Capacità lavorativa generica e specifica (Trib. Brindisi, 6/2/2013) (inviata dal Dott. A. I. Natali)

Redazione 06/02/13
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Incapacità lavorativa generica – incapacità lavorativa specifica – danno patrimoniale – configurabilità

Danno biologico e, quindi, non patrimoniale, dovrebbe considerarsi il danno all’integrità psico-fisica e non anche il pregiudizio consistente nell’inidoneità (totale o parziale, tanto generica quanto specifica) allo svolgimento di qualunque attività lavorativa che, per contro, ha natura essenzialmente patrimoniale.

 

Capacità lavorativa generica – Capacità lavorativa specifica – differenze sotto il profilo ontologico – non configurabilità – diversa graduazione quantitativa – configurabilità

Non si comprende quale differenza esista sotto il profilo ontologico fra la capacità lavorativa generica e quella specifica, se non la diversa graduazione quantitativa delle stesse, alludendo la prima all’inidoneità all’espletamento di una qualunque attività, suscettibile di dare luogo a reddito e la seconda ad un’incapacità “settoriale” o limitata, perché circoscritta ad attività individuali e specifiche; pertanto, differenziare le due categorie di pregiudizio ha quale conseguenza logica, invero discutibile, che il danno sia da considerarsi patrimoniale o non patrimoniale, a secondo della minore o maggiore incidenza su un medesimo bene della vita: l’attitudine del soggetto al lavoro.

 

Danno alla capacità lavorativa generica – riconduzione al danno non patrimoniale di tipo biologico – contraddittorietà con autonomia del danno biologico da riflessi reddituali ed economici

La riconduzione della compromissione della generica attitudine a svolgere un lavoro al danno non patrimoniale di tipo biologico appare in contrasto con l’affermata – e inveterata – autonomia del danno biologico da riflessi reddituali ed economici ed, in particolare, dalle potenzialità lavorative del danneggiato.

 

FATTO E DIRITTO

Anche la domanda di risarcimento del danno di tipo patrimoniale, proposta dagli attori, é fondata in parte qua.

