Avvocati: legittima la sanzione per l’avvocato che apre lo studio a piano strada definendolo “negozio” (Cass. n. 14368/2012)

Redazione 10/08/12
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(omissis)

 

Ritenuto che l’***********. E., con ricorso del 7 ottobre 2011, ha impugnato per cassazione – deducendo sette motivi di censura -, nei confronti del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di cassazione e del Consiglio nazionale forense, la decisione del Consiglio nazionale forense n. 93/2011 del 13 novembre 2010 – 7 luglio 2011, con la quale il Consiglio nazionale forense, pronunciando sul ricorso degli Avvocati D. P., ed Se.E. avverso la decisione del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Varese in data 15 dicembre 2009 – che aveva inflitto agli Avvocati P., e Se. la sanzione disciplinare della censura -, sulle conclusioni del Procuratore generale – il quale aveva chiesto in rigetto del ricorso e, in subordine, la riduzione della sanzione inflitta all’avvertimento -, ha respinto il ricorso;
che il Consiglio dell’Ordine territoriale, con deliberazione del 31 marzo 2009, aveva promosso l’azione disciplinare nei confronti degli Avvocati P. e Se., formulando i seguenti capi di incolpazione:
1) «Articolo 5 del Codice Deontologico Forense (C.D.F.), principio generale, per avere avviato l’attività dello studio legale associato “L’angolo dei diritti” in un locale posto sul piano strada, con l’utilizzo del predetto logo, applicando alle vetrine vetrofanie multilingue ed indicando con lo stesso mezzo le materie trattate, esponendo all’esterno gli orari di apertura e riportando sul sito internet, all’indirizzo (omissis), la dicitura “orari negozio”»;
2) «Articolo 5, principio generale, nonché articolo 19, principio generale, articolo 43, secondo canone, articolo 45 C. D. F. e articolo 2233, secondo comma, codice civile, per avere offerto al pubblico, mediante una tariffa reperibile all’indirizzo internet (omesso) ed esposto come vetrofania, prestazioni professionali, anche di natura giudiziale, ad un costo predeterminato e quantificato forfetariamente, senza riferimento al valore ed all’importanza della pratica nonché alla sua presumibile durata»;
3) «Articolo 5, principio generale, articolo 17, principio generale, ed articolo 18, principio generale, C. D. F., per avere rilasciato ai quotidiani locali “La Prealpina” e “La Provincia” (di Varese), edizioni del 21 febbraio 2009, due differenti interviste dalle quali risultano, in virgolettato, le seguenti affermazioni “[…] costi fissati dall’inizio e destinati a rimanere tali, senza spese per i clienti”, “lo studio su Internet sarà sempre aperto”, “Ci rivolgiamo a quella fascia di persone che non si rivolgono all’avvocato per diffidenza […] il nostro scopo è quello di migliorare l’approccio e facilitare il ricorso del cittadino alla giustizia […], promuovendo un’idea di assistenza legale come servizio a favore di tutti e non appannaggio di alcuni”, nonché per aver indicato sul sito internet raggiungibile all’indirizzo (omesso) le espressioni “si concedono a richiesta pagamenti personalizzati e dilazionati” e “patto di quota lite”»;
[…]
6) «Articolo 17- bis C. D. F., per aver provveduto all’attivazione di un dominio internet, operante all’indirizzo (omesso), senza aver effettuato la preventiva comunicazione al Consiglio dell’Ordine, e per non aver indicato i dati previsti dal primo comma del medesimo articolo 17-bis (ad esempio, l’indicazione dei nominativi dei professionisti che compongono lo Studio e del Consiglio dell’Ordine di appartenenza)»;
