Beni immobili: forma che deve rivestire il mandato a vendere (Trib. Brindisi, 30/6/2011) (inviata da A. I. Natali)

Redazione 30/06/11
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Dopo una breve disamina della differenza fra forma scritta richiesta per la validità del contratto e forma scritta richiesta a soli fini probatori, si affrontano le varie tesi sulla forma del mandato ad vendendum.

FATTO E DIRITTO
Con atto di citazione, il sig. P. U. conveniva innanzi a codesto Tribunale il sig. P. R. per ivi veder accertare e riconoscere l’inadempimento all’obbligo, rinveniente dal compromesso di vendita, stipulato in data 31.5.2004, e, per effetto del disposto dell’art. 2932 cc, emettere sentenza con la quale disporre il trasferimento in capo all’attore della quota di comproprietà degli immobili siti in Ostuni alla C.da La Chiusa, per il prezzo di stima valutato ed accettato nella misura di complessivi £ 25.000.000 pari ad € 12.911,42 e, quindi, per un corrispettivo di € 537,97 pari ad 1/24 equivalente alla quota di comproprietà ricevuta dal convenuto in eredità.
Chiedeva, inoltre, condannarsi il convenuto al pagamento delle spese del giudizio.
Assumeva l’istante che, in data 18.3.2000, era deceduto in Ostuni il sig. A. A., senza lasciare testamento. A questi succedevano, per successione legittima, la sorella ************* e n° 10 nipoti figli dei tre fratelli premorti.
Per le difficoltà di gestire tale comunione pro indiviso e per facilitare le operazioni necessarie alla dichiarazione di successione, gli eredi P. U. e M. conferivano mandato all’Agenzia P. di procedere alla presentazione della denuncia di successione, alla stima e, quindi, alla vendita dei beni caduti in successione costituiti da un appartamento sito in Ostuni alla via Fabbri 17, un fondo con fabbricato rurale sito in agro di Ostuni alla C.da La Chiusa e da un fondo sito sempre alla C.da La Chiusa di mq 5000.
Il sig. P. provvedeva alle formalità necessarie alla dichiarazione di successione e stimava l’appartamento in £ 150.000.000, il fondo con fabbricato rurale in £ 20.000.000 mentre il valore del fondo rustico in £ 5.000.000.
A questo punto, l’Agenzia P. raccoglieva il mandato da tutti gli altri eredi per trattare e definire la vendita. Tutti i coeredi, quindi, sottoscrivevano atto con il quale espressamente accettavano i valori di stima indicati. Anche il sig. P. R. conferiva detto mandato con atto del 6.4.2001, accettando espressamente i valori di stima.
Per i due fondi in C.da La Chiusa il sig. P. U. manifestava al P. la sua volontà di acquistarli al prezzo stimato.
Il P., quindi, con formale lettera del 19.4.01 comunicava a tutti i coeredi l’offerta ricevuta invitandoli ad esprimersi .
A tale missiva rispondeva solo il coerede P. R. il quale, con lettera del 25.4.01, si dichiarava disposto all’acquisto di uno solo dei due fondi, quello con fabbricato rurale. Non provvedeva, però, a versare alcun acconto a titolo di caparra e, in piena contraddizione con quanto in precedenza assunto, invitava il P. ad astenersi da qualunque atto in sua vece e per suo conto ritenendo sconveniente vendere il bene ad un coerede e assumendo che fosse preferibile vendere detti terreni a terzi.
In data 2.5.2001, il sig. P. U., facendo seguito alla sua offerta di acquisto, inviava al P. copia della promessa di acquisto con assegno bancario di £ 5.000.000, a titolo di caparra.
Con successiva lettera del 8.5.2001 il sig. U. faceva rilevare che, se il germano non condivideva la stima dei beni, poteva nominare un suo perito di fiducia per procedere ad altra stima.
Il sig. R. si sarebbe disinteressato della vicenda, non facendo sapere più nulla.
Successivamente, in data 13.8.2003, decedeva una delle coeredi lasciando a sua volta altri tre eredi.
A questo punto, i beni caduti in successione, ad eccezione della casa di via Fabbri già venduta, nel Luglio del 2001, appartenevano a ben 13 coeredi.