Deve premettersi che la F. A. ha eccepito la novità della domanda relativa al danno da perdita della capacità lavorativa specifica, perché non ritualmente proposta in giudizio.
Nondimeno, tale eccezione deve ritenersi infondata in virtù del chiaro tenore testuale dell’atto di citazione in cui gli attori deducono espressamente che alla L. è residuata “una grave forma depressiva che comporta una pressochè totale capacità di attendere ad una qualsiasi attività lavorativa”. Nelle memorie ex art. 183 c.p.c. si precisa che il lucro cessante è costituito dalla “diminuzione permanente della capacità lavorativa dei genitori, causata dalla necessità di limitare la propria attività per accudire un bambino…..”.
Ciò premesso, nel merito, assumono gli attori, genitori di *****, che, a far data dalla nascita del figlio E. non avrebbero più potuto condurre una vita regolare ed, in particolare, avrebbero subito un’apprezzabile compressione della propria capacità lavorativa.
In particolare, la sig.ra L. non avrebbe potuto svolgere alcuna attività lavorativa e ciò in considerazione dell’assistenza continuativa, prestata al figlio così come dello stato psicologico di costante preoccupazione per le condizioni fisiche del figlio, tali da rendere attuale il pericolo di un improvviso malore dello stesso.
Tale stato psicologico di tensione emotiva e disagio sarebbe andato sempre più aggravandosi anche in virtù della naturale propensione del bambino a vivere una vita normale e, quindi, a partecipare ai giochi e alle attività dei compagni di scuola.
Essi vivrebbero la propria vita con attenzione costantemente rivolta al piccolo E. e con l’apprensione che questi possa sentirsi male.
Orbene, non costituisce circostanza contestata inter partes che la sig.ra L. non svolge alcuna attività lavorativa e che, per contro, il sig. G. è dedito all’attività di escavatorista.
Deve premettersi che l’accertamento di una compromissione definitiva dell’integrità psico-fisica non comporta l’insorgenza, per ciò solo, del danno patrimoniale da perdita della capacità di attendere ad un’occupazione lavorativa.
Infatti, costituisce principio consolidato che il diritto al risarcimento del danno patrimoniale da lucro cessante non può farsi discendere in modo automatico dall’accertamento dell’invalidità permanente, poiché esso sussiste solo se tale invalidità abbia prodotto una riduzione della capacità lavorativa specifica. E la liquidazione di tal ultimo pregiudizio (come danno permanente e futuro) può avvenire con criteri equitativi solo dopo che sia stata verificata con la prova scientifica medico-legale la gravità e permanenza della invalidità al lavoro specifico.
A tal fine, il danneggiato è tenuto a dimostrare, anche tramite presunzioni, di svolgere un’attività produttiva di reddito e di non aver mantenuto, dopo l’infortunio, una capacità generica di attendere ad altri lavori confacenti alle sue attitudini personali (Cassazione civile sez. III; 11 dicembre 2012, n. 22638).
E all’ipotesi in cui il danneggiato sia dedito attualmente allo svolgimento di una determinata attività lavorativa deve essere assimilata quella in cui – pur essendo il danneggiato disoccupato o inoccupato – tale dedizione debba essere presunta sulla base delle circostanze specifiche del caso di specie ed, in particolare, delle peculiari attitudini e capacità del soggetto, nonché del suo percorso formativo e professionale (cfr. Cassazione Civile sez. III, 19 luglio 2012, n. 12463, secondo cui “In tema di risarcimento danni a seguito di sinistro, non può farsi discendere in modo automatico dall’invalidità permanente la presunzione del danno da lucro cessante, atteso che tale danno deriva solo da una lesione che abbia prodotto una riduzione della rapacità lavorativa specifica. Detto danno patrimoniale deve essere accertato in concreto attraverso la dimostrazione che il soggetto leso svolgesse – o presumibilmente in futuro avrebbe svolto – un’attività lavorativa produttiva di reddito, ed, inoltre, attraverso la prova della mancanza di persistenza, dopo l’infortunio, di una capacità generica di attendere ad altri lavori, confacenti alle attitudini e condizioni personali ed ambientali dell’infortunato, ed altrimenti idonei alla produzione di altre fonti di reddito, in luogo di quelle perse o ridotte”).
Ciò premesso, e’ invalsa l’opinione, in via interpretativa, per cui le Sezioni Unite, sentenza del 11 novembre 2008 n. 26973, allorchè hanno recepito la definizione complessa del danno biologico, avrebbero inteso includere in tale macro-categoria anche la posta del danno per la perdita della capacità generica.
Ciò in omaggio alla tradizione interpretativa prevalente già prima dell’operazione classificatoria, compiuta dalle Sezioni Unite.
