Ammissibilità della convalida di un atto nelle more del giudizio (Cons. Stato n. 2278/2013)

Redazione 24/04/13
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FATTO

1. Con la sentenza n. 645 del 19 luglio 1999 il Tribunale amministrativo regionale per l’Umbria, definitivamente pronunciando su due separati ricorsi, entrambi proposti dall’Associazione Proprietà Edilizia di Perugia e dal signor ********************, il primo (NRG. 778/98), integrato da motivi aggiunti, per l’annullamento della delibera della Giunta del Comune di Perugia n. 838 del 24 settembre 1998 (avente ad oggetto “Aliquota I.C.I. 1993 – Sentenze del Consglio di Stato e della Corte di Cassazione – Provvedimenti”) ed il secondo (NRG. 79/99) per l’annullamento della delibera del Consiglio Comunale di Perugia n. 157 del 21 dicembre 1998 (avente ad oggetto: “Convalida delibera G.C, n. 838 del 24/9/1998 “Aliquota I.C.I. 1993 – Sentenze del Consiglio di Stato e della Corte di Cassazione – Provvedimenti””), dopo averli riuniti, li respingeva, ritenendo infondati i motivi di censura sollevati.

Secondo il predetto tribunale, infatti, sussisteva innanzitutto, ai sensi dell’art. 26 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, il potere dell’amministrazione di (ri)determinare, ora per allora, la misura dell’aliquota I.C.I. per l’anno 1993, così rinnovando la delibera precedentemente annullata in sede giurisdizionale; inoltre la nuova delibera di giunta n. 838 del 24 settembre 1998 non costituiva violazione del (precedente) giudicato (di annullamento) della originaria delibera n. 703 del 25 febbraio 1993, atteso che quest’ultima era stata annullata per difetto di istruttoria e di motivazione, meri vizi formali che erano stati correttamente emendati sulla base di documenti preesistenti alla stessa originaria delibera (quali la proposta del Capo Ripartizione competente del 15 febbraio 1993 ed il prospetto in data 20 febbraio 1993 dei responsabili dei settori Finanze e Bilancio delle nuove spese da finanziare per l’anno 1993, che per mero errore non erano stati indicati nella relativa motivazione e allegati alla deliberazione); infine, la delibera consiliare n. 157 del 21 dicembre 1998 (di convalida della citata delibera di giunta n. 838 del 24 settembre 1998) non presentava alcun vizio di motivazione circa le ragioni che ne avevano giustificato l’adozione, tanto più che l’articolo 6 della legge 18 marzo 1968, n. 249 consentiva di procedere alla convalida degli atti viziati da incompetenza (come nel caso di specie), anche in pendenza di gravame.

2. Gli originari ricorrenti con rituale e tempestivo atto di appello chiedevano la riforma di tale sentenza, lamentando l’assoluta erroneità delle motivazioni su cui essa era imperniata (cioè la possibilità di determinare “ora per allora” l’aliquota ICI per l’anno 1993; l’utilizzabilità di atti diversi dal bilancio di previsione e/o dalle sue variazioni per l’individuazione del fabbisogno finanziario del comune; l’idoneità della motivazione della delibera consiliare di convalida di superare ogni questione di (in)competenza) e riproponendo quindi le stesse censure sollevate in primo grado, malamente apprezzate, superficialmente esaminate ed ingiustamente respinte, con motivazione lacunosa, contraddittoria e non condivisibile.

Resisteva al gravame il Comune di Perugia, deducendone l’inammissibilità e l’infondatezza.

Si costituiva in giudizio anche il Ministero delle Finanze.

3. A seguito della dichiarazione di interesse formulata in data 9 maggio 2012, ritualmente notificata alle controparti costituite, dall’Associazione della Proprietà Edilizia di Perugia e dal sig. ********************, è stato revocato il decreto n. 2884 del 22 novembre 2011 di perenzione del ricorso in questione, che è stato pertanto reiscritto sul ruolo del merito.

4. Tutte le parti nell’imminenza dell’udienza di trattazione della causa hanno illustrato con apposite memorie le rispettive tesi difensive, replicando poi a quelle avverse; in particolare l’amministrazione finanziaria ha depositato gli atti e le difese relative al precedente grado di giudizio.

