Antisindacalità della condotta datoriale e reintegra dei lavoratori licenziati (Cass. n. 26286/2013)

Redazione 25/11/13
Scarica PDF Stampa

Svolgimento del processo

Con sentenza del 4/6/2004 il giudice del lavoro del Tribunale di Roma, accogliendo l’opposizione proposta L. n. 300 del 1970, ex art. 28 dall’Associazione Stampa Romana nei confronti della società ******** s.p.a., dichiarò l’antisindacalità della condotta di quest’ultima per aver licenziato D.L.S., G. G., P.S., A.S. e S.M. in violazione dell’obbligo di preventiva informazione del Fiduciario di redazione di cui all’art. 34, comma 4, del contratto collettivo nazionale di lavoro dei giornalisti, ordinandole di ripristinare il rapporto di lavoro dei predetti dipendenti e di corrispondere loro le retribuzioni dal momento del recesso a quello della reintegra e condannandola, altresì, all’affissione di tale decisione nelle bacheche aziendali delle imprese del gruppo SITCOM, oltre che alla sua pubblicazione e messa in onda nella testata ******** per tre giorni consecutivi nell’orario di fascia serale dalle ore 20,30. La Corte d’appello di Roma, investita dall’impugnazione di tale sentenza da parte della ******** s.p.a., ha rigettato il gravame dopo aver rilevato che era infondata l’eccezione del difetto di legittimazione attiva dell’Associazione ricorrente, che i licenziamenti adottati senza il preventivo nulla osta di cui alla summenzionata disposizione collettiva obbligatoria integravano gli estremi della contestata condotta antisindacale e che la rimozione degli effetti lesivi di questa non poteva avvenire che per il tramite del ripristino dei rapporti risolti senza l’osservanza della prescritta procedura di garanzia.

Per la cassazione della sentenza propone ricorso la SITCOM Televisioni s.r.l. – ******à Unipersonale, nella sua qualità di successore della ******** s.p.a., che affida l’impugnazione a quattro motivi di censura. Resiste con controricorso l’Associazione Stampa Romana.

Motivi della decisione

1. Col primo motivo la società ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione dell’art. 75 c.p.c. in relazione agli artt. 18 e 21 dello statuto dell’Associazione Stampa Romana, nonchè l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, oltre che l’erronea e falsa interpretazione delle risultanze probatorie ed il difetto di motivazione.

In particolare la ricorrente richiama l’eccezione del difetto di legittimazione processuale dell’Associazione Stampa Romana respinta dalla Corte di merito con motivazione che ritiene carente in quanto fondata esclusivamente sul mero rinvio alla sentenza di primo grado e, a tal riguardo, assume che in base allo statuto dell’associazione il segretario, cui compete la rappresentanza negoziale e processuale dell’associazione, può attuare unicamente le decisioni del Consiglio direttivo e della Giunta esecutiva ai quali spettano in via esclusiva tutti i poteri decisionali, ivi compreso quello di deliberare in merito ad ogni iniziativa giudiziaria. Ne sarebbe conseguito, secondo la ricorrente, che nella fattispecie il segretario avrebbe agito autonomamente nel promuovere l’iniziativa giudiziaria senza il supporto della delibera di autorizzazione dell’organo statutario competente, per cui non avrebbe potuto conferire la procura alle liti al difensore in ordine al rapporto dedotto in giudizio. Il motivo è infondato.

Invero, come la Corte territoriale ha rilevato in base ad una corretta interpretazione letterale, l’art. 18 dello statuto di riferimento prevede espressamente che il segretario ha la rappresentanza legale dell’associazione; d’altra parte, non può sfuggire che l’art. 75 c.p.c., in tema di capacità processuale, stabilisce al terzo comma che le persone giuridiche stanno in giudizio per mezzo di chi li rappresenta a norma della legge o dello statuto, mentre al quarto comma prevede che le associazioni e i comitati, che non sono persone giuridiche, stanno in giudizio per mezzo delle persone indicate negli artt. 36 c.c. e segg.. La Corte d’appello ha, quindi, affermato di poter condividere l’interpretazione della predetta norma statutaria eseguita dal primo giudice nel senso che la stessa non prevede che l’esercizio dei poteri rappresentativi del segretario sia sottoposto ad atti di ratifica da parte del Consiglio direttivo, aggiungendo che, in ogni caso, il Consiglio Direttivo dell’associazione appellata aveva ratificato, con delibera del 21 ottobre 2003, l’operato del consigliere segretario, nonchè legale rappresentante del sindacato, relativamente all’azione giudiziaria per la repressione della condotta antisindacale posta in essere dalla società ******** s.p.a.