In particolare, introducendo un distinguo netto fra danno non patrimoniale alla capacità lavorativa generica e danno patrimoniale alla capacità lavorativa specifica, si afferma che, in caso di illecito lesivo della integrità psicofisica della persona, la riduzione della capacità lavorativa generica, quale potenziale attitudine alla attività lavorativa da parte di un soggetto che non svolge attualmente attività produttive di reddito, né sia in procinto presumibilmente di svolgerla, sarebbe risarcibile come danno biologico – nel quale dovrebbero essere ricompresi tutti gli effetti negativi del fatto lesivo che incidono sul bene della salute in sé considerato (Cassazione civile sez. III, 01 dicembre 2009; Cassazione civile sez. III, 14 giugno 2012, n. 9708, secondo cui “nella nozione di danno biologico rientrano tutte le ipotesi di danno “non reddituale”, compresi i danni alla vita di relazione e i danni da riduzione della capacità lavorativa generica”).
Nondimeno, è di immediata rilevabilità come nulla la pronuncia delle Sezioni Unite – pur perseguendo la c.d. “biologizzazione” del danno non patrimoniale – abbia affermato in relazione all’inquadramento concettuale della compromissione della generica capacità di attendere ad un’attitudine lavorativa.
Peraltro, l’opinio de qua sembra non convincente ove si consideri che biologico e, quindi, non patrimoniale, dovrebbe considerarsi il danno all’integrità psico-fisica e non anche il pregiudizio consistente nell’inidoneità (totale o parziale) allo svolgimento di qualunque attività lavorativa che, per contro, ha natura essenzialmente patrimoniale.
D’altra parte, non si comprende quale differenza esista sotto il profilo ontologico fra la capacità lavorativa generica e quella specifica, se non la diversa graduazione quantitativa delle stesse, alludendo la prima all’inidoneità all’espletamento di una qualunque attività, suscettibile di dare luogo a reddito e la seconda ad un’incapacità “settoriale” o limitata, perché circoscritta ad attività individuali e specifiche.
Differenziare le due categorie di pregiudizio ha quale conseguenza logica, invero discutibile, che il danno sia da considerarsi patrimoniale o non patrimoniale, a secondo della minore o maggiore incidenza su un medesimo bene della vita: l’attitudine del soggetto al lavoro.
Peraltro, la riconduzione della compromissione della generica attitudine a svolgere un lavoro al danno non patrimoniale di tipo biologico appare in contrasto con l’affermata – e inveterata – autonomia del danno biologico da riflessi reddituali ed economici ed, in particolare, dalle potenzialità lavorative del danneggiato.
Come precisato dalla Corte Costituzionale, n. 184/’86, tale voce di danno non si identifica – come pure si era ritenuto agganciando la risarcibilità del danno biologico alla capacità lavorativa del soggetto – con l’attitudine a produrre ricchezza del danneggiato.
Concezione che ingenerava il paradosso, al contempo, dell’irrisarcibilità del danno biologico, subito da chi fosse sprovvisto di un’attività lavorativa e della commisurazione del danno all’occupazione del soggetto o, persino – secondo un’inammissibile visione della società, rigidamente ripartita per classi – dei genitori.
Né l’esigenza che il danno non patrimoniale di tipo biologico sia personalizzato ed adeguato al principio dell’integralità del risarcimento può costituire ragione sufficiente per ricomprendere, in tale categoria, anche il pregiudizio alla prima delle suddette capacità.
Ciò in quanto l’obiettivo della congruità e integralità della misura risarcitoria, accordata, nel caso di specie, è conseguibile – anche più efficacemente – attraverso un diverso inquadramento del danno da compromissione della capacità lavorativa generica, da considerarsi quale voce di danno patrimoniale e non, invece, “non patrimoniale”.
Orbene, nel caso di specie, la problematica de qua si pone con minore pregnanza avendo il consulente d’ufficio, quantificato la diminuzione della capacità lavorativa (sia generica sia specifica) della sig.ra L. nella misura del 25%, così fornendo elementi di giudizio idonei a supportare l’assunto di un’apprezzabile incidenza della nascita “non desiderata” sulle potenzialità lavorative dell’attrice.
Le conclusioni del medico legale, sono condivise dal Tribunale, in quanto basate su un sufficiente esame anamnestico, condotto alla stregua di criteri medico-legali immuni da errori e vizi logici. E senza dubbio non può costituire, di per sé, motivo di censura la riconosciuta identica compromissione delle due capacità, generica e specifica.
Né si può revocare in dubbio l’idoneità dello strumento della Ctu – di per sé deputata ad accertamenti specialistici – a offrire elementi di valutazione di tale compromissione.
Peraltro, per le ragioni suesposte, non rileva ai fini dell’esclusione del risarcimento del danno da perdita della capacità lavorativa specifica l’assenza di attualità quanto allo svolgimento dell’attività di babysitter o di insegnante privata.
Il suddetto pregiudizio è risarcibile anche quando la compromissione inerisca ad una capacità lavorativa specifica che – sulla base delle caratteristiche culturali e del percorso formativo del danneggiato – debba presumersi si sarebbe attualizzata nel corso della vita di tal ultimo.
Ciò premesso, sotto il profilo del quantum, deve condividersi il principio interpretativo, oramai consolidato nella prassi giudiziale, secondo cui la soglia minima da considerare ai fini della quantificazione del risarcimento per ridotta capacità lavorativa è quella pari ai triplo della pensione sociale (da ultimo Cass. 15/5/2012 n. 7531); criterio di commisurazione cui – per la sua idoneità ad assicurare una tutela minima di un diritto non privo di rilevanza costituzionale – deve riconoscersi valenza generale e che prescinde, ai fini della sua operatività, dalla condizione di “disoccupato” del danneggiato.
