Buste paga “gonfiate” per eludere le imposte (Cass. pen. n. 3071/2013)

Redazione 21/01/13
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Svolgimento del processo

1. Con sentenza del 9 febbraio 2012 la Corte d’appello di Catanzaro, pronunciandosi sull’appello di D.L.C. e T. P. avverso sentenza del Tribunale di Castrovillari del 16 febbraio 2009 – che li aveva ritenuti responsabili dei delitti loro ascritti (ex D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2, per avere, rispettivamente nelle dichiarazioni dei redditi Modello Unico 2004 e 2005 e nelle dichiarazioni dei redditi Modello Unico 2006 e 2007, in qualità di legale rappresentante di Le Colonne S.r.l., per evadere l’imposta sui redditi e l’Iva indicato alla voce “costi-stipendi personale dipendente” elementi passivi fittizi rispettivamente per un importo complessivo di Euro 116.496,09 e 112.060,98, avvalendosi delle buste paga dei dipendenti riportanti importi superiori a quelli effettivamente loro corrisposti) e, concesse le attenuanti generiche, li aveva condannati ciascuno alla pena di anni uno di reclusione -, in riforma della sentenza di primo grado, applicando il D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2, comma 3, rideterminava la pena inflitta in mesi otto di reclusione ciascuno, oltre a pene accessorie di interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese per sei mesi, di incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione e di rivestire funzione di rappresentanza e assistenza in materia tributaria per un anno, di interdizione perpetua dall’ufficio di componente di commissione tributaria e di pubblicazione della sentenza.

La sentenza aveva rilevato che il procedimento penale era derivato da una attività ispettiva della Guardia di Finanza, che aveva raccolto informazioni sull’adempimento fiscale dell’impresa anche attraverso questionari rivolti ai dipendenti; le dichiarazioni rese dai dipendenti e i questionari da questi compilati erano stati correttamente utilizzati dal giudice di primo grado, essendo stati raccolti dalla Guardia di Finanza in sede amministrativa prima che emergessero indizi di reità in ordine al reato contestato (articolo 220 disp. att. c.p.p.). Inoltre nell’ipotesi non potrebbe prospettarsi la inutilizzabilità delle prove, bensì la nullità, la cui disciplina sarebbe quella prevista dall’art. 178 c.p.p., lett. c), e nel giudizio di primo grado la difesa non ha sollevato alcuna eccezione al momento dell’acquisizione della documentazione in udienza.

Osservava altresì la corte che gli imputati non avevano contestato la differenza tra quanto riportato nelle dichiarazioni dei redditi e quanto effettivamente corrisposto ai dipendenti, ma evidenziato come le retribuzioni, anche se non erogate, dovevano essere riportate nel conto economico dell’esercizio di competenza, affinchè la società potesse dedurle ai fini della determinazione del reddito. Ciò però non considera la differenza tra il reddito d’impresa e il reddito fiscale: nella specie, essendo l’ammontare delle retribuzioni inferiore rispetto a quanto riportato nelle buste paga e quindi nel bilancio, si sarebbe dovuta effettuare una variazione in aumento, in applicazione dei criteri di valutazione della normativa tributaria, del risultato del conto economico, per dare atto di costi fiscalmente deducibili di ammontare inferiore rispetto all’ammontare civilistico.

La corte riteneva poi, dopo avere modificato il trattamento sanzionatorio, di applicare d’ufficio le pene accessorie come da dispositivo D.Lgs. n. 74 del 2000, ex art. 12, poichè il divieto della reformatio in peius non contempla le pene accessorie, che, ex art. 20 c.p., conseguono di diritto alla condanna come suoi effetti penali.

2. Contro la sentenza hanno presentato ricorso, a mezzo del difensore, gli imputati, fondandolo su tre motivi.

Il primo motivo è violazione di legge ex art. 606 c.p.p., lett. c, e vizio motivazionale. Premesso che vi è violazione delle norme sull’acquisizione delle prove in giudizio nella parte della motivazione in cui si ritiene che i questionari possono essere sufficienti per provare la condotta criminosa, si osserva che la corte reputa che tali atti siano stati validamente acquisiti e quindi pienamente utilizzabili. Ma non può esservi coincidenza tra acquisizione di atti al fascicolo del dibattimento e dichiarazione di utilizzabilità degli stessi per la decisione: trattasi di ricognizioni amministrative che, nel processo penale, sebbene raccolte ex art. 220 disp. att. c.p.p., devono essere confermate in dibattimento da testimonianze. Dunque vi è stata violazione di legge consistente in una illegittima acquisizione di dati probatori che si sono inseriti nella struttura argomentativa della motivazione procurando anche un vizio motivazionale.