Alla pubblica udienza dell’11 gennaio 2013, dopo la rituale discussione, la causa è stata introitata per la decisione.

DIRITTO

5. L’appello è infondato.

5.1. Con il primo motivo di gravame gli appellanti hanno sostenuto che, essendo stata annullata in sede giurisdizionale la originaria delibera (di giunta municipale n. 703 del 25 febbraio 1993), con cui era stata fissata l’aliquota I.C.I. per l’anno 1993, l’amministrazione comunale di Perugia non avrebbe potuto (ri)determinare, come avvenuto con la delibera n. 838 del 24 settembre 1998, ora per allora, la predetta aliquota I.C.I. per l’anno 1993.

In particolare, pur non potendo negarsi che in astratto l’annullamento di un atto non travolge il potere in forza del quale esso è stato esercitato, secondo gli appellanti in concreto quell’originario potere (impositivo) dell’amministrazione comunale si era consumato, sia che, quanto al suo fondamento, si facesse riferimento all’art. 18 del D. Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504 (che ne limitava l’esercizio al solo anno 1993), sia che si richiamasse la più generale previsione dell’art. 6 del predetto decreto legislativo, atteso che le modifiche introdotte dall’art. 3, comma 53, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, avevano mutato l’originaria natura dell’atto di determinazione dell’aliquota I.C.I. (da atto generale, di semplice determinazione tariffaria, ad atto normativo con possibilità di diversificazione dell’aliquota in funzione della tipologia e della destinazione degli immobili), dando vita ad un nuovo potere (ora in capo al consiglio comunale e non più alla giunta), così che non poteva in alcun modo ammettersi la riedizione, con effetti retroattivi di quel potere.

5.1.1. La Sezione osserva che il decreto legislativo n. 504 del 1992 (“Riordino della finanza degli enti territoriali, a norma dell’art. 4 della legge 23 ottobre 192, n. 421”), istituendo all’art. 1 l’imposta comunale sugli immobili (I.C.I.), dopo averne individuato il presupposto, ha previsto al successivo art. 6 (nel testo originario) che “l’aliquota, in misura unica, è stabilita con deliberazione della giunta comunale adottata entro il 31 ottobre di ogni anno con effetto per l’anno successivo” (comma 1), aggiungendo che “l’aliquota deve essere deliberata in misura non inferiore al 4 per mille né superiore al 6 per mille, ovvero al 7 per mille per straordinarie esigenze di bilancio. Se la delibera non è adottata nel termine di cui al comma 1, si applica l’aliquota del 4 per mille, ferma restando la disposizione di cui all’art. 25, del decreto legge 2 marzo 1989, n. 66, convertito on modificazioni dalla legge 24 aprile 1989, n. 144, e successive modificazioni” (comma 2).

A seguito delle modifiche introdotte dall’art. 3, comma 53, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, modificato dall’art. 10, comma 12 del 23 dicembre 1996, n. 669, il ricordato art. 6 stabilisce che “L’aliquota è stabilita dal comune, con deliberazione da adottare entro il 31 ottobre di ogni anno, con effetto dall’anno successivo, Se la delibera non è adottata entro tale termine, si applica l’aliquota del 4 per mille, ferma restando la disposizione di cui all’art. 84 del decreto legislativo 25 febbraio 1995, n. 77, come modificato dal decreto legislativo 11 giugno 1996, n. 336” (comma 1) e che “l’aliquota deve essere deliberata in misura non inferiore al 4 per mille né superiore al 7 per mille e può essere diversificata entro tale limite, con riferimento agli immobili diversi dalle abitazioni, o posseduti in aggiunta all’abitazione principale o di alloggi non locati; l’aliquota può essere agevolata in rapporto alle diverse tipologie degli enti senza scopo di lucro” (comma 2).

Quanto all’articolo 18 del D. Lgs. n. 504 del 1992, rubricato “Norme transitorie”, esso dispone testualmente (comma 1): “Per l’anno 1993 la delibera della Giunta comunale, con cui viene stabilita l’aliquota dell’imposta comunale sugli immobili ai sensi del comma 1 dell’articolo 6, deve essere adottata entro il 28 febbraio 1993, Il versamento a saldo dell’imposta dovuta per l’anno 1993 deve essere effettuato dal 1° al 15 dicembre di tale anno”.