Infatti, come ribadito, di recente, in via interpretativa, ai fini della determinazione del reddito da considerare ai fini del risarcimento del danno per invalidità permanente, l’art. 4 del D.L. n. 857 del 1976, convertito in legge n. 39 del 1977 – dopo aver indicato (primo comma) i criteri da adottarsi con riguardo ai casi di lavoro, rispettivamente, autonomo e subordinato -, allorché stabilisce (terzo comma) che “in tutti gli altri casi” il reddito da considerare ai suddetti fini non può essere inferiore a tre volte l’ammontare annuo della pensione sociale, ricomprende in tale ultima previsione non solo l’ipotesi in cui l’invalidità permanente ed il conseguente danno futuro siano stati riportati da soggetti che non siano lavoratori autonomi o dipendenti, ma anche quella, più generale, in cui il danno futuro incida su soggetti attualmente privi di reddito, ma potenzialmente idonei a produrlo (Cassazione, sez. III, 6 marzo 2012, n. 3447; Cass. 6 agosto 2007 n. 17179).
Ne consegue l’assimilazione, sotto il profilo interpretativo, del danno recato al disoccupato, alle ipotesi in cui il danneggiato, pur essendo percettore di reddito, ometta di produrre le dichiarazioni fiscali, ovvero sia percettore di un reddito inferiore al triplo della pensione sociale (che, come già evidenziato, costituisce una soglia minima e indefettibile di risarcimento).
Né, nel caso di specie, avuto riguardo alle verisimili (buone) condizioni fisiche e psichiche dell’attrice, al momento del parto – e in assenza di elementi di giudizio idonei a far ritenere che la L. fosse già affetta da postumi invalidanti – può ritenersi che l’attrice, prima del fatto illecito – sub specie dell’omessa diagnosi delle malformazioni del feto – fosse priva di qualunque attitudine reddituale.
Facendo applicazione, al caso di specie, del suddetto principio (ed, in particolare, del metodo della “capitalizzazione indicizzata”), il calcolo della liquidazione (L) si effettua moltiplicando il reddito fiscale annuale (R), del soggetto all’epoca del sinistro – in tal caso, pari al triplo della pensione sociale per l’anno 2013 (pari ad euro 4.738,50 per l’anno 2013) ovvero euro 14215,5 – per la percentuale di invalidità permanente (25%) e per il coefficiente (c) corrispondente all’età del soggetto desunto dalle tabelle per la costituzione delle rendite vitalizie immediate, in tal caso pari a 18.439, il tutto diviso per 100: L = R x %I x c / 100.
Il valore così ottenuto, in tal caso pari ad euro 65.529.90, viene tradizionalmnete ridotto del 10-30% per compensare lo scarto tra vita fisica e vita lavorativa (maggiore nelle attività dipendenti manuali o impiegatizie, minore nelle attività autonome e nelle professioni intellettuali).
Nondimeno, ritiene questo Giudice che, adottandosi i coefficienti di capitalizzazione della rendita fissati nelle tabelle di cui al R.D. 9 ottobre 1922, n. 1403, e, quindi, un parametro di quantificazione risalente nel tempo, sia necessario adeguare detto risultato ai mutati valori reali dei due fattori posti a base delle tabelle adottate.
Occorre, infatti, tenere conto dell’aumento della vita media e della diminuzione del tasso di interesse legale e, onde evitare una divergenza tra il risultato del calcolo tabellare ed una corretta e realistica capitalizzazione della rendita, prima ancora di “personalizzare” il criterio adottato al caso concreto, si deve “attualizzare” lo stesso, o aggiornando il coefficiente di capitalizzazione tabellare o non riducendo più il coefficiente a causa dello scarto tra vita fisica e vita lavorativa” (Cass. sentenza 5 giugno 2012, n. 8985).
A tale seconda opzione intende aderire questo Giudice in quanto idonea ad assicurare la rispondenza della misura risarcitoria al pregiudizio realmente subito dall’attrice.
Quanto alla posizione del G. F., si è già evidenziato come il tessuto dei diritti e dei doveri che secondo l’ordinamento si sia incentrato sul fatto della procreazione – quali si desumono dalla legge 194 del 1978, sia dalla Costituzione e dal codice civile, quanto ai rapporti tra coniugi ed agli obblighi dei genitori verso i figli (artt. 29 e 30 Cost., artt. 143 e 147, 261 e 279 cod.civ.) – giustifichi perché anche il padre rientri tra i soggetti protetti dal contratto ed in confronto del quale la prestazione del medico è dovuta.
Ne deriva che l’inadempimento é tale anche verso il padre ed espone il medico al risarcimento dei danni, immediati e diretti, che pure al padre possono derivare dal suo comportamento.
Né rileva che l’uomo possa essere coinvolto dalla donna nella decisione circa l’interruzione della gravidanza, ma non chiederla.
Ciò attiene al nesso causale. La madre, pur informata, può scegliere di non interrompere la gravidanza: l’ordinamento non consente al padre di respingere da sé tale eventualità e nulla potrebbe imputarsi al medico.