Nelle more, il sig. ***** faceva sapere al sig. P. di non essere interessato ad alcun acquisto e, se non vi erano altre offerte, stante lo stato di abbandono dei fondi e le sollecitazioni degli altri coeredi, di procedere alla sottoscrizione del compromesso rimasto in sospeso .
In data 31.5.2004, quindi, il sig. P., in forza del mandato ricevuto da tutti i coeredi, stipulava regolarmente preliminare di vendita con il sig. P. U..
Nella stessa data del 31.5.2004 il sig. P. inviava regolare racc.r.r. al sig. P. R. ricostruendo le varie fasi dei rapporti intercorsi e comunicava di aver sottoscritto l’atto di compromesso, stanti le pressioni dei coeredi che intendevano concludere la divisione ereditaria,.
Aggiungeva, inoltre, che laddove avesse voluto procedere all’acquisto del fondo con fabbricato rurale, come a suo tempo dichiarato, il fratello U. era disponibile a consentire il suo subentro. In tal caso si richiedeva l’assenso scritto per l’acquisto, unitamente all’importo di € 1.549,37 per la restituzione della quota proporzionale di caparra, tanto per consentire al notaio di procedere alle dovute correzioni.
Anche a questa missiva il sig. R. non faceva seguire alcuna comunicazione, disinteressandosi completamente.
A tal punto il sig. P. con lett.r.r. del 8.7.2004 comunicava a tutti i coeredi che, seguendo la medesima procedura già seguita per la vendita della casa aveva proceduto alla sottoscrizione della promessa di vendita con il sig. P. U., rimasta sospesa dal lontano 2001, a causa del coerede R..
Anche per questa missiva, il sig. R. non si sarebbe preoccupato di procedere al ritiro presso l’ufficio postale e, quindi, la stessa ritornava al mittente per compiuta giacenza.
Il completo disinteresse manifestato dal sig. R. avrebbe fatto sì che il sig. U. si preoccupasse di avviare il lavoro per la stipula dell’atto notarile che veniva fissata prima per la data del 8.4.2005 e poi per la data del 29.4.2005.
Per entrambe le date, il sig. P. si preoccupava di notificare al fratello R. formale atto di diffida a comparire per procedere alla stipula ma, in entrambe le occasioni, questi non sarebbe comparso né si sarebbe preoccupato di comunicare la sua volontà.
Con atto notarile del 29.4.2005, quindi, il P. acquistava da tutti gli altri coeredi le rispettive quote di comproprietà così come da compromesso di vendita del 31.5.2004.
All’udienza di comparizione fissata per il 13.6.06, stante la mancata costituzione del convenuto il Giudice ne dichiarava la contumacia.
All’udienza del 29.9.06, si costituiva in giudizio il sig. P. R., il quale chiedeva, in via preliminare, di essere riammesso in termini con conseguente revoca della dichiarazione di contumacia.
In particolare, assumeva che, pur non avendo mai cambiato la propria residenza anagrafica, di fatto, viveva in altra via perché separato dalla moglie e per questi motivi non aveva avuto notizia della citazione.
Nel merito, assumeva che, in virtù della lettera del 25.4.2001, il sig. P. non poteva agire in nome e per conto del sig. *****, non essendone il rappresentante.
Deduceva, quindi, la qualità di falsus procurator del sig. P., ritenendolo unico responsabile per eventuali danni patiti; chiedeva, quindi, di chiamare in causa quest’ultimo quale unico responsabile della mancata stipula dell’atto definitivo.
Con ordinanza del 29.9.2006, questo G.U. rigettava la richiesta di rimessione in termini avanzata dal convenuto, fissando per il prosieguo l’udienza del 11.1.2007.
La causa, pertanto veniva istruita a mezzo di interrogatorio formale del convenuto e prova per testi.
A conclusione dell’istruttoria, le parti precisavano le rispettive conclusioni e la causa veniva rinviata per l’udienza per la discussione.

La domanda proposta è infondata per le ragioni che si vanno ad esplicitare.
La vicenda de qua prende le mosse dall’apertura di una successione legittima, con conseguente necessità di addivenire alla divisione dei beni in comunione ereditaria.
