Accertamento delle soglie di punibilità per il reato di bancarotta fraudolenta impropria (Cass. pen. n. 35244/2012)

Redazione 13/09/12
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Fatto e diritto

Propongono ricorso per cassazione D.C.M. e M.M. avverso la sentenza della Corte di appello di Milano in data 13 aprile 2010 (atti pervenuti a questa Corte nel marzo 2011) con la quale – a parte la modifica del trattamento sanzionatorio per il secondo – è stata confermata la condanna del primo giudice, emessa all’esito di giudizio abbreviato, in ordine al reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale, la prima nella forma della causazione dolosa del fallimento ai sensi dell’articolo 223 comma 2 legge fallimentare.
M. è stato chiamato a rispondere nella qualità di consigliere di amministrazione dal novembre 2000 sino alla data del fallimento, con una interruzione di quattro mesi nel 2001 mentre D.C. nella medesima qualità rivestita nel 2001 e 2002, essendo entrambi titolari di delega di amministrazione ordinaria e straordinaria ed avendo agito in concorso con i consiglieri B.E.B. e B.F.L., il primo dei quali – a quanto risulta – già condannato con sentenza del giugno 2009.
Le condotte addebitate erano relative alla gestione della società ******, dichiarata fallita il 24 luglio 2003.
Tra le operazioni contestate dalla accusa, sulla base della relazione del curatore e della consulenza tecnica, la Corte d’appello ricordava quella rappresentata dall’aumento fittizio di capitale portato, nel gennaio 2001, fino a 60 miliardi di lire con contestuate indicazione, in contabilità, di un presunto conferimento da parte dei soci, di obbligazioni emesse da una società americana: tali obbligazioni sarebbero risultate inesistenti come pure la fideiussione che le garantiva. Inoltre erano state contestate e ritenute dai giudici altre fasulle appostazioni nei bilanci 2000, 2001 e 2002, concernenti la emissione di obbligazioni da parte dell’E., false perché conseguenti al fittizio aumento di capitale sociale.
Falsa era la appostazione, nel bilancio del 2001, di un versamento di Euro bond per oltre 397 miliardi di lire; falsa era la apparente cessione, ancora nel 2001, di azioni proprie dell’E., essendo tali azioni corrispondenti a capitale sociale inesistente; falsa era la acquisizione, annotata nel 2003, di promessory notes della società F. m. 2001, una scatola vuota; dolosa era la mancata contabilizzazione nel bilancio del 2001 di una serie di debiti con altre società; dolosa, altresì, era la operazione di dissipazione del capitale della fallenda, realizzata attraverso l’acquisto di azioni della S. spa – una società in gravissime condizioni finanziarie – ad un valore superiore a quello effettivo.
Deduce M.
1) la nullità della richiesta di rinvio a giudizio che conteneva la enunciazione delle imputazioni in forma non chiara e quindi in violazione dell’articolo 417 lett. b) c.p.p., con particolare riferimento alla duplicazione della contestazione relativa al fittizio aumento del capitale sociale – contenuta nei capi 2 e 5 della rubrica -, alla mancata specificazione dei titoli che avrebbero dato luogo al fittizio finanziamento di cui al capo 3 e, infine, alla incerta strutturazione del capo 4;
Il motivo è infondato. Esso si sostanzia nella mera riproposizione del motivo di appello al quale la Corte territoriale aveva già dato completa risposta. Questa aveva posto infatti in evidenza che le condotte erano state specificamente descritte e catalogate nelle forme, ora della dissipazione, ora delle operazioni dolorose ed ora, infine, delle false comunicazioni sociali ai sensi dell’articolo 2621 c.c.
Deve anche considerarsi che una rilevante parte della giurisprudenza di questa Corte ha evidenziato che per la mancanza o incompletezza dell’enunciazione del fatto, che pure costituisce uno dei requisiti formali della richiesta di rinvio a giudizio ai sensi dell’art. 417, lett. b), cod. proc. pen., non è neppure prevista una corrispondente nullità (a differenza di quanto previsto dall’art. 429 comma 2 cpp per il decreto che dispone il giudizio), mentre è consentito al pubblico ministero, nel corso dell’udienza preliminare, a ciò, se del caso, sollecitato dal Gup, procedere a norma dell’art. 423 cod. proc. pen., anche oralmente, alle necessarie modifiche ed integrazioni dell’imputazione (Rv. 204029; Rv. 230842; Rv. 231185; sulla stessa linea SSUU Rv. 238239).
