Bancarotta impropria (Cass. pen. n. 38177/2013)

Redazione 17/09/13
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Svolgimento del processo

1. Il 20/03/2012, la Corte di Appello di Milano riformava parzialmente la sentenza di condanna emessa dal G.u.p. del Tribunale di Monza il 21/12/2004, nei confronti di C.E., dichiarata colpevole in primo grado dei delitti di bancarotta fraudolenta documentale capo a), bancarotta impropria *******., ex art. 223, comma 2, n. 1, capo b) e ricorso abusivo al credito capo c), n relazione al fallimento della Ceva s.r.l., dichiarato nel (omissis).

La Corte territoriale, previa esclusione della possibilità di ritenere il reato di bancarotta documentale assorbito per ragioni di specialità nell’addebito di bancarotta impropria contestato al capo successivo, assolveva comunque la C. quanto al delitto sub a), dovendosi escludere che le scritture contabili fossero state tenute in guisa tale da impedire la ricostruzione del movimento degli affari della società fallita, operante nel settore del commercio di autoveicoli; al contempo, prendeva atto della intervenuta prescrizione del reato di cui alla *******., art. 218, rideterminando così la pena da infliggere all’imputata quanto al reato suo b) in anni 1, mesi 9 e giorni 10 di reclusione.

In motivazione, con riguardo alla tesi difensiva secondo cui la sentenza assolutoria emessa dal Tribunale di Monza il 20/05/2008 nei confronti dei componenti il collegio sindacale della stessa società (sentenza già irrevocabile, e che la difesa aveva prodotto anche ai fini di cui all’art. 238 bis c.p.p.) avrebbe dovuto riverberare effetti anche sulla posizione della C., la Corte territoriale osservava che quel giudizio assolutorio era stato fondato sulla circostanza di fatto che i sindaci erano stati in grado di controllare la situazione contabile soltanto fino alla data del 31/08/1997, vale a dire quattro mesi prima rispetto a quando era emersa la manifesta insolvenza della Ceva s.r.l., per le condizioni di inesigibilità dei crediti commerciali e la riduzione del magazzino: solo dopo il 31 agosto, infatti, era intervenuta la determinazione della casa madre “Ford” di revocare la concessione alla società poi fallita, ritirando le vetture nuove e vanificando la clausola che imponeva alla stessa **** di riacquistare al prezzo di costo i pezzi di ricambio rimasti invenduti presso la Ceva.

Ne derivava quindi l’impossibilità di estendere la valenza dirimente di quelle argomentazioni sulla posizione della C., che della **** era stata amministratrice, quantomeno con riguardo alle falsità ideologiche di cui al bilancio al 31/12/1997, dove risultavano difformi dal vero le valutazioni dei crediti commerciali e delle rimanenze di magazzino; in proposito, riteneva la Corte territoriale che quella rappresentazione contabile fosse idonea ad ingannare i terzi “determinando nel contempo, attraverso l’artificiale prosecuzione dell’attività, un aggravamento del dissesto, così da integrare tutti gli elementi del reato contestato”. I giudici di appello, in ordine all’ulteriore argomento difensivo secondo cui l’insolvenza avrebbe dovuto dirsi correlata a fattori imprevedibili di mercato intervenuti – anche per gli effetti di nuove normative di settore – solo all’inizio del 1997, con una conseguente crisi del mercato automobilistico non prevedibile in precedenza, segnalavano che “il reato di cui si tratta ricorre anche quando la condotta dell’amministratore (o liquidatore) abbia semplicemente aggravato il dissesto causato da fattori diversi”.

La Corte territoriale, infine, reputava non rilevante, essendo al più un fattore apprezzabile ai fini della quantificazione della pena, la circostanza che l’imputata avesse fornito garanzie personali e coperto nel 1995 perdite di esercizio nella misura di un miliardo di lire con denaro proprio, anche ricavato dalla vendita di un immobile di famiglia.