Il secondo motivo richiama quanto esposto nei motivi d’appello sulla effettiva correttezza delle scritture contabili, osservando che la corte sposta il problema nella differenza tra reddito fiscale e reddito di impresa. Ma la società presentava una situazione contabile da cui era possibile evincere che, a fronte di un certo ammontare di retribuzioni, vi era un debito che coincideva con quanto non effettivamente versato ai dipendenti: i giudici di merito sono incorsi in un travisamento della prova laddove hanno considerato esposizione di falsi elementi negativi di reddito costi che erano comunque indicati nel conto economico della S.r.l..

Il terzo motivo denuncia la violazione del divieto di reformatio in peius ex art. 597 c.p.p., comma 3. Infatti la Corte d’appello, in assenza di gravame del pubblico ministero, ha applicato le pene accessorie, così violando la ratio che l’imputato miri ad ottenere un esito del processo migliore emettendo invece una sentenza peggiore.

Motivi della decisione

3. Il ricorso è parzialmente fondato.

Il primo motivo deduce violazione delle norme sull’acquisizione delle prove e correlato vizio motivazionale, negando la coincidenza tra l’acquisizione di atti al fascicolo del dibattimento e la loro utilizzabilità per la decisione, occorrendo la conferma in dibattimento da parte di testimoni delle ricognizioni amministrative raccolte ex art. 220 disp. att. c.p.p.. L’asserto è palesemente infondato, giacchè l’inserimento di un atto nel fascicolo di dibattimento, anche qualora sia erroneo, lo rende utilizzabile ai fini della decisione in difetto di tempestiva opposizione delle parti, tranne nell’ipotesi – qui non ricorrente, visto l’art. 220 disp. att. c.p.p. – in cui sia stato acquisito secondo un procedimento contra legem (Cass. sez. 3^, 5 aprile 2011 n. 24410; Cass. sez. 4^, 8 luglio 2008 n. 33387). E correttamente la sentenza impugnata ha motivato in tal senso, evidenziando che l’inutilizzabilità delle prove attiene, appunto, alle prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge. Il motivo è pertanto infondato.

Il secondo motivo ripropone, come si è visto, quanto addotto in appello sulla effettiva correttezza delle scritture contabili, sostenendo che dalla situazione contabile della società era possibile evincere il debito relativo alle retribuzioni non versate ai dipendenti e che la corte avrebbe travisato, considerando esposizione di falsi elementi negativi di reddito costi indicati nel conto economico della società. E’ evidente che la corte non è incorsa in un travisamento fattuale, bensì ha ritenuto che vi sia differenza tra il reddito d’impresa, come risultante dal bilancio d’esercizio, e il reddito fiscale, giacchè al conto economico che è il risultato di esercizio si devono aggiungere o detrarre le variazioni derivanti dalla normativa tributaria. La corte in tal modo ha operato una valutazione di puro diritto. Anche questo motivo va perciò disatteso.

Il terzo motivo concerne la reformatio in peius per avere la corte, in violazione dell’art. 597 c.p.p., comma 3, in assenza di appello del pubblico ministero applicato le pene accessorie. In effetti, le pene accessorie sono applicabili in appello, qualora non le abbia applicate il giudice di primo grado, quali effetti penali ex art. 20 c.p. (da ultimo, Cass. sez. 6^, 14 giugno 2011 n. 31358), vale a dire – visto il principio della reformatio in peius, appunto – se l’applicazione discende direttamente dalla norma come conseguenza necessaria della condanna (Cass. sez. 3^, 22 gennaio 2008 n. 8381).

Nel caso di specie, dunque, legittima è da ritenersi l’applicazione solo delle pene accessorie di interdizione dalla partecipazione come componente alla Commissione Tributaria e di pubblicazione della sentenza, per le ulteriori pene accessorie dovendosi disporre l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata per violazione dell’art. 597 c.p.p., comma 3.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alle pene accessorie diverse dal divieto di partecipazione come componente della Commissione Tributaria ed alla pubblicazione della sentenza.

Redazione