2) Deduce ancora il ricorrente M. il vizio della motivazione in ordine all’elemento psicologico del reato.
Mancherebbe la motivazione relativa alla consapevolezza, da parte del ricorrente, dei singoli episodi contestati nell’imputazione, essendosi al contrario confezionata una argomentazione capace di delineare un comportamento colpevolmente negligente rispetto all’attività di bancarotta materialmente posta in essere dall’amministratore di fatto.
La giurisprudenza, invero, non ritiene di prescindere dalla prova che l’amministratore di diritto si sia rappresentato l’obbligo di attivarsi a fronte dell’evento lesivo posto in essere da altri, così come dalla prova, per ogni singola operazione, dell’evento illecito e del rischio del suo verificarsi.
In particolare la motivazione risulterebbe del tutto carente con riferimento alla consapevolezza del carattere fittizio dell’aumento di capitale di cui al capo 2 e del carattere ugualmente fittizio del conseguente finanziamento dei soci, di cui al capo 3.1.
Il motivo è infondato. Proprio la giurisprudenza elaborata in tema di rapporto tra l’amministratore formale e l’amministratore di fatto nella prospettiva della bancarotta fraudolenta patrimoniale materialmente posta in essere da quest’ultimo, evidenzia che il concorso del primo è sufficiente sia assistito dalla generica sua consapevolezza in ordine agli eventi lesivi del correo, e non anche dalla consapevolezza dei singoli episodi (Rv. 209949).
Si è aggiunto, da parte della stessa giurisprudenza, che in tema di bancarotta fraudolenta patrimoniale, poiché non impedire l’evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo, risponde di concorso nel reato l’amministratore di diritto, anche se sia stato una mera “testa di legno”. Invero l’art. 2392 cod. civ. impone all’amministratore precisi obblighi di vigilanza; a ciò consegue che, per integrare il dolo dell’amministratore di diritto, è sufficiente la generica consapevolezza che l’amministratore di fatto ponga in essere condotte integranti il reato di bancarotta (Rv. 214301).
Non coglie dunque, nel segno, la doglianza del ricorrente secondo cui dovrebbe essere dimostrata la consapevolezza, da parte dell’amministratore solo formale, di ogni singolo fatto rilevante nell’ottica della bancarotta, posto in essere dall’amministratore di fatto.
E comunque da escludere che la motivazione resa dei giudici dell’appello abbia accreditato una fattispecie concreta meramente colposa, tenuto conto che i giudici del merito hanno posto in evidenza, a pagina 12 e seguenti, elementi di fatto (tra i quali i compensi corrispondenti al livello manageriale effettivo) capaci di dimostrare, con una ricostruzione plausibile e quindi non ulteriormente sindacabile da questa Corte, che il ricorrente aveva accettato di prestare collaborazione al B. per la ristrutturazione dell’E., pur nella difficoltà della situazione patrimoniale e finanziaria in cui operava il B. stesso, assicurandogli la sua benevola acquiescenza, che lo poneva, dunque, in una posizione del tutto diversa da quella di una semplice “testa di legno”.
3) Deduce poi la difesa di M., il vizio della motivazione relativamente all’addebito, mosso al ricorrente, di operazioni illecite poste in essere nel periodo tra marzo e luglio 2001, durante il quale il ricorrente non rivestiva alcuna carica sociale: con riferimento a tale periodo non avrebbe potuto trovare applicazione l’obbligo di attivazione dell’amministratore ex articolo 2932 c.c. sul quale la Corte territoriale ha costruito la posizione di garanzia dell’imputato, all’origine della sua affermata responsabilità per fatto omissivo.
In tale periodo aveva operato l’amministratore di fatto B.F. ed altri avevano sottoscritto i contratti relativi alle operazioni indicate e capi 3.2 e 3.4 delle imputazioni (un debito contratto e maturato nonché l’acquisto del capitale sociale della S. sa).
Non era stata nemmeno argomentata l’eventuale imputazione della responsabilità in capo al ricorrente quale extraneus concorrente con l’amministratore di fatto.