7) «Articolo 24, principio generale, C.D.F., per non avere adempiuto ai dovere di verità nei confronti del Consiglio dell’Ordine di appartenenza, avendo indicato che tra i collaboratori della Associazione professionale “L’Angolo dei diritti” erano compresi anche gli Avvocati K. B. e ********, che hanno invece negato la circostanza. In Varese nei mesi di febbraio e marzo 2009»;
che i predetti Avvocati avevano fatto pervenire al Consiglio dell’Ordine una serie di osservazioni e giustificazioni in ordine ai capi di incolpazione, dopo di che il procedimento disciplinare era stato trattato nelle udienze del 21 luglio, del 22 settembre, del 20 ottobre, del 24 novembre, del 1° dicembre e del 15 dicembre 2009;
che, all’esito di tale procedimento, il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Varese, con decisione del 15-30 dicembre 2009, aveva disposto il proscioglimento degli incolpati in relazione ai capi 4 e 5 dell’incolpazione ed aveva affermato la responsabilità disciplinare degli stessi in relazione agli altri capi, irrogando la sanzione della censura;
che gli Avvocati incolpati avevano impugnato tale decisione dinanzi al Consiglio Nazionale Forense, chiedendo che:
– il logo “Angolo dei diritti” venisse considerato conforme a deontologia, in quanto privo di qualsiasi caratterizzazione di natura commerciale (capo di incolpazione n. 1);
– le tariffe proposte in via generale per alcune tipologie di attività venissero considerate conformi a deontologia, perché proposte in forza di norma di legge (capo di incolpazione n. 2);
– le espressioni contestate nel capo di incolpazione n. 3 venissero considerate conformi a deontologia, perché i contenuti dei messaggi erano stati elaborati per essere recepiti dai destinatari;
– l’***********. fosse assolto dall’incolpazione di cui al capo n. 7, perché si trattava di un fatto a lui estraneo, con conseguente riduzione della sanzione a quella dell’avvertimento;
che il Consiglio Nazionale – acquisiti documenti attestanti che in molte parti del Paese sono stati aperti studi “su strada”-, con la decisone 93/2011 del 13 novembre 2010 – 7 luglio 2011, ha respinto il ricorso;
che in particolare, per quanto in questa sede rileva, il Consiglio nazionale forense ha affermato che:
a) «preliminarmente, […] nel caso di specie, non è censurato l’esercizio della professione in ambiente e luogo diverso dalla tradizione o con inusuali modalità comunicative: nel caso di specie, infatti, la localizzazione dello studio non comporta neppure una violazione della riservatezza dell’utente o della dignità professionale dei legali che operano nello studio»;
b) relativamente al capo di incolpazione n. 1): «Il Codice deontologico forense, a séguito dell’entrata in vigore della normativa nota come “Bersani” consente non una pubblicità indiscriminata ma la diffusione di specifiche informazioni sull’attività, al fine di orientare razionalmente le scelte di colui che ricerchi assistenza, nella libertà di fissazione del compenso e della modalità del suo calcolo. La peculiarità e la specificità della professione forense giustificano, tuttavia, conformemente alla normativa comunitaria e alla costante sua interpretazione da parte della Corte di giustizia, le limitazioni derivanti dalla necessità di proteggere i beni della dignità e del decoro della professione e la verifica al riguardo è dall’ordinamento affidata al potere- dovere dell’ordine professionale. Nel caso di specie, l’utilizzo delle espressioni “L’angolo dei diritti” e “negozio” (solo successivamente eliminata) hanno carattere prettamente commerciale. Esse tendono a persuadere il possibile cliente attraverso un motto pieno di capacità evocativa emozionale, basandosi, quindi, su messaggi pubblicitari eccedenti l’ambito informativo razionale così come previsto dalla norma