5.1.2. Da tali disposizioni si evince che il legislatore non ha attribuito un vero e proprio potere impositivo all’ente locale in relazione alla nuova imposta comunale sugli immobili, avendo piuttosto riconosciuto all’ente la più limitata facoltà di determinare l’aliquota del tributo I.C.I. tra un minimo (4 per mille) ed un massimo (6 o 7 per mille): peraltro il mancato esercizio di tale facoltà, lungi dal costituire una atipica modalità di esonero dal tributo in parola per dei cittadini proprietari di immobili in quel determinato comune, assoggetta automaticamente gli stessi all’aliquota minima fissata ex lege, nella misura del 4 per mille.

Proprio tale particolare meccanismo di determinazione dell’imposizione che, per un verso, esclude la natura strictu sensu impositiva della facoltà del comune di fissare le aliquote I.C.I., per altro verso ricollega il tributo alle stringenti ed indilazionabili esigenze della finanza pubblica, in relazione alle quali il legislatore ha ritenuto indispensabile fissare, in linea generale, un prelievo non inferiore nel minimo al 4 per mille, lasciando poi ad ogni singolo comune la scelta discrezionale, in ragione delle proprie singole e peculiari esigenze, di aumentare la misura di tale tributo (tra il 4 ed il 7 per mille), per garantirsi i mezzi finanziari necessari per l’approntamento ed il funzionamento dei propri servizi e comunque per l’effettivo conseguimento degli obiettivi, non solo economico – finanziari, indicati nel bilancio annuale di previsione.

Tale ricostruzione trova conferma, ad avviso della Sezione, conforto, dal punto di vista sistematico, nel fatto che la scelta delle aliquote (tra il 4 ed il 7 per mille) doveva avvenire annualmente ed aveva effetto per l’anno successivo, costituendo una (rilevante) posta delle voci di entrata del bilancio annuale di previsione.

In tale ottica la disposizione contenuta nel ricordato art. 18 del D. Lgs. n. 504 del 1992, piuttosto che individuare un limite temporale all’esercizio della facoltà in questione per l’anno 1993, rappresenta una misura di coordinamento per rendere applicabile il tributo anche per l’anno 1993, in tal modo derogando, solo per quell’anno, alla previsione generale secondo cui le deliberazioni concernenti la fissazione delle aliquote hanno effetto per l’anno successivo (in ciò consistendo la predicata natura transitoria della disposizione).

5.1.3. Così sommariamente ricostruite la natura della potestà di individuazione dell’aliquota del tributo e le sue peculiari finalità di carattere finanziarie, deve escludersi che l’annullamento giurisdizionale della originaria delibera di fissazione dell’aliquota stessa potesse impedirne la riadozione in mancanza di un espresso divieto, tanto più che nel caso di specie l’annullamento era stato determinato soltanto da meri vizi formali e non dall’avvenuto superamento del termine stabilito dalla legge per l’esercizio di tale facoltà.

Infatti proprio le particolari finalità del tributo e la necessità di salvaguardare l’equilibrio finanziario dell’ente (che sulla relativa entrata aveva fatto affidamento) sono elementi del tutto sufficienti ad ammettere il riesercizio del potere, essendo pacifico che esso era stato originariamente tempestivamente esercitato, secondo la previsione della disposizione transitoria di cui al ricordato art. 18.

