Cassazione: se il paziente dimesso muore non sempre agli eredi spetta il risarcimento (Cass. n. 28287/2011)

Redazione 22/12/11
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Svolgimento del processo

C., A., L., G. e M.M., in proprio e quali eredi di T.V., proponevano appello avverso la sentenza del tribunale di Benevento del 10.12.2002, che aveva rigettato la domanda di risarcimento dei danni proposta a seguito del decesso della stessa T. rispettivamente moglie e madre degli appellanti -, avvenuto presso l’Ospedale di (omissis), ove era stata trasferita in gravissime condizioni, provenendo dall’Ospedale (omissis).

Presso quest’ultimo la paziente – secondo la tesi attorea – non aveva ricevuto le necessarie cure del caso, nè le erano stati praticati i dovuti accertamenti diagnostici all’atto del suo iniziale ricovero, avvenuto alle ore 1,39 del giorno precedente il decesso, intervenuto il (omissis).

L’azienda Ospedaliera (omissis), nel costituirsi, contestava la sussistenza di colpe da parte dei sanitari e del nesso di causalità fra le condotte di questi ultimi e l’evento mortale, chiedendo il rigetto della proposta impugnazione.

Anche la spa RAS, asssicuratrice dell’azienda appellata, si costituiva insistendo per la conferma della sentenza di primo grado.

La Corte d’Appello, con sentenza dell’1.4.2009, in riforma della sentenza di primo grado, riconosceva la responsabilità dei sanitari dell’Ospedale (omissis), condannando l’Azienda Ospedaliera al risarcimento dei danni.

Riteneva, poi, che, sulla domanda di garanzia proposta nel giudizio di primo grado nei confronti della RAS spa., assicuratore della convenuta, nessuna pronuncia dovesse essere adottata, per non essere stata riproposta, nel giudizio di appello, la relativa domanda di garanzia e manleva.

L’Azienda Ospedaliera (omissis) ha proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi.

Resistono, con controricorso, C., A., L., G. e M.M..

Motivi della decisione

Il ricorso è stato proposto per impugnare una sentenza pubblicata sotto la vigenza del D.Lgs. 15 febbraio 2006, n. 40, recante modifiche al codice di procedura civile in materia di ricorso per cassazione; con l’applicazione, quindi, delle disposizioni dettate nello stesso decreto al Capo 1^.

Secondo l’art. 366 bis c.p.c. – introdotto dall’art. 6 del decreto – i motivi di ricorso debbono essere formulati, a pena di inammissibilità, nel modo lì descritto ed, in particolare, nei casi previsti dall’art. 360, nn. 1), 2), 3) e 4, l’illustrazione di ciascun motivo si deve concludere con la formulazione di un quesito di diritto, mentre, nel caso previsto dall’art. 360, comma 1, n. 5), l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione.

Segnatamente, nel caso previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 5, l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilità, un momento di sintesi (omologo del quesito di diritto), che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità (Sez. Un. 1 ottobre 2007, n. 20603; Cass. 18 luglio 2007, n. 16002).

Il quesito, al quale si chiede che la Corte di cassazione risponda con l’enunciazione di un corrispondente principio di diritto che risolva il caso in esame, poi, deve essere formulato in modo tale da collegare il vizio denunciato alla fattispecie concreta (v. Sez. Un. 11 marzo 2008, n. 6420 che ha statuito l’inammissibilità – a norma dell’art. 366 bis c.p.c. – del motivo di ricorso per cassazione il cui quesito di diritto si risolva in un’enunciazione di carattere generale ed astratto, priva di qualunque indicazione sul tipo della controversia e sulla sua riconducibilità alla fattispecie, tale da non consentire alcuna risposta utile a definire la causa nel senso voluto dal ricorrente, non potendosi desumere il quesito dal contenuto del motivo od integrare il primo con il secondo, pena la sostanziale abrogazione del suddetto articolo).

La funzione propria del quesito di diritto – quindi – è quella di far comprendere alla Corte di legittimità, dalla lettura del solo quesito, inteso come sintesi logico-giuridica della questione, l’errore di diritto asseritamente compiuto dal giudice di merito e quale sia, secondo la prospettazione del ricorrente, la regola da applicare (da ultimo Cass. 7 aprile 2009, n. 8463; v. anche Sez.Un. ord. 27 marzo 2009, n. 7433).