deontologica», ciò conformemente al principio, secondo cui «il disvalore deontologico dell’attività di acquisizione della clientela, di per sé lecita e tanto più nell’attuale contesto in cui l’ordinamento comunitario e l’interpretazione di svariate sue norme pongono in evidenza l’aspetto organizzativo, economico e concorrenziale dell’attività professionale, risiede negli strumenti usati ai fini dell’accaparramento, i quali non devono essere alcuno di quelli tipizzati in via esemplificativa nei canoni complementari dell’art. 19, non concretizzarsi nell’intermediazione di terzi (agenzie o procacciatori), né essere, più genericamente “mezzi illeciti” o meglio (nella versione vigente, approvata il 14 dicembre 2006) che possano esplicarsi in modo non conforme alla correttezza e decoro»;
c) relativamente al capo di incolpazione n. 2): «Quanto ai costi predeterminati, non è condivisibile l’opinione che nega l’avvenuta compromissione, nella specie, dei principi di adeguatezza e proporzionalità: al contrario, è verificabile l’avvenuta lesione, nella specie, del decoro della professione legale, svilita da proposte commerciali che offrono servizi a costi molto bassi. Qui, infatti, non si tratta di valutare se sussista corrispondenza con i minimi tariffari, bensì l’adeguatezza del compenso ai valore ed all’importanza della singola pratica trattata; invero i compensi devono sempre essere proporzionati all’attività svolta»;
d) relativamente al capo di incolpazione n. 3): «In merito alle interviste rilasciate ed alle relative espressioni utilizzate (quali: “Ci rivolgiamo a quella fascia di persone che non si rivolgono all’avvocato per diffidenza […] il nostro scopo è quello di migliorare l’approccio e facilitare il ricorso del cittadino alla giustizia […], promuovendo un’idea di assistenza legale come servizio a favore di tutti e non appannaggio di alcuni”), occorre rilevare [che] un intento captativo e non informativo che, dando della categoria un’immagine negativa, ingenerano diffidenza nella clientela»;
e) quanto al capo di incolpazione n. 6): «Gli incolpati hanno anche violato l’art. 17-bis del codice deontologico forense, secondo cui “L’avvocato che intende dare informazioni sulla propria attività professionale deve indicare: la denominazione dello studio, con l’indicazione dei nominativi dei professionisti che lo compongono qualora l’esercizio della professione sia svolto in forma associata o societaria […]”. La circostanza che i ricorrenti abbiano posto rimedio all’insufficienza delle indicazioni rispetto al modello deontologico in un momento successivo non scrimina per ciò solo il comportamento precedente contrario alla deontologia»;
f) relativamente al capo di incolpazione n. 7): «[…] quanto alla violazione del dovere di verità, dal verbale dell’audizione del 3.3.2009 a firma degli incolpati risulta l’affermazione per cui presso “L’angolo dei diritti” operavano “sei” avvocati, tra i quali l’avv. K. B. e l’avv. ********, i quali, invece, sentiti in merito, hanno negato qualsiasi partecipazione all’iniziativa. Onde appare senza dubbio violato il dovere di verità»;
g) «Quanto alla sanzione irrogata, quella della censura appare congrua rispetto alla condotta, potenzialmente contagiosa (indipendentemente dall’inutile ricerca di una sua dannosità nel concreto, del tutto estranea alla fattispecie disciplinare contestata), posta in essere da professionisti maturi per esperienza, età e funzioni»;
che il Consiglio nazionale forense, benché ritualmente intimato, non si è costituito né ha svolto attività difensiva;
che, all’esito dell’odierna udienza di discussione, il Procuratore generale ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.
