Assolto il vigile urbano che si rifiuta di notificare atti della Direzione Provinciale del Lavoro (Cass. pen. n. 16567/2013)

Redazione 12/04/13
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Ritenuto in fatto

1. Con sentenza del 28 marzo 2012 la Corte d’appello di L’Aquila ha confermato la sentenza pronunciata in data 25 novembre 2009 dal G.u.p. del Tribunale di Chieti, che all’esito di giudizio abbreviato condannava S.L., vigile urbano in servizio presso il Comune di (omissis), alla pena, condizionalmente sospesa, di mesi quattro di reclusione per il reato di rifiuto di atti d’ufficio.
2. Il Giudice di primo grado riteneva giustificata l’affermazione di penale responsabilità per avere il S., quale messo comunale del su indicato Comune, indebitamente rifiutato di adempiere un atto del suo ufficio nei confronti della Direzione provinciale del lavoro di Pescara, che aveva richiesto e più volte sollecitato la notifica ex art. 143 c.p.c. di diffide accertative all’indirizzo del legale rappresentante della s.r.l. “Casting Moda”, C.G. , sul presupposto che il messo comunale è tenuto a notificare tutti gli atti della propria amministrazione e delle altre amministrazioni pubbliche individuate dall’art. 1, comma 2, del D.lgs. n. 165/2001, come previsto dall’art. 10 della L. n. 265/1999.
Nel caso di specie, le notifiche effettuate ai sensi dell’art. 145 c.p.c. ed a mezzo il servizio postale non erano andate a buon fine, sicché erano state legittimamente richieste al messo comunale di Rapino, che però non le aveva effettuate con le modalità di legge, sebbene egli fosse a conoscenza delle richieste inoltrate dalla su indicata Direzione provinciale del lavoro.
3. Avverso la predetta sentenza della Corte d’appello di L’Aquila ha proposto ricorso per cassazione il difensore di fiducia dell’imputato, formulando sei motivi di doglianza il cui contenuto viene qui di seguito sinteticamente riassunto.
3.1. Violazione ed erronea applicazione dell’art. 494 c.p.p. e manifesta illogicità della motivazione in relazione all’art. 606, lett. a) e lett. e), c.p.p., avendo il Giudice d’appello errato nel ritenere che l’imputato, presente nei dibattimenti di primo e secondo grado, abbia taciuto, personalmente creando, con la sua condotta processuale, un presupposto per la inescusabilità della sua omissione. Il diritto alle spontanee dichiarazioni verrebbe, in tal modo, trasformato in un onere a carico dell’imputato.
3.2. Violazione ed erronea applicazione dell’art. 328 c.p. e difetto di motivazione in relazione agli artt. 606, lett. a) e lett. e), c.p.p., avendo il Giudice d’appello errato nel ritenere che la notifica di una diffida accertativa proveniente dall’Ufficio provinciale del lavoro costituisse un atto urgente da compiere per motivi di giustizia.
3.3. Violazione ed erronea applicazione dell’art. 328 c.p., in relazione all’art. 143 c.p.c., per la mancata correlazione fra condanna ed accusa contestata, ex artt. 521 e 522 c.p.p., in quanto l’Ufficio del lavoro aveva denunciato alla Procura della Repubblica la mancata pubblicazione nell’albo pretorio che, come ammesso dalla stessa Corte d’appello, non era dovuta per legge e, comunque, non competeva al messo comunale. Addebitando al vigile comunale di non aver effettuato il deposito degli atti – compito spettante ad altro ufficio, la cui omissione non era stata contestata – la Corte di merito ha poi condannato per omessa notifica, con la conseguente nullità dell’impugnata sentenza.
3.4. Erronea applicazione dell’art. 42 c.p. ed erronea motivazione ex art. 606, lett. a) e lett. e), c.p.p., avendo la Corte d’appello ritenuto la sussistenza dell’elemento intenzionale desumendolo dal fatto che il vigile, richiesto della prestazione, non la eseguì, mentre il Sindaco, nella sua deposizione, aveva riassunto la posizione del S. , il quale, da lui convocato, aveva al riguardo manifestato non un immotivato rifiuto, ma la chiara obiezione che l’atto non rientrava nella sua competenza: non trattandosi di notifica, ma di deposito dell’atto, l’adempimento non era di sua competenza, come da lui correttamente riferito al Sindaco.
3.5. Erronea applicazione dell’art. 328 c.p. in relazione alla L 20 novembre 1982, n. 890, e correlativo difetto di motivazione, avendo la Corte d’appello errato nel ritenere indebito il rifiuto di eseguire atti in base all’art. 143 c.p.c., essendo applicabile, di contro, la disposizione di cui all’art. 12 della L n. 890/1982, come modificato dalla L. n. 265/1999.
3.6. Ulteriore violazione dell’art. 43 c.p., e conseguente difetto di motivazione, ex art. 606, lett. a) ed e), c.p.p., atteso che, contrariamente a quanto sostenuto dalla Corte d’appello, l’imputato aveva spiegato che l’atto richiesto nel caso di specie – ossia, il deposito e la pubblicazione – non gli competeva, con la conseguenza che una giustificazione al riguardo era stata comunque offerta, e, se non condivisa, era da ritenere quanto meno plausibile.

