Appello civile – Usucapione (Cass. n. 19517/2012)

Redazione 09/11/12
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Svolgimento del processo

Con atto di citazione notificato il 14-9-1976 **** (in proprio e quale erede del fratello T.G.), *****, R., D., G. e M.R. (nella duplice qualità di eredi dello zio T.G. e del proprio genitore Tr.Gi.) e B.R. (quale coniuge superstite di Tr.Gi.) convenivano dinanzi al Tribunale di Matera L.C., per sentirla condannare al rilascio di un appezzamento di terreno di mq. 90 sito in (omissis) (in catasto particella 1254, f. 79) del quale, con sentenza del 17-5-1963 del Tribunale di Matera, confermata dalla Corte di Cassazione, era stata dichiarata l’avvenuta usucapione in favore dei germani T. D., **. e G.. Gli attori chiedevano altresì la condanna della convenuta al risarcimento dei danni.

Nel corso del giudizio gli attori chiamavano in causa S. F., al quale la convenuta con atto per notaio ******* del 20- 10-1969 aveva donato il suolo in questione.

Con sentenza del 29-3-1979 il Tribunale, in accoglimento della domanda, condannava il S. al rilascio del terreno oggetto di causa.

Con sentenza dell’1-3-1983 la Corte di Appello di Potenza dichiarava la nullità della notificazione della citazione introduttiva e della sentenza appellata, disponendo la rimessione degli atti al primo giudice, ai sensi dell’art. 354 c.p.c..

Con atto notificato il 25-7-1983 T.N., R., D., G. e M.R., nella qualità di eredi degli zii T.G. e T.D. e del proprio genitore Gi., nonchè B.R., quale coniuge superstite di Tr.Gi., riassumevano il giudizio nei confronti di S.F..

Quest’ultimo, nel costituirsi, chiedeva in via riconvenzionale l’accertamento del suo acquisto per usucapione della proprietà dell’area in contestazione, per aver posseduto l’intera particella 1340, comprensiva della ex particella 1234, sin dal 1956.

Con sentenza depositata il 14-3-1996 il Tribunale di Matera, in parziale accoglimento della domanda attrice, condannava il S. a rilasciare il suolo in questione e a demolire i manufatti realizzati; rigettava, invece, la domanda risarcitoria dei T. e la domanda riconvenzionale del convenuto.

Con sentenza depositata il 28-5-1997 la Corte di Appello di Potenza dichiarava l’inammissibilità dell’appello proposto dal S., ritenendo inesistente la notificazione del gravame, effettuata con la consegna di una sola copia al procuratore di più soggetti.

Tale decisione veniva cassata con rinvio dalla Suprema Corte con sentenza dell’1-2-2001.

A seguito della riassunzione del giudizio da parte dell’appellante, con sentenza depositata il 12-12-2005 la Corte di Appello di Potenza rigettava il gravame, dichiarando interamente compensate tra le parti le spese di appello, di cassazione e di rinvio.

Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso S. F., sulla base di tre motivi.

Ha resistito con controricorso il solo T.G., mentre gli altri intimati non hanno svolto alcuna attività difensiva.

Motivi della decisione

1) Con il primo motivo il ricorrente denuncia l’insufficiente, contraddittoria e illogica motivazione circa un punto decisivo della controversia e l’omessa e incompleta valutazione delle risultanze processuali. Deduce che, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice di appello, dagli atti emerge la prova dell’esercizio continuo e ininterrotto del possesso ultraventennale del S. sulla porzione di terreno in questione, sulla quale, in particolare, il predetto sin dagli anni ’60 ha costruito un basamento.

Il motivo deve essere disatteso.

Attraverso la formale deduzione di vizi di motivazione, le censure mosse si risolvono, in buona sostanza, nella richiesta di una valutazione alternativa delle risultanze probatorie rispetto a quella compiuta dalla Corte di Appello, la quale, all’esito di un’approfondita disamina delle emergenze processuali, ha ritenuto la mancanza di elementi di prova idonei ad avallare l’assunto del possesso ultraventennale (rispetto alla data di notifica della rituale citazione in riassunzione nei confronti del S., avvenuta il 25-7-1983) della zona di terreno di mq. 90 di cui si discute da parte del convenuto.

Il giudizio espresso al riguardo dal giudice del gravame si sottrae al sindacato di questa Corte, essendo supportato da argomentazioni immuni da vizi logici, con le quali è stato evidenziato, in particolare, che la predetta area si presenta a tutt’oggi non edificata, a differenza della parte residua della particella 1340, sulla quale sono stati eseguiti lavori in virtù di licenza edilizia rilasciata in data 1-12-1970; e che nell’atto per notaio ******* del 20-10-1969, con il quale L.P.C. ha donato al figlio S.F. anche la proprietà della porzione di terreno in questione, le parti hanno dichiarato che il trasferimento del possesso legale del bene è avvenuto in pari data. Di qui il rilievo, dei tutto congruente, secondo cui il preteso possesso del terreno in contestazione, in base alla parola dallo stesso S., è iniziato solo nell’ottobre 1969; il che, ad avviso della Corte di Appello, trova ulteriore conferma sia nella data di rilascio della licenza edilizia (anno 1970), sia nel fatto che il ricorrente, nel donare a sua volta alle figlie, con atto notarile del 25-2-1984, il fabbricato costruito sulla particella 1340 di mq. 485, in essa ricompresa la piccola area di mq. 90 per cui si controverte, non ha fatto riferimento ad un proprio titolo autonomo di proprietà (il possesso ventennale e la conseguente usucapione), bensì ad un titolo derivativo (atto di donazione del 20-10-1969).