Considerato che, con il primo (con cui deduce; «Motivo di ricorso ex art. 56, 3° comma, R.D.L. 27.11.1933, n. 1578: sul vizio di eccesso di potere del Consiglio Nazionale forense»), e con il settimo motivo (con cui deduce: «Motivo di ricorso ex art. 56, 3° comma, R.D.L. 27.11.1933, n. 1578: violazione e falsa applicazione della Legge n. 248 del 4 agosto 2006») – i quali possono essere esaminati congiuntamente, avuto riguardo alla loro stretta connessione – il ricorrente critica la decisione impugnata e – sulla premessa che il decreto c.d. “Bersani” (D.L. n. 223 del 2006, conv., con mod., dalla legge n. 248 del 2006), in attuazione dei principi di libera concorrenza e di libertà di circolazione delle persone e dei servizi, ha espressamente abrogato tutte le disposizioni legislative, regolamentari e deontologiche che vietavano ai professionisti la pubblicità informativa «circa i titoli e le specializzazioni professionali, le caratteristiche del servizio offerto, nonché il prezzo e i costi complessivi delle prestazioni, secondo criteri di trasparenza e veridicità del messaggio, il cui rispetto è verificato dall’Ordine», e che tale abrogazione non ha comportato alcun vuoto normativo di tutela, in quanto il decreto legislativo n. 145 del 2007 contiene una esaustiva disciplina in materia di pubblicità ingannevole e comparativa, che prevede la esclusiva vigilanza dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato con poteri ispettivi e sanzionatori – sostiene che:
a) nella specie, il Consiglio nazionale forense ha ecceduto i limiti del potere attribuitogli, in quanto, anziché limitarsi a verificare la veridicità del messaggio pubblicitario di cui al capo di incolpazione n. 1), ha giudicato il contenuto e gli effetti dello stesso messaggio, funzione questa attribuita alla predetta Autorità;
b) lo stesso Consiglio ha offerto una lettura troppo restrittiva del decreto “Bersani” quanto alla pubblicità informativa dallo stesso ammessa, ciò alla luce della ratio legis consistente nel favorire la più ampia libertà dei professionisti parificati agli altri imprenditori e nel rafforzare la libertà di scelta del cittadino consumatore;
che, con il secondo motivo (con cui deduce: «Motivo di ricorso ex art. 56, 3° comma, R.D.L. 27.11.1933, n. 1578: sulla violazione e falsa applicazione degli artt. 24, secondo comma, Cost., 47, secondo comma, e 50 R.D. 22 gennaio 1934 n. 37»), il ricorrente – sulla premessa che l’impianto accusatorio si fonda «quasi esclusivamente» sulle dichiarazioni rese dagli incolpati ai Consiglio dell’Ordine territoriale nella seduta del 30 marzo 2009 – critica la decisione impugnata, sostenendo che, nel corso del procedimento disciplinare, sarebbe stato violato il proprio diritto di difesa, in quanto il Consiglio dell’Ordine di Varese, nonostante la esplicita istanza degli incolpati – soprattutto in relazione al capo di incolpazione n. 7), rispetto al quale era stata formulata richiesta di assoluzione o di riduzione della sanzione di ulteriore istruttoria -, aveva ascoltato gli stessi esclusivamente “a chiarimenti”, anziché “interrogarli”;
che, con il terzo motivo (con cui deduce: «Motivo di ricorso ex art. 56, 3° comma, R.D.L. 27.11.1933, n. 1578: violazione dell’art. 111 Cost. per insufficiente motivazione del provvedimento impugnato»), il ricorrente critica la decisione impugnata, sotto il profilo della sua insufficiente motivazione relativamente al capo di incolpazione n. 1), in quanto il Consiglio nazionale forense, da un lato, ha ritenuto irrilevante sul piano disciplinare la concezione “tradizionale” dello studio legale, ma, dall’altro, ha censurato proprio il fatto che, nella specie, lo studio legale in questione non si conforma al modello “tradizionale”;
che, con il quarto motivo (con cui deduce: «Motivo di ricorso ex art. 56, 3° comma, R.D.L. 27.11.1933, n. 1578: violazione e falsa applicazione dell’art. 17 del Codice deontologico forense R.D. 22 gennaio 1934 n. 37»), il ricorrente critica la decisione impugnata anche sotto il profilo dei vizi della motivazione, in relazione ai capi di incolpazione nn. 1) e 2), quanto all’affermata contrarietà al decoro della professione dei messaggi informativi e pubblicitari divulgati dagli incolpati, sostenendo che il Consiglio nazionale forense non ha dato adeguata contezza del contenuto attuale del parametro del “decoro” della professione, il quale deve essere inteso nel senso non tradizionale ma adeguato alla coscienza sociale ed all’etica professionale di un dato momento storico;