Tali conclusioni trovano conforto nello specifico precedente di questa stessa Sezione (16 ottobre 1997, n. 1145, relativo alla legittimità del provvedimento comunale di riadozione, ora per allora, della misura dell’ICIAP per l’anno 1989, a seguito dell’annullamento giurisdizionale della originaria deliberazione), nel quale è stato affermato che “…il potere del Comune di riadattare l’atto determinativo della misura dell’Iciap per l’anno 1989, pur nel caso di annullamento della sua delibera n. 1255 del 1989, discende dai principi generali che riguardano gli effetti (retroattivi) dell’annullamento in sede giurisdizionale di un atto amministrativo…) ed in particolare dalla “…portata generale dell’art. 26 della L. 6 dicembre 1971, n. 1034 (riproduttivo dell’art. 45 del T.U. 26 giugno 1924 n. 1054, a sua volta formulato sulla base dell’art. 38 del T.U. 2 giugno 1889, n. 6166..”, con la conseguenza che “salvo che la legge disponga altrimenti, l’Amministrazione può pertanto sempre riesercitare i propri poteri istituzionali, anche quando l’emanazione del provvedimento, poi annullato in sede giurisdizionale, poteva aver luogo entro un termine perentorio fissato dalla legge (salvo il caso in cui il giudice amministrativo abbia annullato il provvedimento proprio a causa del suo superamento)”, così che “Se è adottato il tempestivo provvedimento, determinativo dell’imposta nella misura superiore a quella prevista in via sussidiaria dalla legge, i rapporti tributari vanno determinati sulla sola base dell’atto nonché delle vicende che lo riguardano in sede giurisdizionale: nel caso di annullamento da parte del giudice amministrativo dell’atto impositivo l’Ente locale (che aveva adeguato i propri bilanci e la propria attività alle somme di cui prevedeva la riscossione) può motivatamente rimuovere il vizio riscontrato in sede giurisdizionale e può riemanare, ora per allora, un ulteriore provvedimento, i cui destinatari sono i medesimi soggetti destinatari dell’atto già emanato”.

Non può peraltro sottacersi che la questione dell’ammissibilità della rinnovazione della determinazione dell’aliquota I.C.I. per l’anno 1993, proprio relativamente alla stessa deliberazione oggetto del presente gravame, è stata già affrontata anche dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 22569 del 1° dicembre 2004, ad avviso della quale “…l’Amministrazione ha sempre il potere di emanare, ora per allora, un nuovo atto in sostituzione di un altro annullato in sede giurisdizionale (Cons. Stato 27/3/2001, n. 1801, 30/3/1998, n. 502, 16/11/1997, n. 1145, in tema di aliquote ICIAP…)” e che “non sussistendo alcun valido motivo per dubitare dell’esattezza di tale interpretazione, deve ritenersi che una volta annullata la precedente delibera per difetto di motivazione e d’istruttoria, il ricorrente [id est, il Comune di Perugia] aveva la possibilità di rinnovare l’atto con effetto retroattivo, ribadendo l’applicabilità dell’aliquota del 6 per mille per l’anno 1993”.

5.1.4. In definitiva il primo motivo di gravame deve essere respinto.

5.2. Con il secondo motivo di gravame gli appellanti hanno sostenuto che l’amministrazione con la nuova delibera di (ri)determinazione dell’aliquota I.C.I. per l’anno 1993 non avrebbe eliminato i vizi che avevano inficiato la originaria delibera n. 70 del 25 febbraio 1993, giacché ancora una volta non era stata fornita alcuna indicazione, certa ed inequivocabile, delle nuove e maggiori spese che avrebbero dovuto giustificare la fissazione dell’aliquota I.C.I. al 6 per mille per l’anno 1993, dovendosi considerarsi del tutto irrilevanti a tal fine i documenti allegati alla nuova deliberazione, tanto più che essi erano privi di qualsiasi valore provvedimentale.

Sussisteva pertanto, ad avviso degli appellanti, il dedotto vizio di elusione e/o violazione del giudicato, inopinatamente disatteso dai primi giudici con motivazione approssimativa e superficiale.

Al riguardo la Sezione osserva quanto segue.

5.2.1. Secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, si ha violazione di giudicato quando il nuovo atto emanato dall’amministrazione riproduce i medesimi vizi già censurati ovvero si pone in contrasto con precise e puntuali prescrizioni provenienti dalla precedente statuizione del giudice, mentre si configura la fattispecie dell’elusione del giudicato laddove l’amministrazione, pur formalmente provvedendo a dare esecuzione al giudicato, tende sostanzialmente a raggirarlo in modo da pervenire surrettiziamente allo stesso esito, oggetto del recedente annullamento (C.d.S., sez. IV, 4 marzo 2011, n. 1415; 1° aprile 2011, n. 2070; sez. V, 20 aprile 2012, n. 2348; sez. VI, 5 luglio 2011, n. 4037).

