Argento: la falsa punzonatura è reato (Cass. pen. n. 1466/2013)

Redazione 11/01/13
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Svolgimento del processo

1. Vicenda processuale e provvedimento impugnato – Il presente ricorso ha ad oggetto il provvedimento con cui il Tribunale per il Riesame ha confermato il sequestro preventivo di 4283 oggetti che la ditta facente capo agli odierni ricorrenti ha immesso in commercio.

L’ipotesi delittuosa su cui si fonda il provvedimento ablatorio è quella p. e p. dall’art. 515 c.p. perchè gli oggetti in questione presentavano la punzonatura “ARG. AG” e ad essi erano allegati dei cartellini contenenti la certificazione della loro realizzazione in argento laddove, per contro, gli accertamenti tecnici demandati alle Camere di commercio di Ancona e Macerata non rilevavano in tali oggetti la presenza di argento se non in percentuale minima.

Come tali, secondo l’accusa, gli oggetti in questione non erano conformi al dettato normativo di cui al D.Lgs. n. 251 del 1999 ed al D.P.R. n. 150 del 2002.

Va precisato che il procedimento ha tratto origine dall’esposto di tale C.A. e dall’annotazione dell’Associazione argentieri di Recanati, inizialmente, il P.M. aveva disposto, nei confronti di tali oggetti, un sequestro probatorio che era stato annullato dallo stesso Tribunale per omessa motivazione sul punto della pertinenza.

Successivamente, il P.M. aveva richiesto al G.i.p. un sequestro preventivo che, come detto,è stato confermato con l’ordinanza in discussione.

2. Motivi del ricorso – Avverso tale decisione, gli indagati hanno proposto ricorso, personalmente, deducendo:

In premessa, che il presente procedimento è solo il risultato di attacchi della concorrenza avverso il fatto che i ricorrenti abbiano immesso sul mercato un prodotto, denominato “miro silver” (laminato ricoperto da una lamina d’argento) dalle caratteristiche peculiari ed innovative su cui è stata apposta la punzonatura “Arg. Ag” che – visto il pochissimo spazio disponibile – era rappresentativa di quella di “Argentato Ag ” prevista dalla legge. D’altro canto – si fa notare – la presenza di cartellini abbinati agli oggetti contenenti la dicitura “prodotti realizzati in argento” è prevista per tutti gli oggetti che contengono argento e tutte le perizie hanno riconosciuto che gli oggetti contenevano argento sia pure in minima percentuale.

Ciò ha scatenato la concorrenza che è giunta a proporre delle denunzie che hanno determinato l’apertura di un procedimento penale, enfatizzato dalla stampa e che ha nuociuto grandemente all’immagine dei ricorrenti sebbene si basasse su maliziose insinuazioni (riprese anche nei primo decreto di sequestro) secondo cui gli oggetti presentavano la punzonatura “Argento Ag” che in realtà non è mai esistita nè, tanto meno, mai stata apposta dai ricorrenti.

Si sarebbe, pertanto, al cospetto di un primo errore di diritto fondato sul rilievo che, contrariamente a quanto si asserisce nel provvedimento impugnato, (così come nell’ordinanza dei G.i.p.) il termine “argentato” è previsto dalla norma.

un secondo errore di diritto sarebbe da ravvisare nell’asserzione secondo cui la punzonatura “Arg. Ag” sarebbe ingannevole unitamente ai certificati di garanzia che accompagnavano il prodotto.

Si fa però notare che tali certificati sono stati rimossi e che, comunque, ciascun oggetto costava 10 Euro sì che nessuno poteva ragionevolmente essere indotto a pensare di stare comprando un oggetto d’argento. Del resto, la norma non vuole che sia precisata la percentuale di metallo prezioso presente laddove essa sia inferiore al grammo.

Infine, quanto al periculum in mora i ricorrenti fanno notare che gli oggetti sono stati ritirati dal mercato e che giacciono da oltre un anno senza essere stati rivenduti (neppure dopo il dissequestro) e che essi si sono impegnati formalmente a non vendere più quei prodotti se non dopo loro regolarizzazione (v. dich. sub all. 35 ai ricorso).