I motivi rispettano i requisiti prescritti dall’art. 366 bis c.p.c..

Con il primo motivo la ricorrente denuncia la omessa e/o insufficiente e/o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia – violazione degli artt. 13 e 32 Cost. – violazione e/o falsa applicazione della L. n. 833 del 1978, artt. 33 e 34.

Con il secondo motivo denuncia la omessa e/o insufficiente e/o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia – violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c..

Con il terzo motivo denuncia la omessa e/o insufficiente e/o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia – violazione e falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4 – violazione e falsa applicazione dell’art. 1176 c.c..

I primi tre motivi, per l’intrinseca connessione delle censure con gli stessi proposte, possono essere esaminati congiuntamente.

Essi sono fondati per le ragioni e nei termini che seguono. Le motivazioni con le quali la Corte di merito ha riconosciuto la responsabilità contrattuale ed extracontrattuale della struttura sanitaria Azienda Ospedaliera (omissis) per l’evento letale occorso a T.V. sono del seguente tenore.

” …. i medici dell’ospedale di (omissis), a fronte della diagnosi di cefalea vascolare fatta dal neurologo e a fronte del consiglio di questi di ricoverarsi per tenere sotto osservazione l’evolversi delle condizioni della paziente, non solo non avrebbero dovuto consentire le dimissioni della donna, ma avrebbero dovuto subito praticare quegli esami strumentali che potessero fugare ogni dubbio o confermarlo e prevenire l’ictus avvenuto poche ore dopo”.

Aggiungendosi: “E’ vero che l’esame neurologico cui la T. fu sottoposta non rivelò nulla di preoccupante, ma è anche vero che l’atipico dolore insistente e proprio i pregressi episodi simili riferiti dalla paziente all’atto del suo ricovero d’urgenza avrebbero dovuto allertare i medici se, come è stato confermato dal CTU in sede di chiarimenti, una cefalea con le caratteristiche di quella accusata dalla T. può essere, secondo la letteratura medica, un chiaro sintomo di una fase iniziale di emorragia ed è un segno patognomico dell’emorragia sub aracnoidea”.

Concludendosi: “Solo una tac, come si evince dai chiarimenti del ctu e dalla perizia di parte depositata già in primo grado dagli istanti, ove eseguita all’atto del primo ricovero avrebbe potuto evidenziare i segni dell’imminente rottura aneurismatica favorendo un tempestivo ricovero presso un reparto specializzato al fine di scongiurare l’evento letale o di attenuare le conseguenze dell’evento emorragico”.

Il percorso argomentativo riprodotto, adottato dalla sentenza in questa sede impugnata, non può essere condiviso.

Nel censurare la sentenza di primo grado, in particolare per quel che concerneva l’assenza di sintomi attestanti l’esistenza di alterazioni neurologiche (assenza che avrebbe giustificato, secondo il primo giudice, il comportamento dei sanitari che consentirono le dimissioni della donna), la Corte di merito ne ha evidenziato l’erroneità perchè, così motivando, non ha tenuto conto “del fatto che l’esito negativo dei primi accertamenti neurologici non era significativo, dovendo considerarsi che vi erano aspetti che avrebbero dovuto insospettire i medici quali la localizzazione, l’intensità e la durata del dolore alla testa, che – nonostante i farmaci somministrati – non si attenuò nel corso delle tre ore che la paziente fu trattenuta in ospedale, tant’è che il consenso alle dimissioni fu sottoscritto dal M. e non dalla moglie che non era in condizioni di farlo. Tali fattori non potevano sfuggire ad una attenta osservazione e, lo si ripete, avrebbero dovuto ragionevolmente indurre il neurologo a non consentire le dimissioni della donna e a sottoporla al più presto ad un esame strumentale atto a confermare o fugare ogni dubbio”.

Ed, ai fini della sussistenza del rapporto eziologico fra il comportamento ritenuto omissivo dei sanitari ed il momento di insorgenza dell’emorragia, ha considerato che “proprio il brevissimo lasso di tempo intercorso tra il primo ricovero con le dimissioni della T. ed il secondo ricovero, lascia ragionevolmente presumere che l’insorgenza dell’aneurisma sia da porre nelle ore in cui la paziente fu trattenuta in ospedale per il primo ricovero, sicchè è configurabile il nesso causale fra il comportamento omissivo del medico ed il pregiudizio subito: infatti, attraverso un criterio necessariamente probabilistico, deve ritenersi che l’opera dei sanitari, se correttamente e prontamente prestata, avrebbe avuto serie ed apprezzabili probabilità di evitare il danno verificatosi”.