E’ stato anche precisato che l’atto emanato dall’amministrazione dopo l’annullamento in sede giurisdizionale di un provvedimento illegittimo può considerarsi adottato in violazione o elusione del giudicato solo quanto da esso derivava un obbligo talmente puntuale che il suo contenuto era desumibile nei suoi tratti essenziali direttamente dalla sentenza (ex multis, C.d.S., sez. IV, 21 maggio 2010, n. 3223; sez. VI, 3 maggio 2011, n. 2601; 7 giugno 2011, n. 3415).

5.2.2. Nel caso in esame, come emerge dalla lettura degli atti difensivi delle parti, la deliberazione della Giunta municipale del Comune di Perugia n. 703 del 25 febbraio 1991, con cui era stata originariamente fissata l’aliquota I.C.I. per l’anno 1993 nella misura del 6 per mille, è stata annullata dal Tribunale amministrativo regionale per l’Umbria con la sentenza n. 163 dell’11 maggio 1995 per carenza di istruttoria e di motivazione in relazione al presupposto giustificativo della maggiore aliquota, in quanto in particolare quest’ultima era stata deliberata “…a fronte di impegni di spesa ancora in fase di studio (come provvedimento di variazione del bilancio per l’anno 1993) e quindi in presenza di eventi futuri ed incerti”.

Detto annullamento è stato confermato dalla Quinta Sezione del Consiglio di Stato con la decisione n. 135 del 2 febbraio 1996, in quanto l’aliquota era stata determinata “…non già in presenza di un fabbisogno economico – finanziario predeterminato ed emergente alla data di approvazione del bilancio di previsione, bensì con riguardo ad un fabbisogno futuro, ancora in fase di studio e possibile oggetto di deliberazione in sede di variazione al bilancio 1993”.

5.2.3. Ciò posto, come correttamente rilevato dai primi giudici, per un verso deve escludersi che la deliberazione di giunta municipale n. 838 del 24 settembre 1998, oggetto di convalida da parte della delibera consiliare n. 187 del 21 dicembre 1998, con cui il Comune di Perugia ha rideterminato, ora per allora, l’aliquota I.C.I. per l’anno 1993 nella misura del 6 per mille, sia affetta dal dedotto vizio di elusione e/o violazione del giudicato e, d’altra parte, deve anche effettivamente convenirsi sul fatto che la nuova (ri)determinazione dell’aliquota I.C.I. per l’anno 1993 sia esente dai vizi che avevano inficiato l’originaria delibera della giunta municipale n. 703 del 25 febbraio 1993.

5.2.3.1.Quanto al primo profilo, è sufficiente rilevare che il giudicato formatosi sull’illegittimità della delibera n. 703 del 25 febbraio 1993, per effetto della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per l’Umbria n. 163 dell’11 maggio 1995 e della decisione di questa stessa sezione del Consiglio di Stato n. 135 del 2 febbraio 1996, non conteneva prescrizioni così puntuali e precise da rendere meramente attuativa delle stesse la successiva determinazione dell’amministrazione.

L’effetto conformativo discendente dal predetto giudicato imponeva in realtà all’amministrazione soltanto di giustificare la scelta di fissare l’aliquota I.C.I. per l’anno 1993 nella misura del 6 per mille, dando ragionevolmente conto dell’attualità e dell’effettività (oltre che della certezza) delle maggiori spese cui si intendeva far fronte con il tributo: a tanto l’amministrazione ha correttamente provveduto, basando peraltro la nuova determinazione non già su atti e documenti nuovi, bensì sulla relazione in data 15 febbraio 1993 del Capo della Ripartizione del Comune, illustrativa del maggior fabbisogno dell’ente rispetto a quello indicato nel bilancio di previsione dell’anno 1993, e dal prospetto analitico in data 21 febbraio 1993, già esistenti al momento dell’adozione della originaria deliberazione n. 703 del 25 febbraio 1993, ma ad essa non allegati (circostanza questa che, ad avviso della Sezione, esclude in radice un intento elusivo del giudicato).