2. Propone ricorso per cassazione il difensore dell’imputata, rilevando innanzi tutto – premessa la già ricordata ricostruzione operata dalla Corte territoriale nel ritenere decisiva la presunta condotta ascrivibile alla C. relativamente agli ultimi quattro mesi del 1997 – che il fallimento venne dichiarato il 12/02/1998 a seguito di una istanza in proprio di appena due settimane prima, cui era allegata la situazione patrimoniale al 31/12/1997. Dopo avere sottolineato che l’addebito formulato nel capo d’imputazione riguarda presunte falsità nelle appostazioni di bilancio quanto agli esercizi 1994, 1995, 1996 e 1997, la difesa deduce quindi due motivi.

2.1 Con il primo, nell’interesse della ricorrente si lamenta inosservanza ed erronea applicazione della *******., art. 223, art. 2621 c.c., artt. 40 e 43 c.p., nonchè violazione dell’art. 238 bis c.p.p.; ciò con riguardo:

a) alla ritenuta configurabilità del reato contestato sul piano dell’elemento materiale Prendendo spunto dalle argomentazioni contenute nella sentenza prodotta ai sensi del ricordato art. 238 bis, nonchè nella perizia contabile intervenuta in quel processo, il difensore della C. fa presente che avrebbe dovuto intendersi pacificamente provata l’erroneità dell’assunto del curatore fallimentare, fatto proprio dai giudici di primo grado, secondo cui esistevano falsità nei bilanci e correlato stato di insolvenza già prima del 1997. Al contrario, in quella pronuncia il Tribunale di Monza aveva, stando alla ricorrente, “a lungo esaminato le due voci costituenti le contestazioni, la mancata svalutazione dei crediti e la sopravvalutazione del magazzino, per concludere … con una piena adesione della ricostruzione fondante la correttezza delle relative poste di bilancio o, quanto meno, l’assenza di volontà falsificatrice”.

Inoltre, dovrebbe intendersi fallace e frutto di mero “espediente dialettico” la tesi della Corte territoriale secondo cui rimarrebbero in ogni caso fuori dalla copertura del giudicato (intervenuto quanto ai sindaci della Ceva, ma analizzando necessariamente anche la condotta di chi aveva amministrato la società) i fatti posteriori al 31/08/1997: a quella data, infatti, risaliva la situazione patrimoniale predisposta ai fini della delibera assembleare di messa in liquidazione, e trattandosi di un atto di soli quattro mesi precedente il successivo bilancio di fine esercizio era comunque impossibile che i relativi contenuti presentassero discrasie significative. Contrariamente a quanto avrebbe dovuto riscontrarsi sul piano logico aderendo alla tesi della Corte di appello, e cioè che la situazione contabile a dicembre 1997 fosse stata artificiosamente e più gravemente falsificata rispetto alla realtà (di quanto non risultasse già ad agosto), un semplice confronto dei due documenti fa emergere dati del tutto dissonanti: una delle voci che secondo l’impianto accusatorio dovrebbe ritenersi di maggior spessore, vale a dire l’appostazione “crediti al netto del fondo svalutazione” è ad esempio pari a 450.000.000 di lire al 31 dicembre, mentre ad agosto ammonta a ben 2 miliardi. Sostiene pertanto la difesa che “la C. non ha gonfiato nel 1997 la valutazione di bilancio dei crediti commerciali, come asserito dalla Corte d’appello …, ma in realtà ha operato in senso esattamente contrario”, evidenziando in proposito come la sentenza impugnata sia incorsa in un vero e proprio travisamento della prova.