Emerge dalle risultanze del materiale probatorio acquisito agli atti e non contestato (dichiarazione n. 7802 del 22.7.1995 del registro bianco all.to n. 1 alla produzione di parte convenuta – fascicolo di primo grado con sottoscrizione del rifiuto di ricovero), che la T., in occasione del primo ricovero presso l’ospedale, richiese di essere dimessa, nonostante il parere del neurologo, che le aveva consigliato un ricovero precauzionale.

In questo contesto risulta anche in fatto – ulteriore circostanza non contestata – che M.C., coniuge della T., in sede di interrogatorio formale deferitogli nel giudizio di primo grado, alla prospettazione del ricovero della moglie, affermò “….quando il dottore mi propose il ricovero replicai che non mi sembrava necessario trattandosi di un semplice mal di testa…. firmai io il c.d. Registro bianco”.

Tali emergenze probatorie lasciano dubbiosi in ordine alla qualificazione come negligente del comportamento, in tale circostanza, dei medici che consentirono le dimissioni della paziente.

Dimissioni che, nel contesto indicato, non potevano essere rifiutate, non sussistendo alcuna ipotesi di ricovero coattivo.

Ma, ancor di più, il dubbio sulla correttezza del ragionamento operato dalla Corte di merito si evidenzia con riferimento all’affermazione secondo cui “l’esito degli accertamenti neurologici effettuati in occasione del primo ricovero, non era significativo” per l’esistenza di aspetti “che avrebbero dovuto “insospettire” i medici quali la localizzazione, l’intensità e la durata del dolore alla testa, che – nonostante i farmaci somministrati – non si attenuò nel corso delle tre ore che la paziente fu trattenuta in ospedale”.

Anche in questo caso, le risultanze documentali – di cui da atto la stessa sentenza – riferiscono, in occasione del primo ricovero della T. presso il Pronto Soccorso dell’azienda ospedaliera, di una diagnosi di cefalea vasomotoria e delle terapie alla stessa praticate.

Inoltre, – secondo quanto emerge dagli atti -, il neurologo, che sottopose in questa circostanza a visita specialistica la donna, in sede di esame testimoniale nel giudizio di primo grado, dichiarò che la diagnosi di cefalea vasomotoria era stata supportata dalla anamnesi positiva per precedenti episodi e ricoveri presso centri specialistici per lo studio delle cefalee, specificando di avere effettuato esame neurologico ed esame del fondo dell’occhio (che, se positivo avrebbe evidenziato la presenza di spandimenti emorragici), risultati entrambi negativi, proponendo, comunque, il ricovero in reparto neurologico.

In questo contesto gli aspetti di “sospetto” quali “……la localizzazione, l’intensità e la durata del dolore alla testa, che – nonostante i farmaci somministrati – non si attenuò nel corso delle tre ore che la paziente fu trattenuta in ospedale” paiono perdere, di per se stessi, di significato inequivoco, a fronte di un quadro clinico sintomatico di cefalea vascolare che – secondo quanto riporta la sentenza impugnata – avevano condotto il neurologo a consigliare il ricovero “per tenere sotto osservazione l’evolversi delle condizioni della paziente”; ricovero, come già detto, rifiutato.

Ma, ciò che appare dirimente è che la Corte di merito è pervenuta all’affermazione di responsabilità della ricorrente omettendo, ai fini dell’accertamento del nesso di causalità fra comportamento omissivo ed evento letale, di procedere al necessario ragionamento controfattuale.

Nell’affermare, infatti, che i medici, non solo non avrebbero dovuto consentire le dimissioni della donna, ma avrebbero dovuto subito praticare quegli esami strumentali che potessero fugare ogni dubbio o confermarlo e prevenire l’ictus avvenuto poche ore dopo, hanno attribuito alla mancata indagine strumentale effettuato attraverso una TAC efficacia causale dell’evento letale.