La ricostruzione interpretativa della Corte di merito si rivela corretta in quanto l’organo rappresentativo di un’associazione può stare in giudizio senza necessità di autorizzazione da parte dell’organo deliberante (ove esistente), salva diversa specifica previsione legale o statutaria. Ne consegue che, in assenza di una norma di carattere generale che richieda una simile autorizzazione, è onere del ricorrente, il quale deduce l’irregolare costituzione dell’ente per mancata produzione della delibera autorizzativa, provare che lo statuto dell’ente contenga una simile previsione. A tal riguardo si osserva che il semplice richiamo alla previsione statutaria, di cui al summenzionato art. 18, per la quale il consigliere segretario attua le decisioni del Consiglio direttivo e della Giunta esecutiva non prova, di per sè solo, che il segretario avesse necessità di una previa autorizzazione per nominare il procuratore alle liti nella vertenza instaurata contro l’odierna ricorrente per attività antisindacale e, d’altra parte, quest’ultima non ha prodotto nel presente giudizio lo statuto ai fini della dimostrazione dell’esistenza di altra disposizione atta a confortare la fondatezza del suo assunto difensivo. Resta, in ogni caso, insuperata l’argomentazione decisionale che fa leva sull’avvenuta ratifica dell’operato del legale rappresentante da parte del consiglio direttivo.

2. Col secondo motivo la ricorrente si duole della violazione e falsa applicazione dell’art. 34 del contratto collettivo nazionale di lavoro dei giornalisti in relazione alla L. n. 300 del 1970, artt. 28 e 35, nonchè della violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 28 e della carenza e contraddittorietà della motivazione su un punto decisivo della controversia.

In particolare si imputa alla Corte d’appello di non aver considerato che le disposizioni del titolo terzo della L. n. 300 del 1970, tra le quali è prevista la speciale tutela apprestata dall’art. 28, si applicano limitatamente alle unità produttive con più di quindici dipendenti, ipotesi, questa non ricorrente nel caso di specie, e di aver erroneamente giudicato come antisindacale la condotta oggetto della violazione contrattuale di cui trattasi. A quest’ultimo riguardo sostiene, infatti, la ricorrente che la mancanza di una preventiva richiesta di nulla osta all’Associazione della Stampa Romana in ordine al licenziamento del Fiduciario di redazione costituiva solo una violazione di diritti di origine contrattuale comportante conseguenze di carattere risarcitorio, posto che il fondamento della tutela legale di cui trattasi troverebbe la propria giustificazione nella violazione di norme costituzionali o generali dell’ordinamento volte a preservare l’esercizio della libertà e dell’attività sindacale. Il motivo è infondato.

Invero, si è già avuto modo di affermare (Cass. Sez. lav. n. 9950 del 12/5/2005) che “il licenziamento determinato da motivi sindacali è viziato da nullità ai sensi della L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 4 – la cui previsione è applicabile, a norma dell’art. 11 della stessa legge nel testo risultante dalla sentenza della Corte costituzionale n. 174 del 1971, a tutti i rapporti di lavoro, indipendentemente dalle dimensioni dell’azienda e, quindi, anche in mancanza di garanzia di stabilità reale – ed è idoneo a ledere l’interesse collettivo alla libertà ed all’attività sindacale, risultando perciò perseguibile dal sindacato con il procedimento previsto dalla L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 28; al cui esperimento non osta l’inapplicabilità dell’art. 18 di tale legge, atteso che a determinare la rimozione (e la cessazione degli effetti) della condotta antisindacale integrata dal detto licenziamento è idoneo, pur nell’inerzia del lavoratore interessato (la cui eventuale azione, ancorchè coincidente nell’oggetto materiale, è ontologicamente distinta da quella del sindacato), l’accertamento della nullità del recesso del datore di lavoro e quindi della persistente validità ed efficacia del rapporto di lavoro, con applicabilità (in danno del detto datore) dei principi della “mora credendi”.