Il difensore della C. contesta quindi che il “bilancio” al 31/12/1997 potesse tecnicamente definirsi tale, o che comunque avesse connotati indispensabili per ritenere applicabile la norma ex art. 2621 cod. civ. ed il richiamo a questa operato ai sensi della *******., art. 223, – di comunicazione destinata ai soci ed al pubblico: mentre sicuramente aveva tale caratteristica la situazione patrimoniale di quattro mesi prima, perchè allegata a una delibera assembleare di messa in liquidazione, non altrettanto è a dirsi per quella di fine anno, costituente “un mero riepilogo della situazione societaria, sulla base della quale veniva chiesto il fallimento”.

b) alla ritenuta sussistenza del nesso causale fra la condotta di presunta falsificazione delle comunicazioni e il dissesto della società La tesi sviluppata nell’interesse della ricorrente è che “la struttura della previsione normativa di cui alla *******., art. 223, comma 2, n. 1, rappresenti un’ipotesi autonoma di reato in cui il dissesto della società costituisce l’evento causato o concausato dai fatti illeciti societari. L’esposizione di fatti non rispondenti al vero nelle comunicazioni sociali deve costituire, secondo la precisa descrizione letterale contenuta nella norma incriminatrice, la causa o la concausa del dissesto, vale a dire dello squilibrio tra attività e passività, e non il mero aggravamento della situazione debitoria, che risulta punito da altra, diversa e meno grave fattispecie”.

Tesi che, a dispetto della corposa elaborazione giurisprudenziale già intervenuta, non appare in alcun modo valutata dalla Corte territoriale, soprattutto alla luce dell’obiettivo ridimensionamento del periodo preso in esame ai fini della conferma della declaratoria di penale responsabilità della C. (rilevando la sua condotta, a fronte della formula liberatoria intervenuta per i sindaci, quanto alle ipotizzate falsificazioni posteriori al 31/08/1997): almeno a seguito della acquisizione della sentenza prodotta dalla difesa ex art. 238 bis c.p.p., “la Corte milanese non poteva non farsi carico di accertare l’esistenza del nesso eziologico fra la condotta finale (addirittura individuabile nel documento allegato alla richiesta di fallimento in proprio) ed il dissesto, e di fornirne adeguata motivazione”.

La difesa censura poi l’assunto dei giudici milanesi secondo cui il reato dovrebbe dirsi sussistente anche nella ipotesi di una condotta dell’amministratore che si sia limitata semplicemente ad aggravare un dissesto già prodottosi in virtù di fattori diversi, richiamando la lettera dell’art. 223, comma 2, n. 1 e rilevando al contrario che “l’evento penalmente rilevante ai fini della norma citata può essere solo il dissesto conseguente all’illecito societario, e non quello in relazione al quale è stato dichiarato il fallimento, altrimenti il legislatore – come nel caso di cui alla *******., successivo art. 223, comma 2, n. 2 – avrebbe utilizzato il termine fallimento”.

Ribadisce a riguardo che furono fattori di mercato eccezionali e non paventabili, come del resto riconosciuto nella stessa sentenza impugnata, a determinare la crisi irreversibile dell’impresa.

c) alla ritenuta sussistenza del dolo.

Secondo la difesa, l’elemento soggettivo richiesto perchè possa ravvisarsi il delitto de quo deve coprire sia il “fatto societario”, nel senso di agire con l’intenzione di ingannare i soci od il pubblico, volendo perseguire un profitto ingiusto, sia la causazione del dissesto, che deve essere almeno oggetto di rappresentazione come conseguenza della condotta volontariamente tenuta: profili, entrambi, non analizzati dalla Corte di appello, ancora una volta dovendosi rimarcare che “tanto più la condotta è stata individuata nel momento finale della vita societaria, tanto maggiore doveva essere (e non è stata) giustificata la sussistenza di indici rivelatori del dolo”. Viene altresì nuovamente sottolineata la circostanza, erroneamente sottovalutata dai giudici di merito, dell’ingente apporto finanziario personalmente immesso nelle casse della società dalla C., idonea a superare – per logica e comune esperienza – l’ipotesi che ella fosse animata da fini di ingiusto profitto.