Non si sono posti, però il problema se, in assenza di sintomi caratteristici e con l’effettuazione di tutte le procedure del caso, il quadro clinico delineato era tale da imporre l’esame diagnostico della TAC al fine di prevenire l’emorragia subaracnoidea, o comunque da attenuarne le conseguenze.

Non si sono cioè domandati se le condizioni cliniche della paziente, accertate con gli strumenti corretti, ed in assenza di sintomi attestanti in atto alterazioni neurologiche, come si ricava dalla sentenza impugnata, prevedessero come dovuta anche l’effettuazione di una TAC; in sostanza, se la TAC in quelle circostanze fosse prescritta dai protocolli medici come misura di prevenzione doverosa, di modo che la sua omissione fosse causalmente connessa con l’evento verificatosi.

In sostanza le due domande che la Corte di merito avrebbe dovuto porsi erano:

1) Se le condizioni concrete accertate a seguito del primo ricovero della T. fossero tali da esigere l’effettuazione – come protocollo medico – di una tac. 2) Se l’indagine strumentale mediante TAC, ove compiuta, sarebbe stato in grado, con elevate probabilità, di scongiurare l’evento, o, comunque, da circoscriverne gli effetti dannosi.

Quest’ultimo quesito nasce dalle risultanze della consulenza tecnica, con la relazione integrativa del c.t.u. ed i chiarimenti resi in appello secondo cui “All’atto del primo ricovero della sig.ra T.V. presso l’A.O. (omissis) non sussistevano gli elementi clinico-anamnestici e strumentali per procedere ad una valutazione diagnostica diversa”.

E ciò in considerazione degli stessi rilievi effettuati dal consulente tecnico per i quali “Dall’attenta disamina della documentazione sanitaria, si può facilmente supporre che l’emorragia cerebrale che ha condotto all’exitus la de cuius si è verificata poco prima del secondo ricovero presso il Pronto Soccorso dell’Ospedale (omissis), allorquando la stessa versava già in condizioni cliniche molto gravi essendo in stato comatoso”.

Verifica questa che ha condotto il consulente d’ufficio a ribadire che, nemmeno in termini di elevata probabilità, l’emorragia cerebrale avrebbe potuto essere diagnosticata già all’atto del primo ricovero.

A questi interrogativi la Corte di merito, o non ha risposto, o la risposta è carente.

Così, l’affermazione dell’esistenza del nesso di causalità fra comportamento omissivo e pregiudizio subito è avallata dalla circostanza secondo cui “Proprio il brevissimo lasso di tempo intercorso tra il primo ricovero con le dimissioni della T. ed il secondo ricovero, lascia ragionevolmente presumere che l’insorgenza dell’aneurisma sia da porre nelle ore in cui la paziente fu trattenuta in ospedale per il primo ricovero”.

Ma la presunzione di ragionevolezza, in questo caso, pare apodittica se si tiene conto delle osservazioni che precedono, alle quali la Corte di merito non ha dato risposta.

Vero è che nella materia della responsabilità professionale del medico, il nesso causale sussiste anche quando, attraverso un criterio necessariamente probabilistico, si possa ritenere che l’opera del medico, se correttamente e prontamente prestata, avrebbe avuto serie ed apprezzabili possibilità di evitare l’evento verificatosi (Cass. 27.4.2010 n. 10060; e Cass. 11.5.2009 n. 10743).

Ma nella specie, il percorso logico che il giudice di merito avrebbe dovuto seguire doveva articolarsi in due momenti: il primo teso ad affermare la doverosità dell’esame diagnostico-strumentale mediante TAC, al fine di accertare l’esistenza di una colpa medica; il secondo (subordinamente alla risposta positiva al primo quesito) finalizzato all’accertamento del nesso di causalità (se cioè il tempestivo accertamento diagnostico mediante TAC avrebbe potuto – con elevato grado di credibilità razionale – impedire l’evento).

Ora, per le ragioni già illustrate, la sentenza impugnata non fornisce alcuna motivazione sulla doverosità di tale esame diagnostico, alla luce dei protocolli medici in vigore e alla stregua della sintomatologia palesata dalla paziente. Non avendo affrontato il problema della colpa, viene ad essere ininfluente, ai fini del decidere, la tematica del nesso di causalità.