Orbene, la Corte d’appello, con adeguata motivazione immune da vizi di tipo logico-giuridico, ha evidenziato l’obiettiva antisindacalità della condotta datoriale dovuta alla mancata richiesta del nulla osta per il licenziamento del giornalista fiduciario A.S. ai sensi dell’art. 34 c.n.l.g, norma, questa, contenente la previsione di una procedura a garanzia dei lavoratori per i casi di licenziamento, la cui elusione non può non rappresentare una evidente violazione delle prerogative del sindacato, che finirebbe in tal modo per essere esautorato dal compito istituzionale di esprimere pareri e di fare proposte in ordine ai licenziamenti. Come hanno, infatti, statuito le Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 5295 del 12/6/1997, “per integrare gli estremi della condotta antisindacale di cui all’art. 28 dello Statuto dei lavoratori (legge n. 300 del 1970) è sufficiente che tale comportamento leda oggettivamente gli interessi collettivi di cui sono portatrici le organizzazioni sindacali, non essendo necessario (ma neppure sufficiente) uno specifico intento lesivo da parte del datore di lavoro ne1 nel caso di condotte tipizzate perchè consistenti nell’illegittimo diniego di prerogative sindacali (quali il diritto di assemblea, il diritto delle rappresentanze sindacali aziendali a locali idonei allo svolgimento delle loro funzioni, il diritto ai permessi sindacali), nè nel caso di condotte non tipizzate ed in astratto lecite, ma in concreto oggettivamente idonee, nel risultato, a limitare la libertà sindacale, sicchè ciò che il giudice deve accertare è l’obiettiva idoneità della condotta denunciata a produrre l’effetto che la disposizione citata intende impedire, ossia la lesione della libertà sindacale e del diritto di sciopero”. (in senso conf. v. anche Cass. Sez. lav. n. 9250 del 18/4/2007).

3. Col terzo motivo si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 c.c. e segg. nell’interpretazione dell’art. 34 CNLG nella parte in cui è richiesto il preventivo parere del fiduciario di redazione al fine dei licenziamenti inflitti, nonchè l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia. Sostiene in pratica la ricorrente che la previa informativa sui licenziamenti avrebbe carattere facoltativo in quanto l’obbligo del parere sindacale sarebbe previsto solo per i mutamenti di mansioni. Il motivo è infondato.

Invero, l’interpretazione letterale della norma collettiva di cui all’art. 34 eseguita dalla Corte è corretta ed immune da vizi di natura giuridica allorquando perviene alla conclusione che è irrilevante che il parere del Comitato di Redazione sia nel caso in esame facoltativo, in quanto in caso di licenziamento la mancata o incompleta informativa nei confronti del Fiduciario di Redazione, con la conseguente impossibilità per quest’ultimo di svolgere l’attività sindacale a lui facente capo, integra di per sè una tipica ipotesi di condotta obiettivamente antisindacale, avendo, tra l’altro, diverso rilievo il rispetto di una tale procedura di garanzia rispetto all’ipotesi della formulazione del parere per i casi diversi dal licenziamento.

D’altronde, tale interpretazione è coerente con quanto si è avuto modo di evidenziare nel corso della disamina del secondo motivo allorquando si è posto l’accento sul fatto che la previsione collettiva della procedura di garanzia di cui all’art. 34 del C.N.L.G. per i casi di licenziamento comporta che la sua inosservanza si traduce inevitabilmente in una lesione delle prerogative del sindacato, tra le quali quella di esprimere, per il tramite dei suoi organi, i pareri e le proposte per i licenziamenti.

4. Oggetto del quarto motivo è la denunzia di violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. e della L. n. 300 del 1970, art. 28, nonchè di contraddittorietà e carenza di motivazione su un punto decisivo della controversia.

In tal caso la ricorrente, dopo aver premesso che il giudicante aveva, a suo giudizio, operato una ricostruzione distorta dei fatti in quanto il licenziamento oggetto di causa non era stato determinato, a suo dire, da un intento ritorsivo, sostiene che l’Associazione Stampa Romana avrebbe potuto conseguire solo una pronunzia di antisindacalità dei provvedimenti denunziati, ma non avrebbe potuto pretendere che gli effetti favorevoli della decisione si estendessero alla sfera soggettiva dei singoli lavoratori licenziati, atteso che i provvedimenti espulsivi erano stati legittimamente adottati nei confronti di questi ultimi e la loro efficacia non poteva essere intaccata da irregolarità attinenti all’omessa informativa sindacale. Aggiunge la ricorrente che all’epoca della fase sommaria del giudizio la denunziata azione antisindacale si era totalmente esaurita con la notifica dei provvedimenti di licenziamento e non era reiterabile, sicchè era venuta a mancare l’attualità del comportamento costituente la condizione di procedibilità del ricorso ex art. 28 dello Statuto dei lavoratori. Il motivo è infondato.