2.2 Con il secondo motivo di ricorso, si lamenta totale mancanza di motivazione in ordine alla mancata concessione del beneficio della sospensione condizionale, richiesto in subordine nei motivi di appello: tema pretermesso dalla Corte territoriale, malgrado l’intervenuta riduzione della pena in termini che avrebbero imposto una valutazione sul punto, coerentemente del resto ad altri fattori sottolineati in sentenza (la lontananza nel tempo della condotta contestata, lo stato di incensuratezza dell’imputata ed i ricordati sacrifici economici dalla stessa sostenuti).

Motivi della decisione

1. Il ricorso merita accoglimento, conformemente del resto alle conclusioni dello stesso Procuratore generale presso questa Corte.

2. Con riguardo alla materialità dell’addebito, deve essere segnalato che secondo la ricostruzione operata nella sentenza di primo grado i bilanci della **** fino al 1996 presentavano valori modesti quanto al fondo svalutazione crediti, vale a dire quanto ai crediti ritenuti di difficile realizzo: valori tuttavia irrealistici, considerato fra l’altro che nel dicembre 1996 la società disponeva di effetti insoluti e protestati per circa 300 milioni di lire (ciò comportava che, dovendosi iscrivere i crediti commerciali secondo il valore di presumibile realizzo, sarebbe stato doveroso tenere conto almeno di quegli insoluti e dei conseguenti protesti già intervenuti). In sostanza, nelle comunicazioni sociali sarebbe stata evidenziata una situazione patrimoniale, in ordine alla prospettiva di concreta esigibilità dei crediti esistenti, del tutto svincolata dalla realtà: solo nell’agosto 1997 si era registrata un’impennata del fondo svalutazione crediti (a poco meno del 60%), cresciuta ancora al 31/12/1997 (dove si indicava il dato del 91,80%, comunque inferiore a quanto poi la curatela avrebbe effettivamente registrato visto che la percentuale di crediti irrealizzati fu poi del 97,59%).

Analoga falsità riguardava, sempre stando alle conclusioni del G.u.p. di Monza, le rimanenze di magazzino, nettamente sopravvalutate: nel dicembre 1997 il relativo valore era di lire 1.344.198.973, mentre il perito nominato nel corso della procedura concorsuale avrebbe effettuato una stima per soli 165.674.666 (con una differenza dell’87% circa, ritenuta non giustificabile nella pronuncia di primo grado neppure volendo aderire alla tesi difensiva secondo cui la valutazione delle autovetture era stata operata in base ai listini praticati dalla Ford, anche se poi ci si fosse trovati dinanzi alla sola possibilità di vendere le rimanenze a prezzi inferiori a quelli di mercato).

Gli assunti appena ricordati sono apparentemente oggetto di integrale conferma nella sentenza della Corte di appello oggetto dell’odierno ricorso, visto che, come si vedrà, risultano richiamate anche le medesime cifre. Al contempo, però, sembrano trovare smentita – o, quanto meno, una parziale confutazione – nelle argomentazioni adottate dal Tribunale di Monza nella pronuncia irrevocabile prodotta nel presente processo ai sensi dell’art. 238 bis c.p.p.; pronuncia della quale la Corte territoriale non offre comunque una lettura congruamente rapportata alle acquisizioni istruttorie disponibili, giungendo a conclusioni obiettivamente contraddittorie.

La Corte milanese, a proposito della sentenza del 17/07/2008, scrive infatti che “il nucleo del giudizio assolutorio si è basato sul rilievo che i sindaci avevano controllato la situazione contabile fino al 31/08/1997, epoca in cui le condizioni di inesigibilità dei crediti commerciali e la riduzione del magazzino non avevano ancora assunto le allarmanti dimensioni determinatesi alla data del 31/12/1997 … e che pertanto, per giudicare la congruità e tempestività delle svalutazioni operate sui valori dei crediti commerciali si dovesse fare esclusivo riferimento alla situazione esaminata dai sindaci alla data del 31/08/1997. Di qui la ulteriore deduzione che la inesigibilità del portafoglio effetti non sarebbe stata rilevabile dai sindaci solo nel corso dell’esercizio 1997, e che le svalutazioni compiute sarebbero state in linea con la situazione esaminata dai sindaci alla data del 31/08/1997, anche perchè solo dopo tale data la casa madre Ford aveva revocato la concessione alla **** e ritirato gli autoveicoli nuovi, così vanificando la clausola che imponeva alla Ford il riacquisto al prezzo di costo dei pezzi di ricambio invenduti in possesso della Ceva”. Fatta tale premessa, i giudici di appello ritengono tuttavia le argomentazioni esposte non estensibili alla condotta della C., “quanto meno per quanto compiuto e per quanto omesso con riferimento all’esercizio del 1997, e segnatamente per le falsità ideologiche contestate con riferimento al bilancio del 31/12/1997”.

