, n. 36258, con la quale si è affermato che detta aggravante non è di norma ravvisabile quando la quantità sia inferiore a 2000 volte il valore massimo in milligrammi (valore- soglia), determinato per ogni sostanza nella tabella allegata al decreto ministeriale 11 aprile 2006, ferma restando la discrezionale valutazione del giudice di merito, quando tale quantità sia superata. Ne consegue, quanto alla cocaina, che, essendo il valore soglia di 750 mg (D.M. 11 aprile 2006), l’ingente quantità ricorre, di norma, qualora sia superata la quantità di principio attivo di mg 1.500.000, ovvero di 1,5 kg. Tale soglia risulta ampiamente superata nel caso di specie, in cui lo stupefacente sequestrato contiene un principio attivo di più di 2 kg, con la conseguenza che l’aggravante in parola è stata correttamente ritenuta sussistente, in mancanza di elementi in contrario.

3.2. – Anche il secondo motivo di impugnazione – con il quale si lamenta che la Corte d’appello, pur avendo accolto la doglianza dell’imputato relativa alla sussistenza dell’attenuante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 7, ha operato un nuovo giudizio di comparazione tra attenuanti aggravanti continuando a ritenere le une equivalente alle altre – è infondato.

Questa Corte ha di recente risolto il contrasto giurisprudenziale sorto sul punto, affermando che il giudice d’appello, pur dopo avere escluso una circostanza aggravante o riconosciuto una ulteriore circostanza attenuante in accoglimento dei motivi proposti dall’imputato, può, senza incorrere nel divieto della reformatio in peius, confermare la pena applicata in primo grado, ribadendo il giudizio di equivalenza tra le circostanze, purchè esso sia accompagnato da adeguata motivazione (Cass. pen., sez. un., 18 aprile 2013, n. 33752).

In sintesi, si è giunti a tale conclusione sul rilievo che le ipotesi derogatorie al divieto della reformatio in peius previsto dall’art. 597 c.p.p., commi 3 e 4, sono fissate dal successivo comma 5 in via tassativa e riguardano la possibilità di applicare d’ufficio la sospensione condizionale, la non menzione e una o più circostanze attenuanti e di procedere, quando occorre, al giudizio di comparazione a norma dell’art. 69 c.p.. Si è altresì sottolineato che vi è una innegabile autonomia e discrezionalità del giudizio di comparazione, che non sempre conduce ad attribuire un peso quantitativamente apprezzabile ad ogni elemento considerato, sicchè un’alterazione dei termini in comparazione non comporta necessariamente una alterazione altresì del giudizio precedentemente espresso, non potendo trovare applicazione una logica rigidamente ed esclusivamente matematica. Non può trovare spazio, dunque, una “presunzione assoluta” della necessità di modifica del precedente giudizio implicante un’obbligatoria formulazione di un giudizio più favorevole da parte del giudice d’appello.

Nella sentenza impugnata, la Corte distrettuale di Brescia ha fatto corretta applicazione di tali principi, perchè ha evidenziato che la richiesta difensiva di prevalenza delle attenuanti sulle aggravanti non può essere accolta neanche a seguito del riconoscimento della sussistenza della circostanza di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 7, perchè il contributo collaborativo reso dall’imputato era stato già adeguatamente valorizzato dal GUP con la concessione delle circostanze attenuanti generiche, con la conseguenza che il semplice aumento del numero delle attenuanti concesse non consente di ritenere tali attenuanti di maggiore spessore rispetto alle aggravanti contestate, le quali sono dotate tutte di una certa gravità.

3.3. – Infondato è anche il terzo motivo di impugnazione, con il quale si sostiene che la richiamata circostanza attenuante di cui all’art. 73, comma 7, sarebbe sottratta al giudizio di comparazione.

Tale assunto non trova, infatti, alcun adeguato supporto normativo, essendo la circostanza in parola disciplinata dal richiamato comma 7, come una normale circostanza attenuante a effetti speciali, prevista per chi si adopera per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, anche aiutando concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella sottrazione di risorse rilevanti per la commissione dei delitti. Anche per tale circostanza si applica, dunque, il giudizio di comparazione, disciplinato in via generale dall’art. 69 c.p., in relazione a ogni caso di concorso di circostanze aggravanti e attenuanti.

Nè può trovare applicazione nel caso di specie il principio affermato dalle sezioni unite di questa Corte con la sentenza 18 marzo 2010, n. 10713, secondo cui la circostanza attenuante del D.L. 13 maggio 1991, n. 152, art. 8, convertito dalla L. 12 luglio 1991, n. 203, non è soggetta al giudizio di comparazione, stante l’obbligatorietà dell’attenuazione delle sanzioni allorchè ricorrano le condizioni per la sua applicazione e tenuto conto dell’intento primario perseguito dal legislatore di offrire un incentivo concreto e non meramente eventuale alla dissociazione operosa dalle associazioni mafiose. Detta disposizione ha esteso al settore antimafia la circostanza attenuante già in precedenza elaborata per i fenomeni terroristici (D.L. 15 dicembre 1979, n. 625, art. 4, convertito dalla L. 6 febbraio 1980, n. 15, ripreso dalla L. 18 febbraio 1987, n. 34, art. 2). La norma è strutturata con previsione di pena autonoma (in particolare, la pena della reclusione da dodici a venti anni sostituisce quella dell’ergastolo e le altre pene sono ridotte da un terzo alla metà), in relazione al delitto di cui all’art. 416 bis c.p., e ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni di tipo mafioso, nei confronti di chi, dissociandosi dagli altri, si adoperi per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, anche aiutando concretamente l’autorità di polizia o quella giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione o la cattura degli autori dei reati. In particolare, le sezioni unite hanno precisato, sul punto, che qualora sia riconosciuta la circostanza attenuante ad effetto speciale della cosiddetta “dissociazione attuosa”, prevista dal richiamato D.L. n. 152 del 1991, art. 8, convertito dalla n. 203 del 1991 e ricorrano altre circostanze attenuanti in concorso con circostanze aggravanti, soggette al giudizio di comparazione, va dapprima determinata la pena effettuando tale giudizio e successivamente, sul risultato che ne consegue, va applicata l’attenuante ad effetto speciale.

Si tratta, però, di un principio che, riconoscendo una deroga all’ordinaria comparazione disciplinata dall’art. 69 c.p., deve essere ritenuto di stretta interpretazione. Tra la circostanza attenuante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 8, e quella di cui al richiamato D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 7, sussiste, del resto, una significativa differenza, essendo la prima inserita nel particolarissimo contesto sistematico della disciplina del contrasto alla criminalità di tipo mafioso; contesto nel quale la dissociazione e la collaborazione attiva acquistano peculiare rilevanza. A ciò deve aggiungersi che la disposizione dell’art. 8, si presta all’interpretazione datane dalle sezioni unite, perchè il suo comma 2, stabilisce che, nei casi previsti dal comma 1, vale a dire nei casi di chi si dissoci nei modi anzidetti, “non si applicano le disposizioni dell’art. 7”, del D.L. medesimo, che contempla una circostanza aggravante per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis c.p., ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo. L’art. 73, comma 7, è invece privo – come visto – di un’analoga espressa previsione derogatoria.

4. – Ne deriva il rigetto del ricorso, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 12 giugno 2013.

Redazione