Assume valore dirimente, ai fini della decisione, la ricostruzione della valenza giuridica da riconoscersi all’atto di conferimento, da parte di tutti gli eredi, del mandato all’Agenzia P..
Con tale mandato, i coeredi dichiaravano di accettare la stima dei beni ereditari e, quindi, conferivano il potere al mandatario di trattare e definire la vendita ai valori stimati. Peraltro, ciascuno dei coeredi avrebbe potuto procedere all’acquisto dei singoli cespiti o di tutti i beni ai medesimi prezzi.
Il mandatario, quindi, in esecuzione del mandato ricevuto poneva in essere gli atti necessari alle vendite, per, poi, ripartire il ricavato, tra i quali il compromesso relativo al bene per cui é causa.

Forma del mandato a vendere beni immobili, cenni generali sulla forma scritta ad probationem e ad substantiam

La legge non prescrive la forma del mero mandato ad vendendum (dunque, senza contestuale conferimento di poteri rappresentativi).
D’altronde, la produzione di effetti meramente obbligatori, e la conseguente preclusione di effetti diretti nel patrimonio del titolare della res, costituiscono indici sintomatici della sufficienza, ai fini della validità della fattispecie, della c.d. forma libera.
Piu’,in generale, è noto come le due funzioni più significative, che la forma può assumere in ambito negoziale, sono quella ad substantiam e quella ad probationem.
I contratti che devono essere stipulati, a pena di nullità, in forma scritta, c.d. contratti “formali”, sono elencati nell’art. 1350 c.c. e possono essere redatti sia nella forma della scrittura privata sia in quella dell’atto pubblico.
Peraltro, vi sono determinati contratti, che devono necessariamente essere stipulati per atto pubblico (donazione, contratto costitutivo di società di capitali, convenzioni matrimoniali), nel qual caso, si preferisce parlare di contratti solenni.
Si deve ritenere che il requisito della forma scritta, in quanto limite all’autonomia negoziale delle parti, quale valore dotato di indiretta copertura costituzionale, possa essere richiesto solo ove ricorra una delle ipotesi tassativamente previste dalla legge.
D’altronde, successivamente all’entrata in vigore del codice del 1942, si è accreditata la tesi secondo cui il nostro ordinamento avrebbe recepito il principio della libertà di forma – quale corollario della suddetta autonomia negoziale e rispondente all’esigenza di celerità del traffico giuridico – in virtù del quale le parti potrebbero manifestare, nel modo che preferiscono il loro intento negoziale, ad eccezione di alcuni casi eccezionalmente previsti dalla legge.
Dunque, il rapporto tra libertà delle forme e contratti solenni si atteggerebbe in termini di rapporto tra regola ed eccezione, con conseguente non applicabilità, in via analogica, delle norme che sanciscono oneri formali.
Inoltre, assumerebbero rilevanza i cc.dd. equipollenti della sottoscrizione, ossia i comportamenti che “tengono luogo” della sottoscrizione eventualmente mancante.
La terza conseguenza, riconducibile al suddetto principio, consisterebbe, invece, nella limitazione della forma rispetto al contenuto, nel senso che, operando la regola della libertà della forma, quest’ultima dovrebbe ricoprire il solo c.d. contenuto minimo del contratto, consistente – secondo la tesi prevalente – nei soli elementi essenziali.
Come noto, l’altra applicazione funzionale della forma scritta, ovvero quella ad probationem, implica che un determinato fatto o atto giuridico (ad esempio, un contratto) debba essere necessariamente provato per iscritto.
Orbene, la prova per iscritto non deve consistere, necessariamente, nella produzione del documento che traspone, per iscritto, la manifestazione di volontà contrattuale. Infatti, integra il requisito della forma scritta anche una lettera, un’intimazione, una quietanza, un qualunque documento o supporto scritto, da cui possa evincersi che il contratto è stato stipulato.
Non necessariamente, dunque, il documento deve contenere una volontà negoziale, ma anche una dichiarazione di scienza.
