Atto negoziale in difetto di valido impegno di spesa: è il funzionario a rispondere del contratto non approvato dall’ente (Cass. n. 14785/2012)

Redazione 04/09/12
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Svolgimento del processo

Con sentenza del 15.06-3.09.2001, il Tribunale di Trapani, accogliendo l’opposizione proposta dal Comune di (omesso) nei confronti della (omesso) S.p.A., revocava il decreto ingiuntivo emesso il 14.06.1999, dal Presidente del medesimo Tribunale, con il quale era stato intimato all’ente pubblico territoriale il pagamento della somma di £ 304.807.362, oltre interessi e spese, dalla società pretesa a titolo di corrispettivo in relazione al contratto di appalto, stipulato dalle parti il 29.04.1997, avente ad oggetto il servizio di rilevazione dei tributi comunali evasi.
Il Tribunale, uniformandosi a precedente sentenza emessa in relazione ad analoga causa, riteneva che non potesse essere accolta la domanda della (omesso) in ragione della nullità del contratto per contrasto con le norme imperative in materia di contabilità pubblica degli enti locali, nullità rilevabile d’ufficio.
Con sentenza del 16-30.03.2005, la Corte di appello di Palermo, nel contraddittorio delle parti, respingeva il gravame proposto dalla (omesso) s.p.a., incorporante la (omesso) S.p.A., ed affidato a due motivi.
La Corte distrettuale osservava che il contratto in oggetto, contrariamente a quanto sostenuto dall’appellante, non poteva essere inquadrato nella categoria dei c.d. contratti attivi; che l’atto negoziale posto in essere in difetto di un valido impegno di spesa non potesse essere riferito al Comune, per l’invalidità dell’impegno assunto senza la necessaria copertura finanziaria, restando in tale caso esperibile dai privati, a norma dell’art. 23 D.L. n. 66 del 1989, conv. in legge n. 144 del 1989 e riprodotto nell’art. 35 D.Lgs. n. 77 del 1995, l’azione di responsabilità contro gli amministratori e ì funzionari di province, comuni, e comunità montane per prestazioni e servizi resi senza il rispetto delle prescritte formalità. Tale conclusione non sarebbe poi stata in contrasto né con il dettato costituzionale (art. 28 Cost.), come d’altro canto già riconosciuto dalla Corte in altra precedente decisione (n. 446 del 1995), né con lo “ius superveniens” (D.Lgs. n. 267 del 2000), che secondo la Corte avrebbe ammesso la possibilità di un riconoscimento a posteriori della legittimità dei debiti fuori bilancio, trattandosi comunque di valutazione rimessa alla Pubblica Amministrazione, nella specie non esercitata.
Avverso questa sentenza la società (omesso) S.p.A. ha proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi e notificato al Comune di (omesso), che non ha resistito con controricorso ma partecipato alla discussione orale.

 