3. Si impongono, già a questo punto, alcune osservazioni.

In primis, la Corte di appello sembra condividere, o comunque non si preoccupa di confutare, la tesi del Tribunale di Monza, corretta o meno che fosse: il 31 agosto 1997 “le svalutazioni compiute erano in linea con la situazione esaminata dai sindaci”, il che equivale a sostenere che a quella data vi erano sì svalutazioni (logicamente da riferire ai crediti ancora da realizzare) ma in linea con la realtà dei fatti. Tesi che riverbera certamente conseguenze sul piano della materialità dell’addebito, per altro verso ascritto anche all’amministratrice della società.

La sentenza irrevocabile del Tribunale, relativa ai sindaci, precisa infatti che i crediti non svalutati al 31 agosto (lire 2.061.000.000) “corrispondevano a 1.620 milioni quali crediti per rimessa diretta, e cioè verso clienti per vendita di automezzi nuovi (458 milioni), verso clienti per lavori di officina e vendita ricambi di magazzino (484 milioni) e crediti nei confronti di Blu Auto s.r.l. (678 milioni) …. Tali crediti sarebbero stati correttamente svalutati in considerazione del fatto che quelli verso i clienti (i primi due punti) potevano ritenersi normalmente sempre esigibili, come avvalorato dall’esame della dinamica a decrescere dei saldi creditori rilevabili dalle situazioni contabili al 30/09, 31/10 e 30/11/1997, e quelli verso Blu Auto (sub-agente ****) per la vendita di autovetture non sono stati svalutati poichè era ragionevole prevederne la riscossione: risulta infatti dalla contabilità di **** che nel 1997 Blu Auto aveva acquistato autoveicoli per più di tre miliardi di lire, effettuando tempestivamente e nei termini contrattuali i pagamenti alle scadenze (ciò è riscontrato, sottolinea la difesa, dal fatto che l’amministratore del fallimento Blu Auto è stato ritenuto responsabile di bancarotta preferenziale per i pagamenti eseguiti a favore di **** nel corso del 1997)”. A proposito dei crediti di cui ai già ricordati insoluti, mostrando di convenire con le valutazioni della difesa, i giudici monzesi rappresentano che la relativa svalutazione “non poteva e non doveva, contrariamente a quanto affermato dal curatore, essere operata già negli esercizi 1994, 1995 e 1996, poichè il fenomeno negativo illustrato non era presente e tanto meno poteva essere previsto, posto che solo all’inizio del 1997 è entrata in vigore la legge che l’ha determinato: cioè a dire l’improvviso aumento degli insoluti si spiega considerando l’evoluzione del mercato dell’usato all’inizio del 1997 con l’entrata in vigore del d.l. 31/12/1996 n. 669 (conv. in l. 30/1997), in quanto le forti agevolazioni fiscali concesse a chiunque acquistasse un’auto nuova rottamando quella vecchia avevano impresso una significativa accelerazione al volume delle vendite delle macchine nuove, ma causato un altrettanto significativo rallentamento delle vendite dell’usato, e quindi è ipotizzabile che le società clienti di Ceva per gli automezzi usati … si siano trovate in grave crisi finanziaria e, non riuscendo a vendere le autovetture acquistate da Ceva, non siano più riuscite nemmeno ad onorare le scadenze di tali effetti”. Nè avrebbero dovuto compiersi interventi sui 300 milioni relativi ad effetti cambiari scaduti prima del 1997: “l’amministratore di Ceva non aveva azzerato tali insoluti, ma li aveva lasciati iscritti in attivo, dal momento che al passivo erano comunque pure iscritti i depositi cauzionali ricevuti dai commercianti di automezzi usati, rimasti nella disponibilità di Ceva (seppure fossero rimasti insoluti, **** era garantita dall’auto di cui era ancora proprietaria): d’altra parte, l’alternativo annullamento della posta attiva effetti in portafoglio per L. 300 milioni avrebbe comportato il contestuale annullamento per pari importo della posta passiva depositi cauzionali, senza produrre effetti sul conto economico”.