1) violazione di legge quanto al periculum in mora perchè lo stesso G.i.p. afferma nel proprio provvedimento che l’attitudine ingannatoria della sigla “Arg.AG” discende dal fatto di essere associata ai cartellini sui quali si dice che il prodotto è in argento. A prescindere dal fatto Che Ciò è vero (essendovi argento sia pure in percentuale minima) è, poi, un fatto che, su invito degli stessi indagati, i prodotti sono stati ritirati dal mercato ed i cartellini sono stati tutti rimossi.

Il Tribunale per il Riesame sembra dubitare della cosa sostenendo trattarsi di mera affermazione dei ricorrenti che, per contro, fanno notare che tale rimozione è attestata dai documenti 409 e 41 allegati al ricorrente, vale a dire, i verbali di dissequestro, ove si da atto che, su disposizione del P.M., sono stati mantenuti in sequestro “144.750 certificati di autenticità e/o garanzia non conformi”.

Il vero è, sostengono i ricorrenti, che si è al cospetto di una denunzia strumentale della concorrenza tanto è vero che la sig.ra C. non è neppure membro dell’Associazione Argentieri ed è singolare che, nonostante ciò, ella sia stata “instradata” attraverso una comunicazione da parte di quest’ultima organizzazione (come documentato a ff. 40 e ss. dei ricorso);

2) violazione di legge per insussistenza del fumus del reato di cui all’art. 515 c.p.. L’assunto si fonda sul rilievo che è lo stesso D.P.R. n. 150 del 2002, art. 36 a consentire l’uso della sigla “Argentato Ag” di cui quella “Arg. Ag” è solo una abbreviazione.

Negando ciò, sia il G.i.p. che il Tribunale per il Riesame hanno praticamente ignorato la esistenza del comma 2 dell’art. 36.

In ogni caso, il prezzo esiguo del prodotto (come detto, 10 Euro) è tale da rendere il reato praticamente impossibile a mente dell’art. 49 c.p..

Non solo non vi è inganno ma, eventualmente, si tratterebbe di errore di fatto incolpevole e, come tale, non punibile a mente dell’art. 47 c.p..

Peraltro, si soggiunge, la norma da cui scaturisce la presente imputazione (D.Lgs. n. 251 del 1999, art. 25) è troppo generica perchè non rimanda ad uno specifico reato.

Richiamati, quindi, gli esiti di tutte le perizie (che hanno confermato la presenza di argento nel prodotto), i ricorrenti descrivono le sue caratteristiche che si sostanziano nel fatto di essere un laminato in cui, però l’argento è stato, per così dire, “fissato” o, per meglio dire, applicato al metallo attraverso la tecnica denominata “sputtering” che si sostanzia in un procedimento di trasferimento elettrochimico con uso di gas ad alto peso atomico che fissa le particele del metallo prezioso su una base di alluminio.

Il risultato è – detto in estrema sintesi – una saldatura tra i due metalli che rende il legame indissolubile. Il lamierino così ottenuto è, quindi, lavorabile molto agevolmente ed il tutto rende i costi di produzione di molto inferiori perchè la lastra si può acquistare già pronta e deve essere solo stampata a differenza di ciò che accade con le tecniche abituali che prevedono fasi di finitura e lucidatura.

E’ questo che ha suscitato la violenta reazione della concorrenza.

I ricorrenti, sottolineano, poi, l’erroneità della affermazione del Tribunale per il riesame secondo cui “non ha pregio l’argomento relativo al basso prezzo di vendita dei manufatti perchè tale aspetto, di per sè solo, non è in grado di consentire all’acquirente di accorgersi dello sviamento” perchè tutta la giurisprudenza formatasi con riferimento all’art. 474 c.p. (di cui vengono fatte plurime citazioni) fa riferimento all’assenza di illiceità quando si sia in presenza di un falso grossolano ovvero la grossolanità sia evincibile anche dalle “condizioni di vendita” (tale è la vendita ad un prezzo particolarmente basso);

3) violazione di legge per mancanza di legittimazione ad agire di un produttore concorrente o di un’associazione che espone interessi diffusi. A tal fine, i ricorrenti ricordano la giurisprudenza di legittimità in tema di persona offesa del reato di cui all’art. 515 c.p..

