Cassazione: si precisano i rapporti fra concussione e la nuova figura dell’induzione a dare o promettere utilità (Cass. pen. n. 7495/2013)

Redazione 15/02/13
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Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Tratti a giudizio innanzi al Tribunale di Ancona, G.M. e C.M., all’epoca del fatti agenti della Sezione Polizia Autostradale di Fano, per rispondere dei reati di concorso in concussione continuata e falsità ideologica aggravata, con sentenza in data 17-9-2003, detta AG dichiarava il G. colpevole del reati ascrittigli, qualificato il fatto di cui al capo b) come truffa aggravata dall’abuso dei poteri inerenti una pubblica funzione (ex art. 640 c.p., e art. 61 c.p., n. 9) e, concessegli le attenuanti generiche prevalenti sulle contestate aggravanti, ritenuta la continuazione tra detti reati, lo aveva condannato alla pena di anni due e mesi dieci di reclusione, con conseguente pena accessoria dell’interdizione dai pp.uu. per pari durata e confisca delle somme nella disponibilità di tale imputato ed assolveva il C. dai reati di concussione sub A) e B) per non aver commesso il fatto e dal reato di falso sub C) perchè il fatto non costituisce reato. Avverso detta sentenza il PM presso il Tribunale anconetano proponeva appello nel confronti del solo C. che, a sua volt a, proponeva appello incidentale e, dal canto suo, il G. proponeva appello, segnatamente contestando l’asserita attendibilità, della prova accusatoria specifica e dei relativi asseriti riscontri.

Con sentenza in data 30-6-2011, la Corte di Appello di Ancona, in riforma della sentenza appellata, dichiarava NDP nei confronti degli imputati in ordine al reato sub B), come ritenuto nella decisione di 1^ grado (truffa aggravata), perchè estinto per prescrizione e dichiarava il C. colpevole dei reati di concorso in concussione continuata di cui al capo A) e del reato di falsità ideologica atto pubblico sub C) e, concessegli le attenuanti generiche e ritenuta la continuazione, lo condannava alla pena di anni due e mesi nove di reclusione, rideterminando nella stessa misura la pena nei confronti del G., con pena accessoria dell’interdizione dai pp.uu. per pari durata della pena a ciascun imputato.

Avverso tale sentenza entrambi gli imputati hanno proposto ricorso per cassazione, deducendo a motivi del gravame, a mezzo dei rispettivi difensori:

G.:

1) Violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. e), per travisamento della prova in ordine al dato storico dell’orario durante il quale sarebbe stata posta in essere la condotta contestata;

2) Violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. e), per illogicità della motivazione in riferimento alla irrilevanza del mancato ritrovamento della somma frutto della condotta concussiva di cui al capo A) dell’imputazione e alle risultanze probatorie;

3) Violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. c) ed e), per travisamento delle risultanze probatorie ed illogicità della motivazione nella parte relativa alla credibilità delle persone offese di cui al capo A) dell’imputazione, nonchè omessa valutazione su specifiche eccezione al riguarda;

4) Violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. e), per travisamento delle risultanze probatorie, omessa motivazione su eccezioni rilevate nell’atto di impugnazione per la vicenda di cui ai capi B) e C) della rubrica e contraddittorietà della stessa in ordine alle relative circostanze dedotte con l’atto di appello;

C.;

1) Violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. b), per erronea applicazione della legge penale in relazione agli artt. 40 cpv., 110 e 43 c.p., con illogicità e contraddittorietà della motivazione, segnatamente riferibile alla prova della piena consapevolezza del ricorrente della condotta del coimputato e, quindi, dell’elemento psicologico del reato anche nei confronti del deducente, in uno alla prova dell’elemento volitivo della connata condotta contestata;

2) Violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), per erronea applicazione della legge penale in relazione agli artt. 110 e 40 cpv.

c.p., con relativa illogicità e contraddittorietà della motivazione sulla rilevanza della condotta del ricorrente agli effetti dell’obiettiva strumentalità alla commissione del reato plurisoggettivo, con indicazione del contributo asseritamente fornito ad altri e di cui costoro si siano serviti;

3) Violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. e), per illogicità della motivazione in merito alle asserite contraddizioni delle dichiarazioni del ricorrente sulla ricostruzione e ricordo dei fatti contestati.