Ma, sottratta alla donna la possibilità di scegliere, al che è ordinata l’esatta prestazione del medico, gli effetti negativi di questo comportamento si inseriscono in una relazione col medico cui non è estraneo il padre, rispetto alla quale la prestazione inesatta o mancata si qualifica come inadempimento e giustifica il diritto al risarcimento dei danni che ne sono derivati.
Certamente la decisione di interrompere la gravidanza, dalla L. n. 194/1978, può essere presa solo dalla donna, previo esame e riconoscimento delle sue condizioni di salute (come sopra si è detto).
Da ciò discende che il padre non ha titolo per intervenire in siffatta decisione e la Corte Costituzionale ha riaffermato la legittimità costituzionale di tale scelta legislativa (ord. 31/3/1988, n. 389, ed in parte C.Cost. 5/5/1994, n. 171).
Sennonché diversa questione è quella relativa al danno che il padre del nascituro potrebbe subire, perché altri hanno impedito alla stessa di esercitare il diritto di interruzione della gravidanza, che essa (e solo essa) legittimamente poteva esercitare.
A venire in rilievo non é un diritto del padre del nascituro ad interrompere la gravidanza della gestante, che certamente non esiste, ma solo se la mancata interruzione della gravidanza, determinate dall’inadempimento colpevole del sanitario, possa essere a sua volta causa di danno, per il padre del nascituro. La risposta al quesito è, come si è detto positiva, e, poiché si tratta di contratto di prestazione di opera professionale con effetti protettivi anche nei confronti del padre del concepito, che, per effetto dell’attività medica professionale diventa o non diventa padre (o diventa padre di un bambino anormale), il danno provocato da inadempimento del sanitario, costituisce una conseguenza immediata e diretta anche nei suoi confronti e, come tale è risarcibile a norma dell’art. 1223 c.c.”.
Nel caso di specie, si è già evidenziato come non siano censurabili le valutazioni espresse dal ctu con riguardo all’insussistenza di pregiudizi di natura psico-fisica per il padre, essendo notorio che i soggetti di sesso maschile possono, in determinate condizioni, affrontare gli eventi traumatici, anche di particolare intensità, con maggiore forza, così impedendo il consolidarsi di postumi permanenti.
Nondimeno, risponde ad una regola di esperienza di difficile smentita, che lo stesso abbia sofferto e soffra per quanto riscontrato al proprio figliolo, così come che lo stesso partecipi a tutte le ansie e preoccupazioni che riguardano la quotidiana vita del figlio medesimo. Ciò è in rerum natura.
Orbene, sotto il profilo delle risultanze istruttorie, il Ctu ha affermato che l’attività lavorativa del G. non sarebbe inficiata da alcuna psicopatologia, ma ha, comunque, affermato di aver riscontrato “una struttura di personalità connotata da tendenze all’impulsività e introversive” a suo dire non collegate ad uno stato depressivo. Ritiene questo Giudice che le dette caratteristiche psicologiche – per quanto inidonee, come già evidenziato a dare luogo a postumi permanenti – siano sintomatiche dello stravolgimento del menage familiare che l’evento-nascita ha prodotto anche in relazione al padre.
Orbene, alla luce della gravità della menomazione del figlio e della qualità deteriore della propria esistenza, quale conseguenza della patologia invalidante del figlio, nonché delle ripercussioni di tale situazione sulla serenità psichica del G., quale effetto normale, secondo l’id quod plerunque accidit, di una vita passata con un figlio disabile; nonché, in ultimo, dell’idoneità di tale disagio a protrarsi per tutta la durata della relazione genitoriale, si ritiene di dover liquidare, a titolo equitativo, euro 80.000 per ciascun genitore.
Nel caso di specie, infatti, deve, presumersi alla stregua della patologia da cui è affetto il figlio, la rottura dell’equilibrio familiare, e ciò in conseguenza sia dell’impegno costante per le cure che tale patologia richiede, sia della sofferenza dei genitori rinnovata ogni giorno, con la preoccupazione per il futuro del loro figliolo, allorché non potranno più accudirlo.
Le medesime considerazioni sono estendibili alla madre cui è stato riconosciuto e liquidato un danno non patrimoniale di tipo biologico.
In conseguenza di ciò e dell’unitarietà del danno non patrimoniale (e della correlata liquidazione) si ritiene equo liquidare alla stessa ulteriori euro 60.000, per complessivi euro 125.529.90.
Sulle predette somme vanno riconosciuti – con decorrenza dal giorno dell’evento lesivo, ovvero dal 27 agosto 2001 – rivalutazione e interessi sul capitale via via rivalutato. Infatti, gli interessi che vengono a maturare sulla somma soggetta a rivalutazione devono essere calcolati tenendo conto che la rivalutazione ha natura progressiva, pertanto, “vanno calcolati non… sull’importo rivalutato della stessa, corrispondente al valore finale, bensì rapportandoli inizialmente al valore del bene al momento della fattispecie acquisitiva e quindi ai successivi mutamenti del valore di acquisto della moneta, in quanto l’utilità perduta dal creditore per effetto del ritardo nell’adempimento e compensata dagli interessi non è pari né a tale valore né a quello iniziale, ma subisce un incremento via via crescente per effetto dell’inflazione, sicché il punto di riferimento per il calcolo degli interessi non può essere costante” (Cass. sezioni Unite 1995).

