Bancarotta: nessuna differenza tra gli amministratori di una società di persone ed una di capitali (Cass. pen. n. 42522/2012)

Redazione 02/11/12
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Svolgimento del processo

1. Il 14/04/2011 la Corte di appello di Firenze confermava la sentenza di condanna emessa dal Tribunale della stessa città il 01/12/2008 nei confronti di P.V. ed A., ai quali era stata irrogata la pena di anni 2 di reclusione ciascuno, oltre a pene accessorie di legge, per il delitto di cui all’art. 236, in relazione alla *******., artt. 216, 219 e 223, con il beneficio della sospensione condizionale.

La Corte territoriale, dopo un analitico excursus sulle vicende del processo e sulle ragioni che avevano portato alla dichiarazione della penale responsabilità degli imputati in primo grado, si soffermava sui motivi di appello proposti nell’interesse dei medesimi, ritenendone l’infondatezza.

In primo luogo, reputava doversi respingere il gravame con riguardo alla presunta non previsione del fatto contestato come reato: secondo la tesi difensiva la L. Fall., art. 236, comma 2, n. 1, richiamando i soli artt. 223 e 224, avrebbe dovuto essere interpretato nel senso della esclusione della rilevanza penale di condotte di bancarotta, nei casi di concordato preventivo, quando ascrivibili ad un imprenditore individuale od ai soci illimitatamente responsabili di una società in nome collettivo (fattispecie regolate invece dalla L. Fall., artt. 216 e 222, non richiamati dall’art. 236 cpv.). La Corte disattendeva le argomentazioni difensive, che facevano leva sull’impossibilità di dare ingresso nell’ordinamento penale ad un procedimento ermeneutico fondato sull’analogia in malam partem: ad avviso dei Giudici di secondo grado, l’amministratore di una società in nome collettivo avrebbe dovuto comunque qualificarsi come imprenditore.

Inoltre, considerava infondato il motivo di appello volto a negare la configurabilità di condotte di distrazione, vuoi sul piano materiale che su quello dell’elemento soggettivo. Secondo la difesa, era sì accaduto che il (omissis) fosse stata redatta una annotazione attestante lo storno alla voce “sopravvenienze passive” di una posta imputata al conto “soci c/c”, dove erano andati a sommarsi i prelievi di somme effettuati dagli stessi soci nel corso degli ultimi tre anni: ma quell’operazione non era – come invece sotteso dall’impianto accusatorio – volta ad occultare le distrazioni delle somme in parola in sede di chiusura dei conti al (omissis), e dunque di presentazione delle scritture al Tribunale in uno con la domanda di ammissione al concordato preventivo, bensì a dare atto dell’azzeramento del credito della società nei riguardi degli imputati a fronte di detti prelievi, conformemente alla realtà dei fatti. Ciò perchè, nel contempo, i P. conferivano al concordato preventivo beni immobili personali, di valore nettamente superiore ai credito appena ricordato: in tal modo realizzando una restituzione delle risorse che durante la gestione dell’attività imprenditoriale avevano destinato ad altri impieghi, qualora si fosse voluto sostenere che gli immobili erano stati acquistati con i fondi prelevati. In definitiva, vi era stata una serie di prelievi volti a soddisfare le esigenze della famiglia P., in un regime di confusione di patrimoni proprio delle società di persone, e successivamente – peraltro, prima del decreto di ammissione al concordato e dunque prima della presunta consumazione del reato – un conferimento di beni di maggior valore.

La Corte considerava al contrario, conformemente alla valutazione operata del Tribunale, che tra le due partite non fosse possibile una compensazione, dato che i prelevamenti – per un totale di circa 358.000.000 di lire – avevano determinato una “distrazione secca” in pregiudizio della società, mentre la cessione degli immobili non era avvenuta come atto abdicativo unilaterale, bensì con la previsione espressa di un corrispettivo (pari a 480.000.000 di lire) e dietro la condizione sospensiva dell’effettiva omologa del concordato. Inoltre, non si era trattato neppure di atti riconducibili agli stessi soggetti, visto che i prelievi erano da attribuire agli imputati mentre la cessione dei beni alla società avveniva da parte dei loro familiari: ed era financo accaduto che gli stessi immobili, a distanza di tempo, fossero stati venduti ad un valore addirittura inferiore rispetto al prezzo che la società si era comunque impegnata a versare alle parti cedenti.