5.2.3.2. Quanto al secondo profilo, concernente la rilevanza dei ricordati atti e la loro idoneità a giustificare la determinazione dell’aliquota I.C.I. per l’anno 1993 nella misura del 6 per mille, deve innanzitutto osservarsi che la circostanza che gli stessi non abbiano natura provvedimentale, bensì soltanto istruttoria – preparatoria, diversamente da quanto sostenuto dagli appellanti, è priva di qualsiasi effetto per quanto qui interessa: ciò che conta infatti è stabilire se gli stessi contenevano l’indicazione certa, attuale ed effettiva delle spese che giustificavano il tributo, non potendo negarsi che la funzione di tali documenti era propria quella di illustrare la situazione economico – finanziaria, ed in particolare le maggiori spese che l’amministrazione avrebbe dovuto sostenere nell’anno 1993, onde consentire all’organo competente di esercitare consapevolmente e correttamente la facoltà prevista dall’art. 18 del D. Lgs. n. 504 del 1992.

Dall’esame della predetta relazione in data 15 febbraio 1993 si evince che le maggiori spese ivi indicate, lungi dall’essere future ed incerte, come in realtà sostenuto dagli appellanti, erano assolutamente certe, effettive e concrete e che le stesse non erano state inserite nel bilancio di previsione per l’anno 1993, approvato con delibera consiliare n. 270 del 14 dicembre 1992, soltanto per mancanza della necessaria copertura finanziaria; l’approvazione di tali maggiori spese era quindi condizionata all’applicazione del nuovo tributo I.C.I. e alla determinazione della relativa aliquota nella misura del 6 per mille per la necessità, di natura giuridica e tecnico – contabile, di attendere l’emanazione della normativa disciplinante il nuovo tributo per la relativa copertura finanziaria.

Peraltro nella relazione del 22 settembre 1998 del Settore Bilancio (Servizi finanziari) del Comune di Perugia, allegata alla nuova (impugnata) delibera di giunta municipale n. 838 del 24 settembre 1998, risultano anche fornite puntuali e convincenti giustificazioni dell’operato dell’amministrazione anche dal punto di vista tecnico contabile, laddove si legge che “…avendo il legislatore delegato attribuito alla Giunta comunale il potere di determinazione dell’aliquota del tributo, lo sfasamento temporale tra la determinazione dell’aliquota ICI (da parte della Giunta) e l’approvazione di eventuali variazioni al bilancio di previsione (da parte del Consiglio) risultava insito nella stessa norma di legge; infatti, il Consiglio Comunale non avrebbe mai potuto legittimamente deliberare una variazione al bilancio già deliberato, utilizzando tutte le risorse potenzialmente acquisibili nell’esercizio di riferimento, e quindi anche quelle derivanti dall’applicazione dell’ICI in misura superiore al minimo di legge, se la Giunta non avesse determinato in precedenza la relativa aliquota superiore al minimo”.

Ciò esclude la fondatezza della tesi propugnata dagli appellanti, secondo cui la deliberazione di determinazione dell’aliquota I.C.I. avrebbe dovuto essere successiva all’approvazione di una delibera di variazione al bilancio che approvasse le maggiori spese necessarie; così come, per altro verso, è priva di qualsiasi fondamento giuridico l’altra suggestiva prospettazione degli appellanti ad avviso dei quali, almeno per l’anno 1993, i comuni avrebbero dovuto limitarsi a sostituire una fonte di entrata (l’INVIM, abrogata) con un’altra (l’I.C.I.), lasciando invariato l’entità del gettito, tanto più che una simile ricostruzione non tiene conto che la misura minima dell’I.C.I. del 4 per mille prescinde evidentemente dall’entità del gettito del tributo abrogato (INVIM).

5.2.4. Anche il secondo motivo di gravame deve essere pertanto respinto.

5.3. Non è meritevole di favorevole considerazione neppure il terzo mezzo di gravame, con cui è stata lamentata l’erroneità della sentenza impugnata per aver respinto il motivo di censura concernente la dedotta violazione dell’art. 6 della legge 18 marzo 1968, n. 249, in relazione alla delibera consiliare n. 187 del 21 dicembre 1998 (che aveva convalidato la delibera di giunta n. 838 del 24 settembre 1998): secondo gli appellanti, invero, non solo la predetta legge 18 marzo 1968, n. 249, sarebbe stata tacitamente abrogata dalla legge 7 agosto 1990, n. 241, per quanto la convalida ivi prevista non sarebbe ammissibile per gli atti sottoposti a gravame; ciò senza contare che dalla motivazione dell’atto di convalida non emergeva alcun accurato riferimento all’esistenza e all’attualità dell’interesse pubblico che lo giustificava.