che, con il quinto motivo (con cui deduce: «Motivo di ricorso ex art. 56, 3° comma, R.D.L. 27.11.1933, n. 1578: violazione dell’art. 111 Cost. per omessa motivazione del provvedimento impugnato»), il ricorrente critica la decisione impugnata anche sotto il profilo dei vizi della motivazione, in relazione ai capi di incolpazione nn. 1) e 6), quanto alla negata scriminante della tempestiva eliminazione, da parte degli incolpati, di alcune delle precedenti condotte loro addebitate, sostenendo che le considerazioni del Consiglio nazionale forense sulla pubblicità ammessa dopo l’entrata in vigore del decreto “Bersani” sono del tutto arbitrarie e, soprattutto, non tengono conto dell’immediato adeguamento degli incolpati al modello deontologico loro suggerito dalle contestate incolpazioni;
che, con il sesto motivo (con cui deduce: «Motivo di ricorso ex art. 56, 3° comma, R.D.L. 27.11.1933, n. 1578: violazione e falsa applicazione dell’art. 19 del Codice deontologico forense R.D. 22 gennaio 1934 n. 37»), il ricorrente critica la sentenza impugnata, in relazione in relazione ai capi di incolpazione nn. 1) e 2), quanto alla motivazione in ordine alla affermata responsabilità disciplinare per il sostanziale tentativo, attraverso i messaggi pubblicitari realizzati, di “accaparramento” della clientela;
che il ricorso non merita accoglimento;
che, conformemente al costante orientamento di queste Sezioni Unite, va premesso che le decisioni del Consiglio nazionale forense in materia disciplinare sono impugnabili dinanzi alle sezioni unite della Corte di cassazione, ai sensi dell’art. 56, terzo comma, del R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 gennaio 1934, n. 36, soltanto per incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge, con la conseguenza che l’accertamento del fatto, l’apprezzamento della sua rilevanza rispetto alle incolpazioni, la scelta della sanzione opportuna e, in generale, la valutazione delle risultanze processuali non possono formare oggetto del controllo di legittimità, salvo che si traducano in un palese sviamento di potere, ossia nell’uso del potere disciplinare per un fine diverso da quello per il quale è stato conferito;
che inoltre, secondo il medesimo orientamento, dette decisioni disciplinari del Consiglio nazionale forense debbono essere motivate, come ogni provvedimento giurisdizionale, in forza dell’art. 111, sesto comma, Cost., con la conseguenza che esse possono esser censurate dinanzi alle sezioni unite della Corte di cassazione anche per il vizio di motivazione, a condizione che tale vizio consista in omissioni, lacune o contraddizioni incidenti su punti decisivi, dedotti dalle parti o rilevabili d’ufficio, e che la sua deduzione non sia tesa ad ottenere un riesame delle prove e degli accertamenti di fatto, ovvero a sollecitare un sindacato sulla scelta discrezionale del consiglio dell’ordine quanto al tipo ed all’entità della sanzione, oppure a denunciare pretesi travisamenti del fatto, non essendo consentito alla Corte di cassazione di sostituirsi all’organo disciplinare né nell’enunciazione di ipotesi di illecito nell’ambito della regola generale di riferimento, se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza, né nell’apprezzamento della rilevanza dei fatti rispetto alle incolpazioni contestate (cfr., ex plurimis, le sentenze nn. 21584 e 18695 del 2011, 2637 del 2009, 20360 e 7103 del 2007, 4802 del 2005);
che, alla luce di tale orientamento, deve essere dichiarato immediatamente inammissibile – per evidenti ragioni di priorità logico- giuridica, in ragione della denunciata illegittimità dello svolgimento del procedimento disciplinare – il secondo motivo del ricorso, relativo segnatamente al capo di incolpazione n. 7, per assoluta genericità e mancanza di autosufficienza;