Per le medesime ragioni, riteneva la Corte di appello non configurabile neppure l’attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 6, non essendo ascrivibile agli imputati (bensì, in massima parte, a loro congiunti) il comportamento volto a elidere le conseguenze negative della precedente condotta.

2. I P. propongono un comune ricorso per cassazione, articolato in due motivi.

2.1 Con il primo motivo i ricorrenti deducono violazione e falsa applicazione della *******., artt. 236, 223 e 216, argomentando che la Corte territoriale non avrebbe dovuto ritenere le norme in tema di bancarotta applicabili ai casi di concordato preventivo verificatisi con riguardo a società in nome collettivo, pena la violazione del principio di tassatività delle fattispecie incriminatrici: rilevano in particolare che il disposto di cui al citato art. 236 prevede ipotesi di responsabilità – richiamando i precedenti artt. 223 e 224 – soltanto a carico di amministratori, direttori generali, sindaci e liquidatori di società, senza dunque contemplare gli imprenditori individuali od i soci illimitatamente responsabili di società di persone, in particolare in nome collettivo.

Nè potrebbe osservarsi (come invece sostenuto nella sentenza impugnata) che escludendo la rilevanza penale nei casi appena evidenziati si giungerebbe a privare di sanzione fatti in linea teorica più gravi di altri, coperti invece da fattispecie incriminatrici, stante la contrarietà al dettato costituzionale di una interpretazione che colmi un possibile vuoto di tutela forzando l’anzidetto principio di tassatività. I P. invocano a tal fine il recente intervento delle Sezioni Unite in tema di non applicabilità delle previsioni di cui alla *******., artt. 223 e 224, al liquidatore nominato nella procedura di concordato preventivo con cessione dei beni, figura concettualmente distinta da quella del liquidatore di una società stricto sensu (sent. n. 43428 del 30/09/2010, *******).

In ordine alla figura criminosa prevista dal citato art. 236, i ricorrenti rappresentano che la giurisprudenza di legittimità ha già chiarito che detta norma non reprime, in caso di ammissione a concordato preventivo o ad amministrazione controllata, i fatti di bancarotta propria realizzati dall’imprenditore individuale, rilevando in particolare che la bancarotta impropria dovrebbe considerarsi sotto vari profili di gravità maggiore, così giustificandosi la differente e più severa disciplina apprestata dal legislatore: in proposito, richiamano pronunce di questa Sezione (nn. 10517 del 29/09/1983, ******, e 12897 del 06/10/1999, **********).

Sostengono pertanto che tali principi debbono valere anche per le società di persone, il cui regime è connotato dalle stesse regole previste per l’imprenditore individuale in tema di confusione del patrimonio personale con quello dell’impresa, nonchè di illimitata responsabilità dei soci nei confronti dei creditori.

2.2 Con il secondo motivo, correlato appunto al regime patrimoniale appena descritto, i ricorrenti rilevano che la motivazione della sentenza impugnata tradirebbe erronea applicazione della *******., art. 216, sotto un ulteriore profilo, oltre a risultare comunque manifestamente illogica. Ad avviso degli imputati, deve considerarsi fatto pacifico che essi eseguirono prelievi di attivo dalla società, per scopi di routinario mantenimento proprio e delle rispettive famiglie, come normalmente si registra in tutte le società di persone salvo poi realizzare storni a fine esercizio al momento della ripartizione degli utili (sul punto, anche i consulenti escussi durante l’istruttoria dibattimentale avevano offerto dati di conferma): stando all’ipotesi accusatola, quei prelievi sarebbero ammontati a circa 358 milioni di lire.

Risulta tuttavia, al contempo, che una volta verificatasi la crisi della società per effetto di un credito rimasto insoluto, i P. presentarono domanda di concordato preventivo indicando quale componente attiva del patrimonio alcuni beni immobili intestati a loro familiari, il cui valore era attestato in 480 milioni; risulta altresì che la stima effettuata da un perito nominato dal Tribunale fu sostanzialmente conforme, avendo portato al risultato di 471 milioni, e che i beni in questione furono poi venduti dal liquidatore del concordato per circa 382 milioni di lire.

Importi, tutti, comunque superiori all’entità dei ricordati prelevamenti dalle casse sociali: con la conseguenza di dover escludere la ricorrenza del delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione, essendosi verificato in sostanza un finanziamento dei soci cui aveva fatto seguito la completa restituzione delle somme da parte loro, prima dell’apertura della procedura concorsuale.