Tanto premesso, osserva la Corte che, quanto al ricorso del G., i motivi sub 1) e 2) sono inammissibili, costituendo censure in punto di mero fatto, cui, peraltro, la Corte territoriale anconetana ha fornito adeguata e corretta risposta (cfr. foll. 10 ss.gg. sentenza impugnata). Del pari inammissibile per manifesta infondatezza il motivo sub 3), avendo l’impugnata sentenza puntualmente, logicamente e motivatamente rappresentato le molteplici ragioni oggettive e soggettive in ordine alla piena attendibilità delle persone danneggiate, non mancando di sottolineare i plurimi riscontri, anche logici, al detto dei denuncianti, attraverso il richiamo ai significativi dati emergenti dal contributo testimoniale del Ci. e dal tenore della telefonata effettuata dal K. al Pronto intervento, felicemente qualificata dalla Corte anzidetta quale “registrazione a caldo” dello sfogo del demandante per il torto subito che “fotografa” lo stato d’animo in cui lo stesso si era venuto a trovare (cfr. fol. 23). Del pari incensurabili, in punta di coerente risposta motivazionale, le controdeduzioni alle censure difensive, anche avuto riguardo al contributo significativamente puntuale ed apprezzabile dei dati forniti dalle indagini in ordine all’individuazione degli imputati in relazione al tempo ed al luogo del loro operato (cfr. testi F. e B. – fol. 25 e 26 sentenza impugnata), senza trascurare il determinante contributo offerto dal riconoscimento in sede di incidente probatorio effettuato dai due camionisti, fin dall’immediatezza, prima informalmente, poi formalmente in detta sede istruttoria (cfr. fol. 25).

Quanto al motivo sub 4), l’insussistenza di ragionevoli condizioni legittimanti il richiamo all’art. 129 c.p.p., a fronte della dichiarata estinzione del reato sub B) per prescrizione (cfr. foll. 34 ss.gg.), rende palese l’infondatezza della doglianza del ricorrente al riguardo, mentre, quanto al reato sub C), si caratterizza dall’assoluta genericità del gravame, fermo restando, anche per intuibili, logiche ragioni di interconnessione con i fatti di cui all’imputazione sub B), la corretta sussistenza della falsità ideologica di cui al capo C).

Quanto al ricorso del C., i motivi sub 1) e 2), intuibilmente interconnessi in punto di applicabilità dell’art. 40 c.p., comma 2, sono infondati, avuto riguardo alla dettagliata, logica, corretta e motivata motivazione espressa dalla Corte anconetana a supporto dell’accoglimento dell’appello del PM avverso la decisione assolutoria di 1^ grado. Ed in effetti, il comprovato coinvolgimento del ricorrente ai fatti posti in essere dal coimputato G., con ineludibile consapevolezza e volontà di compartecipazione affatto ipotetica o “putativa” a tale condotta, cui si è offerto un contributo incidente sulla produzione dell’evento in termini di ragionevole concorso causale, emerge palese dalla risposta offerta in sentenza su detti aspetti (cfr. foll. 39 ss.gg. con particolare riferimento ai foll. 42, 43, 44, 45), non senza che la Corte anconetana si fosse fatta motivato carico di sottolineare in che termini di incidenza causale la condotta del ricorrente fosse valsa ad un contributo determinante agli effetti della causazione dell’evento, a prescindere dall’effettivo ingiusto profitto di tanto.

Il motivo sub 3) segue intuibilmente la sorte degli anzidetti motivi sub 1) e 2), rappresentando, peraltro, un pur abile tentativo difensivo di “emarginare”, segnatamente in punto di cosciente consapevolezza della predetta condotta illecita contestata la figura del C. dal contesto, anche globale, dei fatti in termini modali e di efficienza causale.

Non a caso, l’impugnata sentenza, proprio in risposta a tali censure, non ha mancato di sottolinearne l’infondatezza in termini di assoluta specificità anche logica, oltre che modale, con il motivato coinvolgimento nei fatti contestati anche del ricorrente (cfr. segnatamente foll. 44, 45 e 46 sentenza impugnata).

Tutto ciò considerato, anche a palese smentita di qualsivoglia ipotizzabilità di condizioni legittimanti la corretta applicabilità dell’art. 129 cpv. c.p.p., il reato di cui al capo C), avuto riguardo al titolo dello stesso ed all’epoca del fatto, va dichiarato estinto per sopravvenuta prescrizione in corretta applicazione dei canoni di cui all’art. 157 c.p.. In tali sensi l’impugnata sentenza va annullata senza rinvio.

A questo punto s’impone d’uffici la necessaria verifica dei principi di cui all’art. 2 c.p., comma 4, posto che, per effetti delle ius superveniens in tema di delitti ex art. 317 c.p. (cfr. L. 6 novembre 2012, n. 190, art. 1, comma 75), mentre, da un canto, questo ha limitato il reato di concussione alla sola ipotesi del pubblico ufficiale che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, “costringe” taluno a dare o a promettere indebitamente a lui o ad un terzo, denaro o altra utilità, con aumento della pena base da quella di quattro a quella di sei anni di reclusione, dall’altro, ha inserito la figura del delitto di cui all’art. 319 quater c.p., quale “induzione indebita a dare o promettere utilità”.