Anche in relazione a tale seconda variante funzionale della forma, si deve ritenere che le ipotesi tipiche, anch’esse derogatorie rispetto al principio della libertà della forma, siano di stretta interpretazione.
Peraltro, solo nell’ambito della legislazione “consumieristica” degli anni ’90, la forma del contratto è divenuto requisito generale di validità. Essa, quale strumento di protezione del c.d. contraente debole (consumatore, risparmiatore, acquirente), assolve alla funzione innovativa di requisito procedimentale per assicurare un consenso pieno e informato alla stipulazione del contratto.
Ed, infatti, la forma è richiesta fin dalla fase precontrattuale. Si pensi all’art. 4, comma 1, del DL 22 maggio 1999 n. 185 (protezione dei consumatori nei contratti a distanza) così come all’art. 116 TU n. 385 del 1993, che si preoccupa di specificare che le informazioni pubblicizzate non costituiscono offerta al pubblico a norma dell’art. 1336 c.c.).
La mancata osservanza del dovere di informazione per iscritto comporta la nullità del contratto e, nello stesso tempo, la responsabilità precontrattuale della parte cui incombeva l’obbligo informativo.
Orbene, è evidente che la generalizzazione della forma con riguardo ad uno specifico ambito materiale e di interessi, peraltro dettato dall’esigenza di approntare idonea tutela del contraente debole, non può essere addotto in favore di un più generale formalismo negoziale, specie quando fra le parti non ricorra quella asimmetria di poteri e di forza contrattuale che ha ispirato la scelta del legislatore speciale.
Inoltre, quando una determinata forma – quella scritta – sia richiesta dalla legge non ai fini della prova, bensì ad validitatem, si ritiene che, in tal caso, anche la prova della nascita del vincolo contrattuale deve essere scritta.
La differenza tra le due ipotesi si rinviene, sul piano probatorio, allorché la prova scritta manchi.
Infatti, mentre nel caso di forma scritta ad probationem, la parte, in mancanza del documento – non nel senso che il documento è stato redatto ma è andato smarrito, ma proprio nel senso che il contratto non è stato perfezionato in forma scritta – può deferire all’altra parte il giuramento decisorio o può ottenere una confessione; quando la forma è richiesta a pena di nullità, neppure la confessione o il giuramento possono essere sufficienti a supplire alla mancanza del documento, perché se l’atto non è stato perfezionato per iscritto e, dunque, è nullo, si deve considerare improduttivo di effetti giuridici ed una dichiarazione confessoria sul fatto che l’accordo è stato concluso sarebbe priva di rilievo giuridico.
Essa non rileva nè quale elemento integrante il contratto e ciò anche quando contenga il preciso riferimento ad un contratto concluso per iscritto.
Peraltro, in tale ipotesi, la prova può ritenersi integrata solo se il documento costituisca l’estrinsecazione formale diretta della volontà negoziale delle parti e non anche quando esso si limiti a richiamare un accordo altrimenti concluso, essendo in tal caso necessario che anche tale accordo rivesta la forma scritta e contenga tutti gli elementi essenziali del contratto non risultanti dall’altro documento, senza alcuna possibilità di integrazione attraverso il ricorso a prove storiche, non consentite dall’art. 2725 c.c.
Tornando al caso di specie, ovvero al mandato a vendere senza rappresentanza, si deve ritenere che non ricorrano quelle esigenze di tutela, poste a fondamento della forma scritta ad substantiam, di cui alle ipotesi di cui agli artt. 1350 e 1392 cod.civ, rispettivamente, in materia di forma dei contratti “formali” e di forma della procura, avente ad oggetto la stipula di contratti, richiedenti la forma scritta.
Invero, da parte della giurisprudenza di legittimità, si è affermato il principio opposto, ovvero quello della necessità della forma scritta, in materia di mandato senza rappresentanza ad acquistare beni immobili (cfr. per tutte Cass. Civ. Sez. III, 6063/1998 ).
Dopo tale pronuncia, è stata immediata la tentazione di estendere la regola della forma scritta anche alla diversa ipotesi del mandato ad alienare.
Si è notato come non vi siano ragioni giuridicamente apprezzabili per differenziare il regime formale delle due fattispecie.