Nel contesto appena descritto, meriterebbe pertanto censura la motivazione della sentenza della Corte di appello di Firenze che – con approccio meramente formalistico – si sofferma sui caratteri dell’atto di disposizione patrimoniale proveniente dai congiunti degli imputati, avente natura di contratto a prestazioni corrispettive, piuttosto che di atto abdicativo unilaterale, e sottoposto alla condizione che, in caso di fallimento, l’acquisizione dei beni immobili alla procedura sarebbe rimasta impedita. Quel che conta invece, non foss’altro per dimostrare l’insussistenza di qualunque finalità predatoria delle contestate distrazioni, è che “al momento topico della vicenda (la sentenza di omologa del 09/12/1998, corrispondente alla sentenza dichiarativa di fallimento ad ogni effetto penale) i signori P., sia pure tramite un insolito meccanismo giuridico e contrattuale, avevano integralmente restituito alla società ed avevano integralmente messo a disposizione della procedura l’attivo patrimoniale prelevato nel corso degli anni, attraverso l’acquisto e la messa a disposizione di beni immobili di ancor maggiore valore”.

3. Con memoria depositata il 23/06/2012, il difensore degli imputati deduce infine – in subordine rispetto all’accoglimento dei motivi di ricorso – l’intervenuta prescrizione del reato addebitato ai suoi assistiti, da intendersi commesso al più tardi il (omissis), data della sentenza di omologazione del concordato, e considerando i termini di cui all’art. 157 cod. pen. come novellato per effetto della L. n. 251 del 2005.

Motivi della decisione

1. Il ricorso non può trovare accoglimento quanto ai motivi di diritto svolti nell’interesse degli imputati; va comunque rilevata, in effetti, la sopravvenuta prescrizione del delitto in rubrica.

2. Con riguardo al primo motivo di ricorso, appare assolutamente dirimente quanto osservato dalla Corte di appello di Firenze, con argomentazioni che meritano piena condivisione, già in apertura della parte motiva, dopo la ricostruzione in fatto della vicenda processuale. Al fine di contestare l’interpretazione suggerita dagli appellanti circa la necessità di distinguere tra società di capitali e società di persone, i giudici di secondo grado evidenziano che di tale differenziazione non vi è cenno alcuno nel dettato legislativo, dal momento che “gli amministratori delle società sono … tutti destinatari della norma di cui alla *******., art. 216, comma 1, n. 1, e ciò sia direttamente, in quanto l’amministratore nella società in nome collettivo è un imprenditore come recita l’articolo, sia per il richiamo che ne fa l’art. 223, senza per questo distinguere fra società di capitali o di persone”.

In altre parole, è circostanza di fatto incontrovertibile, e non contestata dagli imputati in sede di ricorso, che essi furono amministratori della società (di persone, ma il particolare non rileva): in quanto tali, non consentendo l’appena menzionata *******., art. 223, alcuna distinzione fra tipologie di società, essi rientrano nella categoria cui detta norma incriminatrice estende in prima battuta – oltre ai direttori generali, ai sindaci ed ai liquidatori – le sanzioni previste dal precedente art. 216.; analogamente, ai sensi dell’art. 236, comma 2, essi risultano destinatari della norma che nei casi di concordato preventivo o di amministrazione controllata estende l’applicabilità delle disposizioni dello stesso art. 223 (e dell’art. 224) agli amministratori di società, nonchè, ancora una volta, ai direttori generali, ai sindaci ed ai liquidatori.

Ergo, non può rilevare il mancato richiamo, da parte del citato art. 236, agli artt. 216 e 222, perchè non ci si trova dinanzi a due imputati che furono soltanto soci illimitatamente responsabili, avendo essi esercitato anche attività gestoria della società, il che impone l’applicabilità immediata dell’art. 223 (norma, questa sì, richiamata dall’art. 236 cpv.): come si legge nella motivazione delle sentenze di questa Sezione nn. 10517/1983 e 12897/1999, non correttamente invocate dai ricorrenti a sostegno delle proprie tesi, il problema non è quello di ravvisare gli estremi per sanzionare condotte di bancarotta propria ascrivibili ad un imprenditore individuale (che, per i fatti occorsi prima dell’ammissione ad un concordato preventivo o ad una procedura di amministrazione controllata, rimangono in effetti privi di sanzione penale), bensì quello di affermare l’applicabilità delle norme incriminatrici suddette all’amministratore di una società, figura – che certamente si attaglia alla posizione dei due P. e – che viene immediatamente contemplata dalla L. Fall., art. 223, e art. 236, comma 2.