L’equità calibrata
A tale esito liquidatorio si perviene anche facendo applicazione del criterio dell’equità calibrata in luogo del c.d. criterio equitativo “puro”, che rinviene la propria legittimazione nell’art. 1226 c.c.; norma applicabile anche in materia di illecito aquiliano per effetto dell’espresso richiamo operato al suddetto dall’art. 2056 c.c. al fine delinea lo statuto della responsabilità da illecito extracontrattuale.
Infatti, il criterio equitativo puro, in assenza di criteri uniformi che concorrano alla determinazione della base risarcitoria, si presta, tendenzialmente, a soluzioni risarcitorie che sono condizionate essenzialmente dalla sensibilità del Magistrato.
Da ciò, la necessità di indispensabili correttivi.
In particolare, una dottrina autorevole propone lo strumento dell’equità calibrata. Poiché il criterio equitativo si offre a soluzioni risarcitorie così disparate, il Giudice, a fronte della singola fattispecie concreta, deve avere contezza dei precedenti giurisprudenziali, riferiti alle singole patologie di danno non patrimoniale portate all’esame dei magistrati; e, sulla base di questi precedenti giurisprudenziali, secondo una sorta di ideale scala di valori, dovrebbe “procedere a una modulazione proporzionale, ma sempre in senso equitativo del danno”.
Per cui, se, a fronte della lesione del diritto a intrattenere relazioni sessuali, si risarciscono X mila euro, a fronte della lesione del diritto a intrattenere il rapporto parentale col congiunto defunto – quale ipotesi significativamente più grave di lesione di diritti della personalità – si dovrebbe liquidare un’entità economica apprezzabilmente superiore.
Quindi, l’interprete, in sostanza, secondo la tesi dell’equità calibrata, deve avere presenti quelli che sono i precedenti giurisprudenziali relative alla singole ipotesi di danno non patrimoniale risarcibile, e poi, in considerazione di questi precedenti, modulare concretamente il risarcimento in relazione alla fattispecie portata alla sua attenzione.
Orbene, proprio avuto riguardo alle misure risarcitorie riconosciute a fronte di pregiudizi non patrimoniali di rango inferiore (si pensi al danno morale derivante da lesioni di lieve entità o a quello riconducibile ad un’ipotesi di diffamazione, a mezzo stampa), nonché a fronte di eventi lesivi del tipo di quello dedotto in giudizio, si ritiene equa la riparazione economica accordata nel caso di specie.
Le spese – liquidate come da dispositivo – seguono la soccombenza (dell’A. BR1 e degli eredi del D. F. nonché della F.-Sai S.P.A).
Si è già evidenziato come entrambi i medici convenuti siano censurabili per negligenza e imperizia per il non aver riscontrato le anomalie da cui era affetto il feto, esaminando le eseguite ecografie, e per non aver disposto ulteriori e più approfondite indagini e che, al contempo, solo la condotta del dott. D. é rilevante sotto il profilo risarcitorio, ponendosi quale condizione dotata di efficienza causale rispetto al mancato esercizio del diritto all’aborto dell’attrice.
Tale accertamento fattuale induce questo Giudice a ritenere equa la compensazione delle spese fra gli attori e G.G..