4. In definitiva, il Tribunale di Monza – al di là della formula assolutoria poi prudenzialmente adottata, relativa al difetto dell’elemento psicologico -sconfessa la falsificazione stessa delle appostazioni contabili in ordine alle presunte svalutazioni dei crediti, anche con riguardo al 31 agosto 1997: e la conclusione appare identica a proposito della parimenti contestata sopravvalutazione delle rimanenze.

A quest’ultimo riguardo la medesima sentenza avvalora la circostanza (ritenendola non correttamente valutata dal curatore fallimentare) che solo il 6 settembre intervenne la revoca del mandato **** alla ****, con il conseguente venir meno della clausola secondo cui la casa madre era tenuta a riacquistare il magazzino ricambi al costo iniziale: fino ad allora, pertanto, era del tutto fisiologico che il relativo valore rimanesse inalterato. Significativo risulta altresì il rilievo del Tribunale al “caparbio riferimento del curatore al prezzo di realizzo delle rimanenze rinvenute, senza mai evidenziare il diverso valore commerciale e le decurtazioni operate dal perito estimatore nominato dalla procedura fallimentare”: al contrario, e con particolare riferimento al magazzino “automezzi usati”, i giudici monzesi sostengono che “i valori attribuiti da Ceva erano giustificati e proporzionati rispetto a quelli indicati dallo stesso perito”.

Ma allora, se la situazione patrimoniale veniva ritenuta correttamente esposta, ciò avrebbe dovuto comportare una conclusione liberatoria per i sindaci – responsabili per le ipotetiche omissioni nei doveri di controllo fino al 31/08/1997 – già in punto di elemento materiale (con evidenti ricadute anche sulla posizione dell’amministratrice); e, ovviamente, se non c’erano falsità nelle comunicazioni sociali strumentali alla messa in liquidazione della società, a fortiori è da escludere che potessero esservene state nei bilanci degli esercizi ancora precedenti.

Tali inequivoche conclusioni risultano confluite nel presente processo mediante lo strumento rituale dell’art. 238 bis, e – come già ricordato – la Corte di appello di Milano non si è limitata ad acquisire la sentenza emessa nei confronti dei sindaci: ha invece preso atto delle argomentazioni ivi adottate, limitandosi a evidenziare che non avrebbero potuto spiegare effetto “quanto meno” per i fatti successivi all’anzidetto 31 agosto. Il che dunque equivale a dire, non essendo stato rappresentato alcunchè per smentirne la valenza relativamente al periodo anteriore, che “quanto meno” per le condotte sino a quella data era da escludersi il rilievo penale.

Delle due, l’una: è possibile che si trattasse di argomentazioni incongrue o non valide per la C. anche a proposito dei fatti occorsi tra il 1994 e l’agosto 1997 (ed allora la Corte avrebbe dovuto confutarle, senza particolari problemi di potenziale contrasto fra giudicati in quanto i sindaci erano stati assolti per difetto di dolo); oppure avrebbero dovuto intendersi efficaci anche per l’odierna imputata, da assolvere – si ribadisce, “quanto meno” – per quelle condotte più remote.