che infatti – posto che dalla decisione impugnata risulta che il Consiglio territoriale dell’Ordine ha ascoltato gli incolpati “a chiarimenti”, ha raccolto le controdeduzioni degli stessi a tutti i capi di incolpazione ed ha dedicato all’istruttoria cinque udienze, ed inoltre che non v’è cenno alcuno alla doglianza di omesso interrogatorio degli stessi incolpati -, la censura, in ogni caso, non specifica quando, dove ed in quali termini sono state formulate le evocate richieste di ulteriore istruttoria, né quando, dove ed in quali termini è stato denunciata l’omissione di interrogatorio, con la conseguenza che, in presenza di tali carenze, questa Corte non è posta in grado di accertare se vi sia stata la sussistenza della violazione del diritto di difesa lamentato dagli incolpati medesimi;
che – come emerge dal contenuto dei su sintetizzati motivi di ricorso – la maggior parte delle censure è rivolta alla decisione impugnata, nella parte in cui conferma la responsabilità disciplinare (anche) del ricorrente relativamente ai su riprodotti capi di incolpazione, di cui ai numeri da 1) a 3);
che giova sottolineare, in limine, che lo stesso Consiglio nazionale forense, relativamente al capo di incolpazione n. 1) – «Articolo 5 del Codice Deontologico Forense (C.D.F.), principio generale, per avere avviato l’attività dello studio legale associato “L’angolo dei diritti” in un locale posto sul piano strada, con l’utilizzo del predetto logo, applicando alle vetrine vetrofanie multilingue ed indicando con lo stesso mezzo le materie trattate, esponendo all’esterno gli orari di apertura e riportando sul sito internet, all’indirizzo (omesso), la dicitura “orari negozio”»-, ha premesso che, nella specie, «non è censurato i’esercizio della professione in ambiente e luogo diverso dalla tradizione o con inusuali modalità comunicative», e che «la localizzazione dello studio non comporta neppure una violazione della riservatezza dell’utente o della dignità professionale dei legali che operano nello studio», in tal modo affermando che gli aspetti inconsueti ed “originali” di pubblicizzazione dell’attività professionale forense adottati nella specie non collidono, di per sé, con la deontologia professionale, purché contenuti nei limiti imposti dai generali canoni della dignità, del decoro e della correttezza della professione;
che, riguardo a tale motivazione, è palesemente infondato il terzo motivo del ricorso – con il quale si denuncia la contraddittorietà in cui sarebbe caduto il Consiglio nazionale forense laddove, da un lato, ha ritenuto irrilevante sul piano disciplinare la concezione “tradizionale” dello studio legale, ma, dall’altro, ha censurato proprio il fatto che, nella specie, lo studio legale in questione non si conforma al modello “tradizionale”-, in quanto, contrariamente a quanto opinato dal ricorrente, i Giudici disciplinari, lungi dal cadere in contraddizione, hanno soltanto distinto tra iniziative di pubblicizzazione dell’attività professionale di carattere inconsueto ed “originale” ma conformi ai canoni della deontologia professionale e le stesse iniziative che, invece, collidono con tali canoni non già per dette caratteristiche ma per le forme e per le modalità con cui vengono realizzate;
che l’impostazione di fondo seguita dal Consiglio nazionale forense è, del resto, conforme al principio, più volte enunciato da queste Sezioni Unite, secondo cui, in tema di illeciti disciplinari riguardanti gli avvocati, mentre è da ritenere legittima la pubblicità informativa dell’attività professionale finalizzata all’acquisizione della clientela, la stessa pubblicità è sanzionabile disciplinarmente – ai sensi dell’art. 38 del menzionato R.D.L. n. 1578 del 1933, e degli artt. 17 e 17-bis del codice deontologico forense – ove venga svolta con modalità lesive del decoro e della dignità della professione (cfr., ex plurimis, la sentenza n. 23287 del 2010, in un caso in cui la decisione del C.N.F., confermata in sede di legittimità, aveva irrogato la sanzione della censura a carico di due avvocati che avevano aperto uno studio sulla pubblica via con la insegna «****** – Assistenza Legale per Tutti – prima consulenza gratuita»);