In ogni caso, si rammenta che, con il D.Lgs. n. 205 del 1999 il legislatore ha fatto una precisa scelta di depenalizzazione ed, in base alla L. n. 689 del 1981, art. 9 (in tema di depenalizzazione), tra la disposizione penale e quella speciale che prevede la sanzione amministrativa, deve prevalere quest’ultima;

4) violazione di legge per sospetta illegittimità costituzionale del D.Lgs. n. 251 del 1999, art. 25 in quanto norma penale in bianco. La clausola iniziale contenuta nella norma in questione “salva l’applicazione delle maggiori pene stabilite dalle leggi vigenti qualora il fatto costituisca reato” è, infatti, generica perchè non indica di quale reato si stia trattando. Ciò, in violazione del principio di tassatività della norma.

I ricorrenti concludono invocando l’annullamento della ordinanza impugnata.

Motivi della decisione

3. Motivi della decisione – Il ricorso è inammissibile perchè, a dispetto della denominazione data ai vizi del provvedimento qui denunciati, ciò di cui concretamente ci si duole, è rappresentato da questioni squisitamente di fatto il cui apprezzamento, dunque, non da luogo ad alcuna violazione di legge bensì solo a valutazioni di merito e, come tali, non consentite.

E’ stato reiteratamente affermato da questa S.C. a SS.UU. (per tutte, 29.5.08, ******, rv. 239692) che il ricorso per cassazione contro ordinanze emesse in materia di sequestro preventivo o probatorio “è ammesso solo per violazione di legge, in tale nozione dovendosi comprendere sia gli “errores in judicando”, sia quei vizi della motivazione così radicali da rendere l’apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento o del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e quindi inidoneo a rendere comprensibile l’itinerario logico seguito dal giudice (conf. s.u., 29 maggio 2008 n. 25933, **********, non massimata sul punto).

Detto, in altri termini, il presente ricorso, per essere ammissibile avrebbe dovuto concernere o l’assenza (sostanziale o formale) della motivazione, oppure una errata applicazione della legge.

Nulla di tutto ciò è qui riscontrabile.

La verbosità del ricorso ed il profluvio di argomenti svolti, infatti, porta all’attenzione solo una diversa prospettiva nella quale inquadrare i fatti e, detto in estrema sintesi, sviluppa la tesi secondo cui la denuncia è il risultato del malanimo della concorrenza, spiazzata dalla pregevole invenzione industriale che permette di produrre prodotti in laminato d’argento con facilità ed a bassi costi, a differenza di quelli finora affrontati con le procedure tradizionali.

Peraltro, nessun intento ingannevole sarebbe ravvisabile nell’apposizione della sigla “Arg.Ag”, visto che essa starebbe solo a significare che il prodotto è “argentato in argento” (cosa del tutto vera visto che, effettivamente, è presente una minima percentuale di argento la cui entità, del resto, per legge, non deve neppure essere specificata essendo inferiore al grammo) e l’abbreviazione era necessitata dalla mancanza di spazio. Concludono, infine, i ricorrenti sostenendo la illegittimità della permanenza del sequestro visto che, nel frattempo, i cartellini – che avrebbero potuto essere fuorvianti – sono stati sequestrati.

Non vi è chi non veda, però, come, a fronte del riepilogo dei punti essenziali sviluppati negli argomenti difensivi, ciò che il ricorrente auspica è solo una diversa valutazione della vicenda.

Ciò, però, non è consentito, sia, perchè ci si trova in una sede di legittimità, sia perchè, come detto inizialmente, il provvedimento qui in esame è impugnabile solo per violazione di legge.

Tale vizio non ricorre assolutamente nè sotto il profilo motivazionale nè sotto quello della applicazione della norma.

Ed infatti, va, innanzitutto, premesso che l’intera ordinanza del Tribunale per il Riesame è ben motivata. Essa ha risposto in modo conciso ma chiaro a tutte le – peraltro, identiche – questioni qui sollevate; inoltre è puntuale, coerente – sia in punto di fatto che diritto – e completa (anche nello sfrondare il campo da soverchi ed ingiustificati dubbi di legittimità costituzionale – f. 4).

Passando, quindi, a commentare il secondo motivo, (che deve trattarsi per primo perchè logicamente precede quello del periculum in mora) si deve far notare che lo stesso si duole immotivatamente della presunta assenza di fumus del reato ipotizzato dal momento che, per contro, il Tribunale per il Riesame spiega molto chiaramente che l’abbreviazione “Arg Ag” non esiste normativamente.