In questa prospettiva, l’accertamento del nesso causale mediante il criterio probabilistico, al quale viene ancorato il giudizio di responsabilità dei sanitari per l’omissione (mancata tac) nella loro attività operativa – che “se correttamente e prontamente prestata, avrebbe avuto serie ed apprezzabili probabilità di evitare il danno verificatosi” – perde di decisività.

In definitiva, soltanto dopo aver dato risposta ai quesiti che precedono (colpa e causalità, senza sovrapposizione dei reciproci piani), la Corte di merito avrebbe potuto ritenere la sussistenza o meno della responsabilità riconosciuta ai medici ed alla struttura sanitaria per l’opera negligentemente fornita alla paziente.

A queste domande dovrà fornire risposta il giudice del rinvio.

Con il quarto motivo denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 106 e 346 c.p.c..

Il motivo non è fondato.

E’ principio pacifico (da ultimo Cass. 26.11.2010 n. 24021; Cass. 11.6.2010 n. 14086) che la parte pienamente vittoriosa nel merito in primo grado non abbia l’onere di proporre, in ipotesi di impugnazione proposta dal soccombente, appello incidentale per richiamare in discussione le eccezioni e le questioni che risultino superate o assorbite, difettando di interesse al riguardo.

E’ soltanto tenuta a riproporle espressamente, nel nuovo giudizio, in modo chiaro e preciso, così da manifestare in forma non equivoca la sua volontà di chiederne il riesame; e ciò al fine di evitare la presunzione di rinuncia derivante da un comportamento emissivo, ai sensi dell’art. 346 c.p.c.. Ora, nel caso in esame, l’Azienda Ospedaliera, vittoriosa nel giudizio di primo grado, in quello di appello promosso dagli attuali resistenti, al fine di evitare la presunzione di rinuncia, pur non dovendo proporre appello incidentale sul punto, avrebbe dovuto richiamare, nei suoi atti difensivi, la domanda di garanzia proposta, nei confronti della RAS Assicurazioni, chiamata a tal fine in causa nel giudizio davanti al tribunale.

Invece, – come sottolineato nella sentenza in questa sede impugnata – “Nè nella comparsa di costituzione, nè negli atti successivi vi è stato un sia pur vago accenno alla predetta domanda, nè essa è stata richiamata nella comparsa conclusionale”; con la conseguente, implicita rinuncia a far valere la domanda di garanzia.

Nè alcun rilievo può essere attribuito alle circostanze in questa sede dedotte al fine di dimostrane la sua sostanziale riproposizione – per le quali, in sede di costituzione in appello, l’Azienda avrebbe reiterato “tutte le difese spiegate in primo grado ivi compresa la formulata domanda di garanzia nei confronti dell’impresa di assicurazione”; che gli attori – appellanti avevano espressamente esteso la domanda anche nei confronti del terzo – chiamato, e che quest’ultimo, nel costituirsi nel giudizio di appello, aveva “spiegato difese di merito limitandosi a contestare gli assunti e le domande attoree, senza nulla dedurre in ordine al profilo procedurale rilevato dalla Corte partenopea”.

La necessità che la domanda di garanzia sia riproposta in modo chiaro ed univoco toglie pregio alle difese sul punto avanzate, non potendo l’effetto estensivo dell’accoglimento dell’appello condurre tout-court alla condanna del garante, trattandosi di rapporti, petita e causae petendi diversi, senza che siano consentiti equipollenti ai requisiti della chiarezza e precisione di tale domanda, sufficienti a renderla ineguivocamente intellegibile per la controparte ed il giudicante (v. anche Cass. 14.12.2005 n. 27570).

Nè la condotta processuale del garante acquista, in una tale evenienza, rilevanza alcuna, potendo una statuizione di condanna – sulla base del rapporto di garanzia – conseguire esclusivamente ad una corretta proposizione e riproposizione della relativa domanda nei suoi confronti.

Conclusivamente, sono accolti i primi tre motivi nei sensi di cui in motivazione; è rigettato il quarto.

La sentenza è cassata in relazione, e la causa rinviata alla Corte d’Appello di Napoli in diversa composizione.

Le spese sono rimesse al giudice del rinvio.

P.Q.M.

La Corte accoglie i primi tre motivi nei sensi di cui in motivazione.

Rigetta il quarto. Cassa in relazione e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’Appello di Napoli in diversa composizione.

Redazione