Motivi della decisione

Con i quattro motivi di ricorso la (omesso) ha denunciato:
1. Illegittimità costituzionale dell’art. 23, comma IV, del Decreto legge 2 marzo 1989, n. 66, sostituito dall’art. 35, comma IV, del D.Lgs. n. 77/95, modificato dall’art. 4 del D.Lgs. 15 settembre 1997, n. 342, e oggi trasfuso nell’art. 191, comma IV del D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (Testo Unico sull’ordinamento degli enti locali), in riferimento all’art. 3 della Costituzione per contrasto con i principi di ragionevolezza e parità di trattamento, all’art. 28 della Costituzione per contrasto con il principio di estensione della responsabilità dello Stato e degli enti pubblici per atti compiuti dai funzionari dello Stato e degli enti pubblici in violazione di diritti e all’art. 24 per violazione del diritto di difesa.
La disposizione in questione sarebbe viziata sotto i seguenti aspetti: sarebbe irragionevole pretendere in capo al soggetto privato un obbligo di verifica in ordine all’avvenuta registrazione dell’impegno contabile sul capitolo di bilancio di previsione con l’attestazione della relativa copertura finanziaria, dopo la stipulazione dell’accordo; si porrebbe in contrasto con i principi di buona fede nell’interpretazione e nell’esecuzione del contratto; determinerebbe un ingiustificato squilibrio fra le posizioni delle parti, che avrebbero operato in ambito esclusivamente negoziale; potrebbe favorire, e ciò irragionevolmente, comportamenti elusivi da parte degli enti pubblici, a scapito del contraente privato; la tutela giurisdizionale dell’appaltatore sarebbe vanificata, per effetto della sostituzione ope legis all’originario debitore di un altro soggetto non ugualmente solvibile; la modifica normativa nel senso dell’esclusione della responsabilità diretta dell’ente pubblico e della previsione, in luogo di questa, di una responsabilità del contraente privato sarebbe stata sollecitata dall’esigenza di limitare il pregiudizio dell’ente pubblico, obiettivo conseguito con il riconoscimento della possibilità. per il privato, di rivalersi esclusivamente nei confronti del funzionario, con evidente disparità di trattamento fra le due parti in causa; l’azione diretta nei confronti del funzionario non varrebbe comunque a scindere il rapporto di immedesimazione organica tra ente e funzionario; l’azione diretta nei confronti del funzionario sarebbe nella specie lesiva del diritto di difesa, essendosi formata la volontà della pubblica Amministrazione a seguito dell’intervento di una pluralità di organi.
2. Insufficiente e contraddittoria motivazione con riferimento alla conclusione secondo cui il contratto in questione non avrebbe potuto essere annoverato fra quelli attivi per l’amministrazione. L’affermata esclusione sarebbe infatti illogica e contraddittoria, perché incentrata sulla comparazione fra una spesa certa ed un ritorno soltanto auspicato, con una sostituzione dell’organo giudiziario all’amministrazione, quindi, per quanto concerne la valutazione circa la convenienza dell’appalto, sostituzione viceversa negata in altra parte della stessa decisione. In ogni modo una difforme valutazione di convenienza operata dalla pubblica amministrazione dopo la definizione dell’accordo non avrebbe potuto giustificare il mancato pagamento del dovuto, risultando tale effetto in contrasto con i principi di buona fede e correttezza precontrattuale e contrattuale.
3. Violazione e falsa applicazione dell’art. 23, comma IV, del Decreto legge 2 marzo 1989, n. 66 e successive modifiche, richiamate sub 1), per il fatto che a torto era stata ritenuta applicabile la disciplina di cui al D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 191, comma IV, atteso che questa Corte si sarebbe già pronunciata in senso negativo sull’applicabilità di detta disposizione in relazione a contratto tra Pubblica Amministrazione e professionista privato, con affermazioni di principio che ben avrebbero dovuto trovare attuazione anche nel caso in esame.
4. In ogni caso, erronea interpretazione dell’art. 5 del D.lgs. 15 settembre 1997, n. 342, che ha sostituito la lett. e) del comma I, dell’art. 37 del D.lgs. 25 febbraio 1995 n. 77, disposizione poi trasfusa nell’art. 194 comma 1) lett. e) del D.lgs. 18 agosto 2000 n. 267.
Il debito del Comune di (omesso) nei confronti di (omesso) S.p.A. rientra comunque tra quelli riconoscibili ai sensi dell’art. 194, comma 1, lett. e) del D.Lgs. 18 agosto 2000 n. 267, che ammette la possibilità di un riconoscimento, da parte degli enti locali, della legittimità dei debiti fuori bilanci. A torto il giudice di secondo grado ha ritenuto che il riconoscimento del debito fuori bilancio debba necessariamente avvenire attraverso una formale deliberazione e che pertanto trattasi di valutazione spettante all’Amministrazione cui il giudice non può sostituirsi, giacché per la normativa attualmente in vigore rileva la mera riconoscibilità del debito, sufficiente ad escludere il prodursi dell’effetto sanzionatorio dell’imputazione diretta del rapporto obbligatorio nei confronti dell’amministratore o del funzionario.
Le censure sono infondate, anche alla luce della condivisa, precedente sentenza n. 14136 del 2011, resa da questa Corte in pressoché analoga impugnazione.