Il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 150, art. 36, infatti, prevede solo il termine “dorato” ma non anche quello di “argentato” visto che, per gli oggetti in metallo comune, rivestiti di argento è prevista la dicitura “laminato” o “placcato” seguita dal simbolo della tavola periodica di Mendeleev. Persino l’uso del termine argentato per esteso sarebbe stato erroneo ma, quantomeno, non sarebbe stato ingannevole quale, invece, finisce per essere l’uso dell’abbreviazione “Arg” seguito, appunto, dalla sigla del metallo utilizzato “Ag”.

Come giustamente chiosa il Tribunale per il Riesame, infatti, se si fosse voluto per lo meno evitare il rischio di fraintendimento, “sarebbe stato sufficiente scrivere nella punzonatura laminato Ag” 0, semplicemente, “Argentato”.

E’, quindi, del tutto corretta e logica la conclusione secondo cui si ha l’impressione di una “dicitura volutamente equivoca che, da un lato, tenta di accreditare l’ipotesi secondo cui “ARG” starebbe per “Argentato” e, dall’altro lato, tende a far credere che si tratta di argento merce l’utilizzazione della sigla AG”. Si tratta di considerazione ineccepibile anche di fronte all’ovvia considerazione che, nel consumatore frettoloso (che certamente non conosce le sigle normativamente previste ma capisce solo ciò che legge) la sigla “Arg AG” produce un significativo effetto di suggestione (il termine argento sembra ripetuto due volte sì da rafforzare l’impressione di trovarsi in presenza di un oggetto del pregiato metallo denominato argento).

Nè vale, in questa sede, replicare alcunchè, vuoi, sul tema della “mancanza di spazio” (per una dicitura più lunga) vuoi su quello della modestia del prezzo di vendita perchè è di tutta evidenza che si tratta di argomenti squisitamente di merito.

La stessa obiezione deve muoversi a tutta la questione sui cartellini che viene sviluppata dal ricorrente nel primo motivo (attinente il periculum in mora) ma che è qui del tutto irrilevante perchè evoca temi (quello delle insinuazioni della concorrenza ovvero della effettività, o meno, dell’avvenuto ritiro dei cartellini dal mercato) che riguardano i contenuti di fatto della vicenda e, soprattutto, sono irrilevanti in questa sede ove si discetta della sussistenza di esigenze probatorie per il mantenimento in sequestro degli oggetti in metallo.

E’, infatti, chiaro, dal provvedimento impugnato, che il periculum non è stato sostenuto dal Tribunale solo perchè i cartellini sono stati “asseritamele” tolti, bensì, perchè si sta parlando di un considerevole numero sì oggetti che presentano una “punzonatura non ammessa dall’ordinamento e di per sè costitutiva di reato” sì che una loro restituzione ai produttori “non impedisce in alcun modo che essi siano ugualmente venduti”. Ciò è di una logicità lampante ed intuitiva (ben potendosi immaginare anche il valore commerciale degli oltre 4000 oggetti) sì che non presenta critiche neppure l’ulteriore considerazione dei giudici di merito secondo cui “la stessa disponibilità degli indagati alla “regolarizzazione” dei prodotti o alla loro cessione in beneficenza è in effetti un sintomo della facilità con cui essi possono ancora circolare”.

Manifestamente infondata è, infine, anche la questione posta con il terzo motivo sul quale, a proposito del difetto di legittimazione ad agire del denunciante.

Il Tribunale per il Riesame, investito dell’analoga questione, ha bene replicato osservando che si sta parlando di un reato procedibile di ufficio e che la questione rileverebbe solo se si discettasse di costituzione di parte civile.

Per la medesima ragione, non ha pregio l’argomentazione tesa ad invocare una presunta prevalenza dell’illecito amministrativo visto che, nella specie, non si discute della ricorrenza o meno di una contravvenzione bensì di quella di un delitto, l’art. 515 c.p.. Del resto, lo stesso D.Lgs. n. 251 del 1999, art. 25 contiene la clausola di riserva iniziale per l’ipotesi in cui il fatto costituisca reato (e qui, appunto, si ipotizza che esso lo sia).

Alla presente declaratoria segue, per legge, la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e, ciascuno, al versamento alla Cassa delle Ammende della somma di 1000 Euro.

P.Q.M.

Visti gli artt. 615 e ss. c.p.p..

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e, ciascuno, al versamento alla Cassa delle Ammende della somma di 1000 Euro.

Redazione