che la decisione impugnata ha ritenuto disciplinarmente sanzionabile per violazione dei canoni della dignità, della correttezza e del decoro «l’utilizzo delle espressioni “L’angolo dei diritti” e “negozio” (solo successivamente eliminata)», in quanto tali espressioni «hanno carattere prettamente commerciale», ed in quanto «Esse tendono a persuadere il possibile cliente attraverso un motto pieno di capacità evocativa emozionale, basandosi, quindi, su messaggi pubblicitari eccedenti l’ambito informativo razionale così come previsto dalla norma deontologica» (artt. 17 e 19 del Codice deontologico forense);
che, a quest’ultimo riguardo, è infondato il quarto motivo del ricorso – con il quale il ricorrente sostiene che il Consiglio nazionale forense non avrebbe adeguato il parametro del “decoro” della professione alla coscienza sociale ed all’etica professionale dell’attuale momento storico -, in quanto, avendo le previsioni del codice deontologico forense la natura di fonte meramente integrativa dei precetti normativi e potendo ispirarsi legittimamente a concetti e valori diffusi, generalmente compresi dalla collettività (sezioni unite, sentenza n. 15852 del 2009), è certamente ragionevole ritenere, con il Consiglio nazionale forense, che quantomeno l’espressione «negozio» («orari negozio», di cui al capo di incolpazione n. 1), utilizzata nella specie, non si addice all’individuazione di uno studio legale e non corrisponde al valore del “decoro” della professione di avvocato, quale è concepito anche nell’attuale e diffuso sentire comune, senza contare che l’uso della stessa espressione giustifica ampiamente l’affermato carattere «commerciale» (art. 17-bis del Codice) del’iniziativa pubblicitaria;
che molte delle critiche formulate dal ricorrente con gli altri motivi del ricorso si fondano sul generale rilievo che il decreto cosiddetto “Bersani” (decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 4 agosto 2006, n. 248, recante «Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale»), in attuazione dei principi di libera concorrenza e di libertà di circolazione delle persone e dei servizi, ha espressamente abrogato tutte le disposizioni legislative, regolamentari e deontologiche che vietavano ai professionisti la pubblicità informativa circa i titoli e le specializzazioni professionali, le caratteristiche del servizio offerto, nonché il prezzo e i costi complessivi delle prestazioni, secondo criteri di trasparenza e veridicità del messaggio, il cui rispetto è verificato dall’Ordine, e che tale abrogazione non ha comportato alcun vuoto normativo di tutela, in quanto il decreto legislativo 2 agosto 2007, n. 145 (Attuazione dell’articolo 14 della direttiva 2005/29/CE che modifica la direttiva 84/450/CEE sulla pubblicità ingannevole) contiene una esaustiva disciplina in materia di pubblicità ingannevole e comparativa, che prevede la esclusiva vigilanza dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato con poteri ispettivi e sanzionatori;
che al riguardo, in particolare, la censura mossa con il primo motivo – secondo la quale, nella specie, il Consiglio nazionale forense avrebbe ecceduto i limiti del potere attribuitogli, in quanto, anziché limitarsi a verificare la veridicità del messaggio pubblicitario di cui al capo di incolpazione n. 1), ha giudicato il contenuto e gli effetti dello stesso messaggio, funzione questa attribuita alla predetta Autorità garante della concorrenza e del mercato – è palesemente inammissibile, perché “nuova”, in quanto tale questione non risulta essere stata sottoposta al Consiglio nazionale forense con i motivi di impugnazione che lo stesso ricorrente elenca minuziosamente (cfr. Ricorso, pagg. 3-5), ciò a prescindere, in ogni caso, dal rilievo che in questa sede si verte in tema non di violazioni amministrative in materia di pubblicità ingannevole, bensì di violazioni di rilievo disciplinare al codice di deontologia forense;