Il motivo è infondato. L’addebito di responsabilità del quale si discute, nei confronti di M. , è basato sul rilievo del non avere, egli, attivato i poteri di controllo e di impedimento che gli derivavano dalla carica formale di amministratore (v. pagina 13 sent). Fondatamente, dunque, in linea di principio, la difesa lamenta che lo stesso costrutto, basato sulla posizione di garanzia che gli derivava dalla carica, avrebbe dovuto far ritenere incompatibile l’addebito di eventi lesivi riferibili al periodo nel quale il M. non aveva rivestito la carica.
Senonchè, con riferimento ai dati concreti del processo, deve notarsi che il reato contestato nei capi espressamente citati è dato dalla fattispecie della omessa contabilizzazione, nel bilancio del 2001 e in quello del 2002, delle operazioni evocate dalla difesa: una condotta destinata a consumarsi, cioè, in epoca successiva a quella delle operazioni stesse o della maturazione del debito non contabilizzato, sicché è quantomeno impropria e generica la censura basata sulla data dei fatti da annotare.
4 – 5) La violazione di legge, per avere, i giudici dell’appello, omesso di valutare in maniera corretta il dato di fatto, desumibile dai verbali del consiglio di amministrazione, che l’imputato cessò di partecipare a questi a partire dal gennaio 2003, venendo sostituito da altro consigliere che, per tale ragione, era stato imputato e condannato.
La Corte, in particolare, non aveva valorizzato la circostanza che l’imputato si fosse recato a svolgere altra attività lontano dalla sede della società dove si effettuavano i consigli di amministrazione ed aveva, al contrario, sospettato della effettività delle dimissioni mediante il ricorso ad un canone interpretativo contrario a quello dell’”oltre ogni ragionevole dubbio”.
Sulla base di tali rilievi si sarebbe dovuta quantomeno escludere la responsabilità in ordine al reato di bancarotta documentale mediante sottrazione della documentazione che, al contrario, risultava per tabulas essere stata consegnata al nuovo consigliere P.
Il motivo è inammissibile. I giudici dell’appello hanno fornito una motivazione completa e plausibile a proposito della non effettività delle dimissioni che l’imputato avrebbe dato alla fine del 2002 e il controllo della Cassazione deve arrestarsi a fronte di siffatta ricostruzione, non potendo valutare essa, direttamente, le emergenze di fatto sulla base delle quali la difesa sollecita una alternativa ricostruzione della vicenda.
In particolare la Corte d’appello ha posto in evidenza che le lettere di dimissioni sono state scambiate con gli stessi soggetti implicati nella presente vicenda e non sono mai state formalizzate, circostanza ritenuta in contraddizione logica insanabile con la presa di distanza che il ricorrente intendeva realizzare rispetto ad attività, a suo dire, non controllabili.
Inoltre i giudici hanno posto in evidenza che dopo le predette dimissioni il ricorrente era andato a gestire una società del gruppo (la S.) utilizzata per l’operazione dolosa di cui al capo 1 dell’imputazione e quindi nell’ottica di proseguire, con scambio di ruoli, nella medesima attività culminata col fallimento della E.
I giudici hanno anche argomentato in maniera razionale e non ulteriormente censurabile, in ordine alla figura del ” concorso di persone” che comunque avrebbe visto M. – anche a prescindere dalla cessazione formale dalla carica – quale complice di terzi qualificati, nella operazione della sottrazione delle scritture contabili resasi indispensabile per impedire la ricostruzione delle operazioni di cui alle imputazioni, in danno ai creditori della società.
6) la violazione di legge con riferimento al diniego delle circostanze attenuanti generiche che avrebbero dovuto essere concesse stante il riconoscimento dell’elemento psicologico nella forma del dolo eventuale e della posizione acclarata di mero strumento utilizzato dal vero dominus della società;
7) il vizio della motivazione sull’aumento di pena irrogato con riferimento alla pluralità dei fatti di bancarotta.
I motivi sono infondati. Posto che la valutazione del reato nella sua dimensione soggettiva, nell’ottica del trattamento sanzionatorio, trova di regola espressione nella individuazione della pena per lo stesso, vi è da rilevare che il diniego delle circostanze attenuanti generiche è stato compiutamente motivato dal giudice a quo in ragione della non apprezzata esistenza di elementi favorevoli, tali da giustificare la ulteriore mitigazione della pena; del pari deve ritenersi effettuata la ponderazione degli aumenti di pena per i reati satelliti, peraltro contestata dalla difesa con osservazioni del tutto generiche sulla opportunità in relazione al rito prescelto, ed al limite della inammissibilità.