Al riguardo la Sezione osserva che, come emerge dalla sua lettura, con la delibera consiliare n. 187 del 21 dicembre 1998 è stata convalidata (rectius, ratificata) la delibera di giunta municipale n. 838 del 24 settembre 1998, con cui era stata (ri)determinata, ora per allora, l’aliquota I.C.I. per l’anno 1993, nella misura del 6 per mille, giacché per effetto delle sopravvenute modifiche al testo dell’articolo 6 del D. Lgs. n. 504 del 1992 competente ad adottare la delibera di fissazione dell’aliquota era l’organo consiliare.

Orbene, se non può minimamente dubitarsi dell’esistenza dell’interesse pubblico, concreto ed attuale, all’eliminazione del vizio formale di incompetenza, interesse insito nella natura pacificamente tributaria dell’I.C.I. e delle sue peculiari finalità, sopra accennate, d’altra parte deve ricordarsi che non solo, in via generale, l’ammissibilità della convalida di un atto nelle more del giudizio è da ritenersi ormai fuor di dubbio in virtù delle disposizioni contenute nell’art. 21 nonies della legge 7 agosto 1990, n. 241 (C.d.S., sez. IV, 14 ottobre 2011, n. 5538), per quanto, proprio con riferimento alla disposizione contenuta nell’art. 6 della legge 18 marzo 1968, n. 249, è stato affermato che essa consente la convalida o la ratifica degli atti viziati da incompetenza anche in pendenza di gravame, in sede amministrativa o giurisdizionale, anche di appello, con la sola esclusione dell’ipotesi che sia intervenuta una sentenza passata in giudicato (C.d.S., sez. IV 29 maggio 2009, n. 3371; 31 maggio 2007, n. 2894; 28 febbraio 2005, n. 739), fermo restando che essa è tuttora vigente e compatibile con le disposizioni contenute nella legge 7 agosto 1990, n. 241 (C.d.S., sez. VI, 7 maggio 2009, n. 2840).

Nessun vulnus ai principi costituzionali di cui agli articoli 24 e 113 della Costituzione è dato rinvenire per effetto della convalida o della ratifica di un atto amministrativo, atteso che l’esercizio del potere di convalida (ratifica) comporta, com’è avvenuto nel caso di specie, di un provvedimento, nuovo ed autonomo rispetto a quella da convalidare, di carattere costitutivo, che si ricollega all’atto convalidato al fine di mantenerne gli effetti fin dal momento in cui esso è stato emanato, nuovo atto che non è affatto sottratto al sindacato giurisdizionale.

5.4. Infine è da considerarsi inammissibile l’ulteriore motivo di censura con il quale gli appellanti (pag. 22 dell’atto di appello) hanno in modo assolutamente generico ed indeterminato richiamato “tutti gli altri motivi di impugnazione formulati in primo grado”, senza fornire alcuna specificazione degli stessi e senza indicare gli eventuali vizi da cui, in relazione ad essi, sarebbe affetta la sentenza impugnata, tanto più che è priva di qualsiasi fondamento la pretesa ineseguibilità dei provvedimenti impugnati in primo grado che, per un verso, si fonda su una presunta consumazione del potere impositivo del comune (sul punto si rinvia alle osservazione già svolte in precedenza) e, per altro verso, fa riferimento all’eventuale applicazione sanzioni per l’ipotizzato ritardato pagamento dell’I.C.I. per l’anno 1993, che è questione assolutamente estranea al thema decidendum della presente controversia.

6. In conclusione alla stregua delle osservazioni svolte l’appello deve essere respinto.

La peculiarità delle questioni trattate giustifica, ad avviso della Sezione, la compensazione tra le parti delle spese del presente grado di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sul ricorso in appello proposto dall’Associazione Proprietà Edilizia di Perugia e dal signor ******************** avverso la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per l’Umbria sentenza n. 645 del 19 luglio 1999, lo respinge.

Dichiara interamente compensate tra le parti le spese del presente grado di giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 11 gennaio 2013

Redazione