 

P.Q.M.

Il Tribunale, definitivamente pronunciando sulla domanda proposta da G. F. e L. A. M., nei confronti della A.S.L. BR/1, in persona del rappresentante pro tempore nonche’ di G.G., M.M., di D. M., ************ nonche’di F.S., in persona del loro legale rappresentante pro tempore, così provvede:
1) condanna l’A., gli eredi del D. F., in solido, al pagamento, in favore della L., a titolo di risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale (diverso da quello biologico), di euro 125.529.90, oltre interessi legali e rivalutazione con decorrenza dal giorno dell’evento lesivo, ovvero dal 27 agosto 2001;
2) in accoglimento della domanda spiegata dal convenuto D. nei riguardi della F.-S. S.P.A., dichiara tal ultima tenuta a tenere indenne gli eredi del convenuto degli eventuali esborsi conseguenti alla condanna, e, per l’effetto, condanna la società de qua al pagamento del relativo importo;
3) condanna l’A., gli eredi del D. F., in solido, al pagamento in favore di G. F., a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale, di euro 80.000.00 oltre interessi legali e rivalutazione con decorrenza dal giorno dell’evento lesivo, ovvero dal 27 agosto 2001;
4) condanna l’A. , gli eredi del D. F., F.-Sai S.P.A in solido, al pagamento, in favore degli attori, delle spese di giudizio che liquida in complessivi € 10.000,00, oltre iva e cap come per legge;
5) compensa le spese di giudizio fra gli attori e G.G., così tra tal ultimo e ************;
6) condanna la F.-Sai S.P.A al pagamento, in favore degli eredi del D. F., delle spese di giudizio che liquida in complessivi € 8.000,00, oltre iva e cap come per legge;
7) pone, definitivamente, le spese di CTU a carico, in solido, dell’A. , degli eredi del D. F., della F.-Sai S.P.A.

 

IL GIUDICE
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Redazione