E’ dunque nel senso appena evidenziato che trova giustificazione il diverso regime nel trattamento penale della bancarotta impropria (appunto, ex art. 223, qui contestata), perchè – riportando qui un passo delle ricordate sentenze come riprodotto nei motivi di ricorso – “differenti sono i rapporti con l’impresa dell’imprenditore individuale e dei soggetti di cui alla *******., artt. 223 e 224, e profondamente diverse sono le conseguenze sull’impresa di eventuali iniziative giudiziarie penali”.

3. In ordine al secondo motivo di ricorso, la sentenza impugnata – e, già prima, quella del Tribunale – pone l’accento su argomentazioni tecniche secondo cui non sarebbe possibile individuare negli atti di disposizione patrimoniale di D.P. (moglie di P. V.) e di Pa.Al. (figlia di V., e sorella di A.) natura sostanziale e formale di restituzioni di finanziamenti di cui gli imputati si erano giovati negli anni precedenti, attingendo alle casse della società. Ciò, soprattutto, perchè per i beni immobili che le due donne mettevano a disposizione fu siglato un contratto preliminare di compravendita con cui esse si impegnavano a trasferirne la proprietà alla **************** “condizionatamente al passaggio in giudicato della (eventuale) sentenza di omologazione del concordato preventivo al quale ritiene di ricorrere la società” (come si legge nel suddetto contratto, stipulato circa due mesi prima del decreto di ammissione alla procedura concorsuale).

Si tratta, a differenza da quanto sostenuto dai ricorrenti, di motivazione ineccepibile; soprattutto se si tiene conto che – come bene evidenziato nella sentenza di primo grado – esisteva innegabilmente un credito della società nei confronti dei soci, e che tale credito “derivava da anticipazioni di utili inesistenti e comunque da prelevamenti effettuati sistematicamente per le esigenze personali dei soci, prelevamenti eseguiti fino a luglio del 1998”, vale a dire soltanto cinque mesi prima dell’ammissione del concordato preventivo. La valenza distruttiva di quei prelievi appare altresì dimostrata dalla circostanza che il 21/07/1998 era stato contabilmente azzerato mediante una inspiegabile registrazione a “sopravvenienza passiva”, come perimenti si legge nella sentenza del Tribunale, dopo che il saldo del conto “soci c/c” era salito da poco meno di 242 milioni di lire al 31/12/1997 ad oltre 358 milioni in appena sette mesi scarsi.

Altrettanto ineccepibile è dunque la considerazione svolta dal Tribunale di Firenze, secondo cui “la cessione degli immobili non può essere rapportata alla sottrazione della somma di 358 milioni di lire indicata nell’imputazione, trattandosi di fatti che si pongono su piani del tutto distinti. I beni immobili sono stati messi a disposizione da soggetti diversi per permettere alla società in nome collettivo di raggiungere il fabbisogno finanziario necessario per il pagamento del 40% dei creditori chirografari: condizione essenziale ai fini dell’ammissione al concordato preventivo. In altre parole, gli immobili erano necessari, nel contesto della domanda di concordato preventivo, per coprire una quota delle passività (che, ovviamente, erano ben superiori all’attivo) e non possono essere considerati come beni conferiti da P.V. e P. A. in restituzione delle somme illecitamente sottratte”. Senza contare che, per effetto della condizione cui era sottoposto il trasferimento immobiliare, la presunta restituzione sarebbe comunque avvenuta dopo, e non prima, l’ammissione della società alla procedura concorsuale.

4. Deve conclusivamente prendersi atto, come sollecitato dalla difesa, in via subordinata, dell’intervenuta estinzione del reato in rubrica. Alla fattispecie concreta, essendo intervenuta la sentenza di primo grado in data successiva rispetto all’entrata in vigore della legge n. 251 del 2005, debbono infatti applicarsi i più favorevoli termini di prescrizione introdotti con la richiamata novella: tenendo conto della data in cui venne emesso il decreto di ammissione della società alla procedura di concordato preventivo (09/07/2008), il termine massimo di 12 anni e 6 mesi risulta maturato il 09/06/2011, senza che dalla lettura del carteggio processuale emergano cause di sospensione.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata per essere il reato estinto per prescrizione.

Redazione