Il detenuto può ottenere un permesso di necessità per consumare il matrimonio?

Iovino Elena 08/02/16
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La Suprema Corte, Prima Sezione Penale, con sentenza n. 882/2016, emessa in data 20.09.2015 e depositata in data 12.01.2016, ha respinto il ricorso presentato da un detenuto avverso il rigetto della richiesta, da lui stesso presentata, al competente Tribunale di Sorveglianza per la concessione di un permesso di necessità per incontrare la consorte presso una casa di accoglienza al fine di consumare il matrimonio contratto nel corso della detenzione, quale evento necessario per evitare l’annullamento del matrimonio stesso.

La Corte di Cassazione, confermando i precedenti orientamenti sul punto, ha stabilito che tale circostanza non costituisce grave motivo per legittimare la concessione del permesso al detenuto ai sensi dell’art. 30 della Legge 354/1975, c.d. Ordinamento penitenziario, confermando il provvedimento del Tribunale di Sorveglianza.

Sostiene la Suprema Corte che tale permesso di necessità non costituisce un beneficio premiale, ma è invero concesso limitatamente ai “casi di imminente pericolo di vita di un familiare o di un convivente e, solo eccezionalmente, per eventi familiari di particolare gravità”. Esso si configura quale misura concedibile a qualsiasi condannato, a prescindere da una soglia minima di pena già espiata o dalla positiva valutazione della condotta in carcere, unicamente in presenza di situazioni eccezionali e di emergenza caratterizzate da gravità irreparabile attuale o, comunque, concretamente probabile, come nei casi di morte di un familiare o convivente ovvero di imminente pericolo di vita per gli stessi.

Pertanto, ritiene la Corte che la necessità di consumare il matrimonio contratto durante la detenzione, benché circostanza di “speciale rilevanza”, non rientri nell’interpretazione estensiva della nozione di “evento familiare di particolare gravità” ai sensi dell’art. 30 dell’Ordinamento Penitenziario.

Anche in osservanza di quando riconosciuto più volte dalla Corte Edu, le restrizioni alla vita privata e familiare sono da considerarsi insite nella condanna alla detenzione, essendo legittime qualora non eccedano quanto necessario alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati. Nondimeno, nel caso di specie, attesa la gravità dei reati per i quali il ricorrente è condannato, tra cui sono inclusi associazione di tipo mafioso ex art. 416 bis c.p., omicidio ex art. 575 c.p., estorsione ex at. 629 c.p. ed altri, con pena complessiva di anni 24, mesi 5 e giorni 25 di reclusione e fine pena fissato nell’anno 2034, le limitazioni alla vita privata e familiare subite dal ricorrente risultano proporzionate agli scopi perseguiti dalla legge con l’esecuzione della pena.

Sentenza collegata

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