che inoltre, quanto alla critica secondo cui lo stesso Consiglio avrebbe offerto una lettura troppo restrittiva del decreto “Bersani” in tema di pubblicità informativa, è certamente vero che l’art. 2, comma 1, lettera b), del menzionato d. l. n. 223 del 2006 stabilisce che «1. In conformità al principio comunitario di libera concorrenza ed a quello di libertà di circolazione delle persone e dei servizi, nonché al fine di assicurare agli utenti un’effettiva facoltà di scelta nell’esercizio dei propri diritti e di comparazione delle prestazioni offerte sul mercato, dalla data di entrata in vigore del presente decreto sono abrogate le disposizioni legislative e regolamentari che prevedono con riferimento alle attività libero professionali e intellettuali: […] b) il divieto, anche parziale, di svolgere pubblicità informativa circa i titoli e le specializzazioni professionali, le caratteristiche del servizio offerto, nonché il prezzo e i costi complessivi delle prestazioni secondo criteri di trasparenza e veridicità del messaggio il cui rispetto è verificato dall’ordine […]», e che il successivo comma 3 dello stesso art. 1 dispone che «3. Le disposizioni deontologiche e pattizie e i codici di autodisciplina che contengono le prescrizioni di cui al comma 1 sono adeguate, anche con l’adozione di misure a garanzia della qualità delle prestazioni professionali, entro il 1° gennaio 2007. In caso di mancato adeguamento, a decorrere dalla medesima data le norme in contrasto con quanto previsto dal comma 1 sono in ogni caso nulle»;
che, tuttavia, come è già stato rilevato da queste Sezioni Unite con la citata sentenza n. 23287 del 2010, gli ora riprodotti commi dell’art. 2 del D.L. n. 223 del 2006 si sono limitati ad abrogare le disposizioni legislative e regolamentari che prevedevano, per le attività libero-professionali, divieti anche parziali di svolgere pubblicità informativa, nonché ad imporre, a pena di nullità, l’”adeguamento” all’abolizione di tali divieti delle disposizioni deontologiche e pattizie e dei codici di autodisciplina, adeguamento che, con deliberazioni adottate negli anni 2007 e 2008, il Consiglio nazionale forense ha realizzato, tra l’altro, modificando l’art. 17 ed introducendo il nuovo art. 17-bis del Codice deontologico;
che, invece, lo stesso D.L. n. 223 del 2006 nulla ha certamente disposto circa il rilievo disciplinare delle modalità e del contenuto con cui la pubblicità informativa è realizzata, né ha inciso sulla norma generale di cui all’art. 38, primo comma, del citato R.D.L. n. 1578 del 1933, secondo cui «[…] gli avvocati […] che si rendono colpevoli […] di fatti non conformi alla dignità e al decoro professionale sono sottoposti a procedimento disciplinare», con la conseguenza che le lamentate violazioni di legge non sussistono, poiché non è illegittimo per l’organo disciplinare individuare forme di illecito (non già nella pubblicità informativa in sé, ma) nelle modalità e nel contenuto con cui essa viene realizzata, in quanto lesivi del decoro e della dignità della professione, e (neppure nelle iniziative di acquisizione della clientela in sé, ma) negli strumenti usati per l’acquisizione della clientela, allorché questi non siano conformi alla correttezza ed al decoro professionale;
che, infine, anche il quinto motivo – con il quale il ricorrente si duole che la decisione impugnata non abbia tenuto conto dell’immediato adeguamento degli incolpati al modello deontologico loro suggerito dalle contestate incolpazioni – è privo di fondamento, in quanto la motivazione al riguardo del Consiglio nazionale forense («La circostanza che i ricorrenti abbiano posto rimedio all’insufficienza delle indicazioni rispetto al modello deontologico in un momento successivo non scrimina per ciò solo il comportamento precedente contrario alla deontologia») è corretta e conforme a diritto, non sussistendo alcuna norma nel sistema disciplinare forense che preveda l’eliminazione dell’illecito in ragione del cosiddetto “ravvedimento operoso” che, invece, può essere valutato ai fini della scelta e della graduazione della sanzione (nella specie, non è stata formulata alcuna specifica censura a quest’ultimo riguardo);
che, pertanto, il ricorso deve essere respinto;
che non sussistono i presupposti per pronunciare sulle spese del presente grado del giudizio.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso.

Redazione