D’altronde, le due fattispecie presenterebbero una stretta identità sotto il profilo effettuale, consistendo nell’attribuzione del potere di compiere atti giuridici nell’interesse del mandante (così Cass. Civ. Sez. II, 1137/03, secondo cui “il mandato, con o senza rappresentanza, così ad acquistare come a vendere beni immobili richiede, ad substantiam, la forma scritta. Al riguardo è privo di qualsiasi fondamento l’assunto secondo cui la forma scritta sarebbe necessaria solo per il mandato ad acquistare e non per quello a vendere, attesa la perfetta identità di effetti, giammai traslativi ma semplicemente attributivi del potere di compiere atti giuridici nell’interesse (nel senso di mandato senza rappresentanza) o in nome e per conto (nel caso di mandato con rappresentanza) del mandante, derivante dal conferimento del mandato a vendere o a acquistare beni”).
Nondimeno, la suddetta posizione esegetica è stata radicalmente contraddetta, essendo stato, per contro, enucleato il principio della inammissibilità del mandato a vendere quando esso abbia ad oggetto beni immobili o mobili registrati (Cass. Civ., Sez. III, 8393/03, secondo cui “il mandato ad alienare senza rappresentanza non è ammissibile, in modo particolare per i beni immobili e mobili registrati”).
In particolare, si evidenzia l’assenza di un qualunque fondamento normativo o logico, in favore della tesi che sostiene la necessità della forma scritta.
Né, invero, pare dirimente il riferimento all’investitura, in favore del mandatario, dei poteri di compiere atti giuridici per conto del mandante e vincolanti per tal ultimo.
Infatti, tali poteri non sono dotati di rilevanza “esterna”, non essendo il mandatario facultato alla spendita del nomen del mandante (effetto che è, invece, tipico della rappresentanza diretta).
Invero, anche la tesi giurisprudenziale dell’inammissibilità del mandato a vendere immobili sembra inidonea a cogliere la sostanza del fenomeno de quo.
Infatti, a rilevare non è la praticabilità di un mandato avente ad oggetto la vendita di diritti reali immobiliari, quanto l’efficacia dello stesso.
Esso produce effetti interni, obbligatori per le parti; diversamente, deve concludersi per quanto concerne i terzi, per i quali il mandato si sostanzia in una res inter alios acta, mero fatto giuridico, come tale inidoneo alla produzione di effetti giuridici.
Ciò premesso, nel caso di specie, il sig. P. non poteva agire in nome e per conto del sig. *****, non essendone il rappresentante, ma mero mandatario.
Ne consegue che il preliminare concluso dal P., in virtù della mancata spendita del nome del mandante, non comporta altro effetto che quello di obbligare il mandatario a procurare all’ acquirente l’intestazione del bene
Opera, nel caso di specie, il generale principio in virtù del quale non è consentito porre in essere atti vincolanti e, quindi, idonei alla produzione di obblighi nella sfera giuridica di soggetti terzi.
D’altronde, anche quando, come nell’ipotesi del contratto a favore di terzo, l’effetto sia favorevole per la sfera giuridica del terzo estraneo alla convenzione contrattuale, dando luogo ad un accrescimento della sua sfera giuridica, l’ordinamento sostanziale prevede meccanismi idonei a neutralizzare il suddetto effetto.
Infatti, il terzo ha, infatti, la facoltà di rifiutare l’effetto, determinandone il consolidamento, in capo al soggetto stipulante.
Ne consegue che la domanda attorea deve essere rigettata.
In considerazione della peculiarità della fattispecie e del complessivo comportamento delle parti, si ritiene equo compensare le spese del presente giudizio, nella misura della metà.

P.Q.M.

Il Giudice, definitivamente pronunciando sulla domanda proposta da P. U., nei confronti di P. R., così provvede:
1) rigetta la domanda;
2) compensa tra le parti, nei limiti della metà le spese di giudizio che liquida in complessivi €. 3.000,00, di cui euro 80,00 per spese, euro 1.720,00 per diritti ed € 1.200,00 per onorario, oltre iva, cap ed esborsi forfettizzati come per legge, e che pone solo per la metà, a carico del convenuto.

IL GIUDICE
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