Emerge pertanto un primo profilo di contraddittorietà e manifesta illogicità della pronuncia, tale da imporne l’annullamento con rinvio.

5. Vi è di più.

A proposito dei fatti compresi tra il 01/09/1997 e la dichiarazione di fallimento (si tratta peraltro di neppure sei mesi), la Corte milanese evoca inequivoci indizi di insolvenza, tali da rendere “del tutto prive di giustificazioni le gonfiate valutazioni di bilancio dei crediti commerciali per ben 5.510 milioni e del magazzino (come emerge dal confronto tra il valore di L. 1.344.198.973 al 31/12/1997, già in una prospettiva di liquidazione, e il valore di L. 165.674.666 inventariato dal curatore)”.

Quei 5.510 milioni costituivano però la somma di tutti i crediti, compresi quelli già svalutati, e la difesa ha correttamente osservato come al 31 dicembre i “crediti al netto del fondo svalutazione” – indicati cioè come di verosimile e normale realizzo, e dunque gli unici idonei ad ingannare soci e pubblico – ammontassero a 450 milioni, mentre appena ad agosto erano poco più di 2 miliardi.

Ergo, in vistosa controtendenza rispetto all’impianto accusatorio, quella voce (che il 31/08 risultava da appostazioni corrette, stando a indicazioni del Tribunale di Monza non smentite nella pronuncia qui impugnata) non era stata “gonfiata”, semmai il contrario.

Analogamente è a dirsi per le rimanenze: a fine 1997 erano sì valutate poco meno di 1.350 milioni, ma quattro mesi prima erano – v. la pag. 9 della sentenza del Tribunale di Monza – pari a 2.198 milioni, assai di più.

Si tratta di dati che dimostrano la correttezza dell’obiezione difensiva sul piano logico, nel segnalare che i dati di bilancio (a proposito dell’esame comparato della situazione patrimoniale al 31 agosto ed al 31 dicembre, con la seconda che avrebbe dovuto essere ancor più alterata rispetto alla prima, per rendere sostenibili le argomentazioni della Corte territoriale) “sono dotati di autonoma forza esplicativa e dimostrativa, e l’inesatta percezione di essi da parte del giudice ha prodotto la disarticolazione dell’intero ragionamento adottato in sentenza, inficiando in modo decisivo la tenuta logica e la coerenza della motivazione”. Si tratta di principio condivisibile, in linea con la giurisprudenza di legittimità secondo cui “in tema di motivi di ricorso per Cassazione, a seguito delle modifiche dell’art. 606, comma 1, lett. e) ad opera della L. n. 46 del 2006, art. 8, mentre non è consentito dedurre il travisamento del fatto, stante la preclusione per il giudice di legittimità di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito, è, invece, consentito dedurre il vizio di travisamento della prova, che ricorre nel caso in cui il giudice di merito abbia fondato il proprio convincimento su una prova che non esiste o su un risultato di prova incontestabilmente diverso da quello reale, considerato che, in tal caso, non si tratta di reinterpretare gli elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini della decisione, ma di verificare se detti elementi sussistano” (Cass., Sez. V, n. 39048 del 25/09/2007, ********, Rv 238215).

Anche con riguardo ai fatti posteriori al 31/08/1997, pertanto, si rileva un vizio della motivazione della sentenza impugnata, che ne impone l’annullamento con rinvio.

6. Quanto appena rilevato in ordine al travisamento compiuto dalla Corte territoriale circa le risultanze delle situazioni patrimoniali della società fallita ad agosto e dicembre 1997 assume rilievo anche sotto un ulteriore profilo, che riguarda le deduzioni difensive formulate con il motivo di ricorso afferente la nuova formulazione della *******., art. 223, a seguito della riforma del 2002.