 

Considerato in diritto

4. Il ricorso è fondato e va accolto.
5. Preliminarmente, occorre considerare, per il suo carattere ictu oculi assorbente sul piano logico-giuridico, il secondo motivo di doglianza, non potendosi ravvisare, nei fatti così come accertati in sede di merito, gli estremi del contestato delitto di rifiuto di atti d’ufficio.
Come è noto, l’art. 328 c.p. disciplina due distinte ipotesi di reato: a) nella prima il delitto si perfeziona con la semplice omissione del provvedimento di cui si sollecita la tempestiva adozione, siccome incidente su beni di valore primario (giustizia, sicurezza pubblica, ordine pubblico, igiene, sanità); b) nella seconda, invece, ai fini della consumazione è necessario il concorso di due condotte omissive, la mancata adozione dell’atto entro trenta giorni dalla richiesta scritta della parte interessata e la mancata risposta sulle ragioni del ritardo (Sez. 6, n. 11877 del 20/01/2003, dep. 13/03/2003, Rv. 224861).
Nel caso di specie, il tema d’accusa investe l’ipotesi riconducibile al primo comma della norma incriminatrice, poiché il comma successivo è configurabile soltanto nell’evenienza che vi sia un soggetto privato interessato all’adozione dell’atto.
Affinché possa configurarsi l’ipotesi del primo comma, tuttavia, è richiesto che l’atto omesso o ritardato sia specificamente riconducibile al genus di uno dei beni primari ivi indicati.
Esclusa la caratterizzazione del provvedimento de quo (v., supra, il par. 2) come incidente sui beni della sicurezza pubblica, dell’ordine pubblico, dell’igiene e della sanità, l’unico riferimento potenzialmente individuabile avrebbe potuto essere quello inerente al genus della giustizia.
Sotto tale profilo, però, deve rilevarsi come la specifica tipologia del provvedimento che il messo comunale avrebbe dovuto adottare non sia, evidentemente, riconducibile allo schema normativo e all’ambito di operatività propri di quelli richiesti per ragioni di giustizia.
Al riguardo, invero, questa Suprema Corte si è più volte espressa nel senso che per atto di ufficio il quale per “ragione di giustizia” deve essere compiuto senza ritardo, al pari di quanto previsto dall’art. 650 cod. pen., deve intendersi qualunque provvedimento od ordine autorizzato da una norma giuridica per la pronta attuazione del diritto obiettivo e diretto a rendere possibile, ovvero più agevole, l’attività del giudice, del pubblico ministero o degli ufficiali di polizia giudiziaria. La ragione di giustizia, dunque, si esaurisce con la emanazione del provvedimento di uno degli organi or ora citati, non estendendosi agli atti che altri soggetti sono tenuti eventualmente ad adottare in esecuzione del provvedimento dato per ragione di giustizia (Sez. 6, n. 14599 del 25/01/2010, dep. 15/04/2010, Rv. 246655; Sez. 6, n. 3398 del 08/01/2003, dep. 23/01/2003, Rv. 223422; Sez. 6, n. 784 del 05/11/1998, dep. 21/01/1999, Rv. 213904).
Non attiene, pertanto, ad una ragione di giustizia la mancata notifica, da parte di un messo comunale, di atti trasmessi da una Direzione provinciale del lavoro, che ne solleciti l’espletamento quale presupposto per il completamento delle procedure amministrative di recupero dei contributi dovuti da società private agli enti previdenziali e di applicazione delle relative sanzioni amministrative.
Sulla base delle su esposte considerazioni, avuto riguardo alla decisività dell’argomento posto a sostegno della questione trattata con il secondo motivo di ricorso, deve intendersi logicamente assorbita la rilevanza degli ulteriori profili di doglianza ivi prospettati, la cui disamina deve pertanto considerarsi, in questa Sede, del tutto superflua.
6. Conclusivamente, la sentenza impugnata va annullata senza rinvio in punto di affermazione della responsabilità per il reato di rifiuto di atti d’ufficio perché il fatto non sussiste.

P.Q.M.

annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste.

Redazione