Per quanto concerne il primo motivo, la questione di costituzionalità della disposizione in oggetto è stata già sottoposta all’attenzione della Corte Costituzionale, che l’ha disattesa (segnatamente sentenze nn. 446 del 1995 e 295 del 1997), considerando in particolare: che la contestata innovazione normativa è stata dettata al duplice scopo di sollecitare un più rigoroso rispetto dei principi di legalità e correttezza da parte di coloro che operano nelle gestioni locali, nonché di assicurare che la competenza ad esprimere la volontà degli enti locali resti riservata agli organi a ciò deputati; che l’esclusiva configurazione di un rapporto contrattuale fra terzo contraente e funzionario che ha autorizzato l’effettuazione dei lavori è consequenziale al dato, posto come premessa, che gli atti di acquisizione di beni e servizi senza delibera autorizzativa e relativa copertura finanziaria solo apparentemente sono riconducibili all’ente pubblico; che tale frattura del nesso organico con l’apparato pubblico (che fra l’altro il terzo contraente non dovrebbe ignorare) vale ad impedire di ricondurre la fattispecie agli schemi della responsabilità dell’amministrazione. Il ricorrente, d’altra parte, non ha prospettato nuovi profili di incompatibilità costituzionale rispetto a quelli precedentemente esaminati dal giudice delle leggi, essendosi viceversa sostanzialmente limitato ad evidenziare alcuni risvolti di opinabilità nella soluzione adottata dal legislatore nell’esercizio del suo potere discrezionale sicché, come già anticipato, l’eccezione appare priva di pregio.
Ad identica sfavorevole conclusione deve pervenirsi per quanto concerne il secondo motivo di impugnazione. Sono insussistenti, infatti, i denunciati vizi di motivazione con riferimento alla negata configurabilità del contratto in questione come contratto attivo, vale a dire come negozio in esecuzione del quale la P.A. non sostiene una spesa ma riceve un’entrata, e ciò in quanto la Corte di appello ha dato ragione della propria valutazione, rilevando in particolare che l’art. 17 del capitolato d’oneri prevedeva termini e modalità di pagamento tali da implicare per il Comune una spesa certa, a fronte di un ritorno finanziario auspicato e condizionato al verificarsi di una pluralità di variabili. Né può dirsi, come suggerisce il ricorrente, che la detta valutazione implichi una non consentita sostituzione dell’autorità giudiziaria all’autorità amministrativa nel giudizio circa la convenienza dell’appalto, ovvero che il mancato pagamento del dovuto si ponga in contrasto con i principi di correttezza e buona fede, e ciò in quanto la questione oggetto di esame non è quella relativa alla maggiore o minore convenienza del contratto, ma piuttosto quella concernente l’onerosità o meno dell’accordo, mentre l’effetto rappresentato come in violazione dei sopra richiamati principi costituisce la semplice conseguenza dell’inesistenza di un rapporto diretto del terzo contraente con la P.A.
Del pari privo di pregio è il terzo motivo del ricorso, rispetto al quale è sufficiente rilevare la genericità della censura, finalizzata all’applicazione di un principio per il quale il professionista privato avrebbe diritto al compenso in un contratto stipulato con la Pubblica amministrazione, nonché la sua inconsistenza nel merito, alla luce di precedenti specifici di questa Corte (cfr. Cass. n. 22922 del 2009; Cass. SU n. 12195 del 2005; in tema cfr. anche Cass. n. 12880 e 26202 del 2010; n. 3957 del 2012), che affermano il contrario principio secondo cui la nullità della delibera conferente ad un professionista privato l’incarico per la progettazione di un’opera pubblica esclude la sua idoneità a costituire titolo per il compenso, principio applicabile anche al caso di specie attesa l’identità delle situazioni considerate.
Ineccepibile si rivela, inoltre, l’affermazione dei giudici d’appello, censurata col quarto motivo, secondo cui non avendo l’ente proceduto al formale riconoscimento di legittimità del debito fuori bilancio, che costituisce frutto di valutazione di competenza dell’amministrazione, la nullità del contratto d’appalto conseguente alla mancata copertura finanziaria non era stato nemmeno sanata, e, pertanto, il rapporto obbligatorio intercorreva unicamente tra il terzo contraente e il funzionario o l’amministratore che aveva autorizzato la prestazione (cfr., tra le altre, Cass. n. 355 del 2002; n. 12274 del 2004; n. 1150 del 2005. In tema cfr. anche Cass. n. 27406 del 2008).
Il quadro normativo rende chiaro che il giudice non può sostituirsi all’amministrazione affermando l’esistenza di un diritto al riconoscimento del debito assunto fuori bilancio, nella ricorrenza delle condizioni indicate dal legislatore, perché l’ente possa procedere al riconoscimento. Tale conclusione è imposta, oltre che dai principi, dal tenore letterale della norma, dalla sua funzione e dall’interpretazione complessiva. Infatti, se si ritenesse sussistente un diritto al riconoscimento giustiziabile davanti al giudice ordinario, in presenza e nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l’ente, nell’ambito dell’espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza, non si comprenderebbe poi il mantenimento del principio della sussistenza del rapporto obbligatorio unicamente tra il terzo e l’amministratore o il funzionario che ha irritualmente autorizzato i lavori o i servizi (quale risulta ora dall’art. 191.4. del T.U. e prima risultava dall’art. 35.4. del D.Lgs. 25 febbraio 1995, n. 77, modificato dall’art. 4.1. della L. 15 maggio 1997, n. 127).
Conclusivamente il ricorso deve essere rigettato, con condanna della società S.p.A., soccombente, al pagamento in favore del Comune delle spese processuali del giudizio di legittimità, liquidate in dispositivo, considerando la partecipazione alla pubblica udienza dell’avv. (omesso) nominato difensore del Comune con procura del Sindaco, ritualmente autenticata dal Segretario Comunale ai sensi del D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (Cass. n. 3757 del 2001; n. 14136 del 2011 cit.).

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la (omesso) S.p.A al pagamento, in favore del Comune di (omesso) delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in € 3.700,00 di cui € 200,00 per esborsi, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 27 giugno 2012.

Redazione