Deve premettersi che la giurisprudenza di questa Sezione, dopo la prima lettura della novella offerta dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 25887 del 26/03/2003 (ric. ********) ha più volte affermato principi contrari a quelli sostenuti nell’interesse dell’odierna ricorrente: la difesa, privilegiando una interpretazione strettamente letterale del dato normativo, sostiene che possa assumere rilevanza penale soltanto la falsità nelle comunicazioni sociali che abbia cagionato il dissesto quale fattore eziologico unico o concorrente, ma già in epoca coeva alla pronuncia delle Sezioni Unite appena ricordata si era evidenziato che “in tema di bancarotta c.d. impropria, la particolare fattispecie di cui al R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 223, comma 2, n. 2, riguardante gli amministratori, i direttori generali, i sindaci ed i liquidatori di società fallite che hanno cagionato con dolo o per effetto di operazioni dolose il fallimento della società, si applica anche nell’ipotesi in cui la condotta di una delle anzidette persone abbia aggravato una situazione di dissesto già esistente” (Cass., Sez. 5^, n. 19806 del 28/03/2003, *****, Rv 224947). Identica affermazione si è avuta, più di recente ed in termini di maggiore analiticità, anche per le ipotesi di bancarotta societaria *******., ex art. 223, comma 2, n. 1: questa Sezione ha ribadito che “rilevano ai fini della responsabilità penale anche le condotte successive alla irreversibilità del dissesto, in quanto sia il richiamo alla rilevanza delle cause successive, espressamente dispiegata dall’art. 41 c.p., che disciplina il legame eziologico tra il comportamento illecito e l’evento, sia la circostanza per cui il fenomeno del dissesto non si esprime istantaneamente, ma con progressione e durata nel tempo (tanto da essere suscettibile di misurazione) assegnano influenza ad ogni condotta che incida, aggravandolo, sullo stato di dissesto già maturato” (sent. n. 16259 del 04/03/2010, *****, Rv 247254).

Se dunque deve aversi riguardo a una nozione dinamica di dissesto, quale entità misurabile e suscettibile di modificazioni, e non invece alla mera dimensione istantanea di una situazione patrimoniale di squilibrio, rimane pur sempre evidente che un dissesto cagionato (o che si sia concorso a cagionare) deve intendersi insussistente prima della condotta attiva od omissiva addebitata, mentre un dissesto aggravato può esservi laddove quella entità, misurata prima della condotta de qua, registri un valore obiettivo inferiore a quello rilevato in seguito, e l’incremento sia certamente da ricondurre all’azione od all’omissione considerate. Nella fattispecie concreta, però, si è visto che l’aggravamento ritenuto dalla Corte di appello deriverebbe dai valori “gonfiati” sopra segnalati, in realtà da leggere in prospettiva contraria: e, a prescindere dal rilievo che il dissesto potè comunque aumentare in termini aritmetici dopo il 31 agosto 1997, anche per fattori diversi (crisi del settore, comportamenti di terzi, o quant’altro) sarebbe arduo individuarne una delle cause in appostazioni contabili forse artificiose, ma rivedute per difetto.

La motivazione della sentenza impugnata appare poi carente nel momento in cui segnala che l’aggravamento del dissesto sarebbe stato conseguente anche alla “artificiale prosecuzione dell’attività”, senza tenere conto della censura difensiva (avanzata nei motivi di appello, ed oggi ribadita) che sottolineava l’intervenuto fallimento della **** su istanza presentata in proprio: va ulteriormente ricordato che il fallimento reca la data del (omissis), e la Corte territoriale non chiarisce quali attività, di precipua rilevanza in punto di consistenza del dissesto, sarebbero state concretamente proseguite dalla Ceva in quel brevissimo periodo.

7. Le questioni relative all’elemento soggettivo, come pure alla mancata concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena (effettivamente chiesto nei motivi di gravame, quale istanza subordinata, e senza che la Corte di appello di Milano abbia comunque esposto le ragioni del diniego) debbono intendersi assorbite.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata con rinvio alla Corte di appello di Milano, altra sezione, per nuovo esame.

Così deciso in Roma, il 16 gennaio 2013.

Redazione