Invero, la giurisprudenza di questa Corte è orientata nel senso che, data la plurioffensività della condotta antisindacale e l’autonomia della relativa tutela, la rimozione e la cessazione degli effetti della condotta antisindacale integrata dal licenziamento, pur nell’inerzia del lavoratore interessato, la cui eventuale azione, ancorchè coincidente nell’oggetto materiale, è ontologicamente distinta da quella del sindacato, non può che avvenire tramite l’accertamento della nullità del recesso del datore di lavoro e quindi della persistente validità ed efficacia del rapporto di lavoro, con applicabilità, in danno del detto datore, dei principi della “mora credendi” (v. Cass. Sez. lav. n. 9950 del 12/5/2005).

Attraverso quest’ultima pronunzia si è, infatti, precisato che soltanto il sindacato è legittimato a proporre l’azione L. n. 300 del 1970, ex art. 28 avverso i comportamenti antisindacali del datore di lavoro cosiddetto plurioffensivi, mentre i lavoratori non sono litisconsorzi necessari ma solo legittimati a proporre un intervento “ad adiuvandum”, a sostegno delle ragioni del sindacato, e non già un’azione diretta o un intervento autonomo, e la sentenza che ravvisi l’antisindacalità della condotta datoriale può disporre – per rimuoverne gli effetti – la reintegra dei lavoratori licenziati anche se questi non sono presenti in giudizio”, per cui non colgono nel segno le censure che fanno leva sull’asserito vizio di ultrapetizione. Quanto alla contestata verifica della persistenza degli effetti della condotta antisindacale si è già avuto modo di affermare (Cass. Sez. lav. n. 11741 del 6/6/2005) che “requisito essenziale dell’azione di repressione della condotta antisindacale, di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 28, è l’attualità di tale condotta o il perdurare dei suoi effetti. Tale requisito – sulla base dell’interpretazione letterale e sistematica della suddetta norma, anche alla luce di quanto previsto in ordine alla legittimazione attiva in capo agli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali, riconosciuta nell’interesse al ripristino nell’azienda dei diritti sindacali, nella completa autonomia rispetto alle azioni proponibili dai singoli lavoratori, e restando invece irrilevante la tendenza del procedimento all’emanazione di pronunce costitutive o di mero accertamento – deve intendersi nel senso che, da un lato, il mero ritardo della proposizione del ricorso non ne determina di per sè l’inammissibilità in presenza della permanenza degli effetti lesivi, e, dall’altro, il solo esaurirsi della singola azione lesiva del datore di lavoro non può precludere l’ordine del giudice di cessazione del comportamento illegittimo ove questo, alla stregua di una valutazione globale non limitata ai singoli episodi, risulti tuttora persistente ed idoneo a produrre effetti durevoli nel tempo, sia per la sua portata intimidatoria, sia per la situazione di incertezza che ne consegue, suscettibile di determinare in qualche misura una restrizione o un ostacolo al libero esercizio dell’attività sindacale. L’accertamento in ordine alla attualità della condotta antisindacale e alla permanenza dei suoi effetti costituisce un accertamento di fatto, demandato al giudice di merito ed incensurabile in sede di legittimità, se sorretto da adeguata motivazione, immune da vizi logici o giuridici”.

Nella fattispecie la Corte d’appello ha adeguatamente valutato con motivazione logica la persistenza degli effetti della condotta antisindacale di cui trattasi laddove ha posto in rilievo che l’omissione di informativa che doveva essere resa dalla ******** s.p.a. al Fiduciario della redazione, così come prevista dall’art. 34 del C.N.L.G., aveva concretamente reso impossibile a quest’ultimo di svolgere in qualche modo l’attività sindacale facente a lui capo, per cui si rivela priva di pregio l’osservazione della ricorrente circa il supposto esaurirsi degli effetti della suddetta violazione che non consentì, invece, la possibilità di formulazione di pareri o proposte in merito ai licenziamenti che sfociarono nell’odierna vertenza. Lo stesso è a dirsi per il licenziamento del Fiduciario di redazione A.S. che non fu preceduto dalla richiesta di nulla osta all’Associazione Stampa Romana, licenziamento rispetto al quale la Corte di merito ha messo in risalto la persistenza della relativa condotta antisindacale realizzata attraverso l’elusione della speciale procedura di garanzia di cui al citato art. 34 C.N.L.G.. Pertanto, il ricorso va rigettato.

Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza della ricorrente e vanno liquida come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente alle spese del presente giudizio nella misura di Euro 4000,00 per compensi professionali e di Euro 100,00 per esborsi, oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 18 settembre 2013.

Redazione