Ciò premesso, occorre precisare che, come diffusamente spiegato nella sentenza Roscia, recante pari data, secondo la terminologia seguita dal codice, che si riallaccia alla tradizione dogmatica ricevuta, l’espressione “costringe” comprende tanto la violenza assoluta quanto quella morale. Ma il termine, calato in un contesto in cui la costrizione deve, comunque, essere una condotta rientrante nel potere dell’agente (l’abuso è ancora una modalità di questo potere), deve necessariamente restringere la sua portata semantica, dato che e ben difficile immaginare che nell’art. 317 c.p., la costrizione possa configurarsi come violenza assoluta o che, in altri termini, l’uso non consentito della forza fisica non esuli dai poteri conferiti al soggetto, tanto che, se attuato, non integri reati di diversa natura da quelli propri del pubblico ufficiale.

Resta cosi, nell’ambito operativo dell’art. 317 c.p., la violenza morale, la quale, per definizione, si manifesta attraverso la prospettazione di un danno ingiusto, una minaccia in senso proprio.

Talchè, non essendo consentito all’interprete operare una “gerarchia tra le minacce”, integra costrizione ai sensi dell’attuale art. 317 c.p., qualunque violenza morale attuata con abuso di qualità o di poteri che si risolva nella prospettazione, esplicita o implicita, di un male ingiusto recante danno patrimoniale o non patrimoniale, costituito da danno emergente da lucro cessante.

Ora, poichè anche l’art. 319 quanter c.p., suppone parimenti un’intimidazione psicologica, dato il carattere residuale della norma (è induzione tutta quello che non ò costrizione), rientra invece nell’ambito dell’art. 319 quater c.p., la condotta del pubblico ufficiale che prospetti conseguenze sfavorevoli derivanti dall’applicazione della legge per ricevere il pagamento o la promessa indebita di denaro o altra utilità.

Si tratta, cioè e pur sempre, della prospettazione di un male, ma, nella specie, questo non è ingiusto ed anzi il soggetto che lo dovrebbe legittimamente subire mira ad evitarlo, consentendo l’indebita richiesta. Ne risulta che la distinzione tra le ipotesi di cui all’art. 317 c.p., e quelle di cui all’art. 319 quater c.p., non attiene all’intensità psicologica della pressione esercitata, sibbene alla qualità di tale pressione :minaccia o meno in senso giuridico. E si comprende allora perchè nella novellazione legislativa, il soggetto indotto non sia più considerato come vittima ma come autore di reato che mira ad un risultato illegittimo a lui favorevole.

Posto che la sentenza impugnata ha determinato la pena base in ordine al reato sub A) – ritenuto più grave – nella misura di anni quattro di reclusione, e evidente, in corretta applicazione del principio di diritto tracciato dall’art. 2 c.p., comma 4, innanzi cennato, che s’impone la motivata verifica del se la condotta degli imputati debba ascriversi alla fattispecie della “costrizione” ovvero della “induzione” rispetto ai soggetti che danno o promettono denaro o altra utilità, con conseguente richiamo alle rispettive figure criminose oggi in vigore dell’art. 317 c.p., ovvero di quella dell’art. 319 quater c.p., e conseguente corretta determinazione della pena base. Tanto premesso, poichè l’art. 317 c.p., oggi modificato, puniva entrambe le condotte del pubblico ufficiale, l’interprete, valendosi dei criteri appenna innanzi tace iati, ricondurrà le imputazioni precedentemente elevate alla prima o alla seconda norma, trascurando la terminologia impiegata nel capo di imputazione che riflette la generica endiadi “costringe o induce” utilizzata nella disposizione precedente.

In tali sensi s’impone l’annullamento della sentenza impugnata in ordine al reato di cui al capo A), con rinvio per nuovo giudizio su tale capo, oltre che per la ride terminazione della pena, per effetto dell’estinzione per prescrizione del reato sub C), alla Corte di Appello di Perugia, competente ex art. 175 disp. att. c.p.p., il combinato disposto con l’art. 623 c.p.p., lett. c).

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata limitatamente al reato di falso perchè estinto per prescrizione; Annulla la medesima sentenza in ordine al reato di cui al capo A) e rinvia per nuovo giudizio su tale capo alla Corte di Appello di Perugia.

Redazione