Orbene, costituisce principio acquisito in giurisprudenza quello secondo cui i vizi di motivazione denunciabili in Cassazione non possono consistere nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte, perchè spetta solo a quel giudice individuare le fonti del proprio convincimento e a tale fine valutare le prove, controllarne la attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova (tra le tante v. Cass. 14-10-2010 n. 21224; Cass. 5-3-2007 n. 5066; Cass. 21-4-2006 n. 9368; Cass. 20-4-2006 n. 9234; Cass. 16-2-2006 n. 3436; Cass. 20-10-2005 n. 20322).

2) Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione del diritto alla difesa (art. 101 c.p.c. e art. 24 Cost.), la violazione e falsa applicazione dell’art. 190 c.p.c., nella previgente formulazione, e la falsa applicazione del principio del contraddittorio (ex art. 101 c.p.c., artt. 24 e 3 Cost.). Deduce che la Corte di Appello ha errato nel ritenere tardiva la richiesta di usucapione abbreviata ex art. 1159 c.c., fatta valere dal S. in appello, in sede di memoria di replica. Fa presente che la controparte durante l’intero procedimento di appello ha avuto la possibilità di contrastare la sussistenza dei presupposti di tale titolo di acquisto, che, sebbene non esplicitamente dedotto, doveva ritenersi “immanente” nella dibattuta questione del possesso invocato dall’attore.

Il motivo è infondato.

Questa Corte ha più volte avuto modo di affermare che l’usucapione abbreviata ex art. 1159 c.c., per la sua particolare natura e per i suoi peculiari requisiti, deve essere specificamente invocata, e la sua deduzione non può considerarsi compresa in quella concernente l’usucapione ordinaria (v. Cass. 15-3-2010 n. 6238; Cass. 20-12-1994 n. 10962; Cass. 5-1-1983 n. 6; Cass. 18-5-1978 n. 2408; Cass. 28-4- 1971 n. 1245, Cass. 16-7-1966 n. 1923).

Ne consegue che l’usucapione abbreviata non può essere dedotta per la prima volta nella memoria di replica depositata in appello ai sensi dell’art. 190 c.p.c., nel testo (applicabile ratione temporis al presente giudizio) previgente alla novella del 1990, allorchè non risulti che i fatti costitutivi di tale forma di usucapione (titolo di acquisto a non dominò, trascrizione del titolo; possesso decennale; buona fede) abbiano costituito oggetto di allegazioni tempestivamente introdotte in giudizio, sulle quali la controparte abbia avuto la possibilità di difendersi e controdedurre.

Come è noto, infatti, con le memorie di cui all’art. 190 c.p.c., le parti possono solo replicare alle deduzioni avversarie e illustrare ulteriormente le tesi difensive già enunciate nelle comparse conclusionali; sicchè nelle dette memorie non possono essere esposte questioni nuove o formulate nuove conclusioni. Pertanto, ove sia prospettata per la prima volta una questione nuova con tale atto, il giudice non può e non deve pronunciarsi al riguardo (Cass. 7-12-2004 n. 22970).

Nel caso in esame, come è stato evidenziato nella sentenza impugnata, mentre l’esistenza del titolo astrattamente idoneo a trasferire la proprietà (atto di donazione del 20-10-1969) e l’esercizio del possesso decennale a partire dalla donazione potevano considerarsi fatti già allegati dal convenuto, non altrettanto può dirsi riguardo all’elemento del possesso in buona fede, che non aveva costituito oggetto di dibattito tra le parti.

Correttamente, pertanto, la Corte di Appello ha ritenuto tardiva la deduzione del diverso titolo di usucapione invocato dall’appellante solo in sede di memoria di replica, non avendo avuto le controparti (per le quali il termine per il deposito di scritti difensivi scadeva lo stesso giorno del deposito della memoria di replica del S.) la possibilità di controbattere in ordine alla sussistenza del requisito della buona fede del donatario, offrendo elementi idonei a superare la presunzione semplice posta dall’art. 1147 c.c..

3) Con il terzo motivo il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 356 c.p.c., comma 1. Sostiene che la Corte di Appello, in mancanza di altri rimedi, al fine di consentire all’appellante di esercitare con pienezza le proprie ragioni anche in sede di replica, avrebbe dovuto disporre la rimessione della causa sul ruolo, ai sensi della menzionata disposizione di legge, che fa salva la facoltà del giudice di appello di adottare provvedimenti per effetto dei quali “il procedimento deve continuare”.

Il motivo è privo di fondamento, dovendosi osservare che l’art. 356 c.p.c. (nel testo, applicabile alla fattispecie, previgente alla novella del 1990), non può essere invocato per rimettere in termini le parti incorse in decadenze e che, in ogni caso, non può essere sindacato in sede di legittimità, nemmeno ai sensi dell’art. 111 Cost., il mancato esercizio dei poteri discrezionali attribuiti dalia predetta norma al giudice di appello (cfr. Cass. 13-4-2000 n. 4796).

4) Per le ragioni esposte il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese sostenute dal controricorrente nel presente grado di giudizio, liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese in favore del controricorrente T.G., che liquida in Euro 2.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge. 

Redazione