Deduce D.C.
1) la violazione dell’articolo 223 comma 2 numero 1 e 2 legge fallimentare, essendo insussistente il reato contestato.
Il giudice dell’appello, che pure non aveva condiviso l’inquadramento giuridico accreditato dal primo giudice ai sensi del secondo comma n.2 dell’articolo 223 legge fallimentare, aveva tuttavia errato nell’addebitare il reato di bancarotta fraudolenta impropria basata sui falsi in bilancio.
La Corte territoriale aveva cioè ritenuto che il reato in questione fosse sussistente anche se il fatto del falso in bilancio non presentava tutti i connotati (condizione di procedibilità e superamento delle soglie di punibilità) capaci di renderlo, in sé, penalmente rilevante: ed aveva basato tale affermazione sul rilievo che il reato di bancarotta è autonomo e che i falsi in bilancio sono richiamati dall’articolo 223 come “fatti” e non come “reati”.
Una simile impostazione non è condivisa dalla difesa che cita numerose sentenze della cassazione nelle quali vi sarebbe la affermazione che il richiamo contenuto nell’articolo 223 comma 2 è all’intera fattispecie incriminatrice del falso in bilancio.
L’effetto del ragionamento è che se non si raggiunge la prova della commissione di un fatto penalmente rilevante come falso in bilancio non è neppure configurabile il reato di bancarotta fraudolenta che presuppone il detto falso.
Né all’affermazione della condanna poteva arrivarsi facendo ricorso all’ipotesi delle “operazioni dolose” di cui al numero 2 del secondo comma dell’articolo 223 legge fallimentare.
Il motivo è fondato ed assorbente di tutti quelli ulteriori.
Invero si rinviene nella la giurisprudenza di questa Corte – emessa da una angolazione diversa da quella che qui direttamente interessa ma non per questo meno utile – l’affermazione del principio secondo cui è censurabile che il giudice dell’esecuzione rigetti l’istanza di revoca di una sentenza di condanna per il reato di cui all’art. 223, comma secondo, n. 1, legge fallimentare (bancarotta fraudolenta impropria) in relazione all’art. 2621 cod. civ. (false comunicazioni sociali), riformulati dagli artt. 1 e 4 D.Lgs. n. 61 del 2002, non rilevando che, poiché dalla sentenza del Tribunale emergeva una sopravvalutazione nel bilancio, da parte dell’imputato, della voce rimanenze di magazzino, ma non risultava alcun elemento idoneo a consentire la verifica del superamento delle soglie di punibilità, secondo la nuova disciplina dettata dall’art. 2621 cod. civ., non poteva affermarsi che sussistesse continuità normativa tra vigente e previgente disciplina, non solo con riguardo all’ipotesi della bancarotta fraudolenta impropria ma anche all’ipotesi delle false comunicazioni sociali) (Sez. 5, Sentenza n. 26859 del 05/04/2004 Cc. (dep. 15/06/2004) Rv. 229864).
Si è anche osservato, sulla stessa linea, che in tema di bancarotta c.d. impropria da reato societario (nel caso di specie, false comunicazioni sociali), la configurabilità della particolare fattispecie prevista dall’art. 223, comma secondo, n. 1, del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, in rapporto agli artt. 2621 e 2622 cod. civ., nel testo riformulato dall’art. 4 del D.Lgs. 11 aprile 2002, n. 61, presuppone, oltre all’esistenza del nesso causale tra condotta e dissesto, anche il superamento delle soglie di punibilità previste dal nuovo reato di false comunicazioni sociali, come modificato dall’art. 1 dello stesso D.Lgs. n. 61/2002 (nella fattispecie, in applicazione dei principi di recente affermati dalle Sezioni Unite con sentenza 26 marzo 2003, n. 7, la Suprema Corte ha annullato senza rinvio la sentenza impugnata in quanto dalle decisioni di merito non risultavano accertati, nel rispetto del contraddittorio tra le parti, gli elementi costitutivi della nuovo reato di false comunicazioni sociali, con particolare riferimento alle soglie di punibilità anzidette) (Sez. 5, Sentenza n. 23236 del 23/04/2003 Ud. (dep. 27/05/2003) Rv. 224950; conforme Sez. 5, Sentenza n. 9726 del 03/02/2009 Ud. (dep. 03/03/2009) Rv. 242773).
In mancanza dell’accertamento delle “soglie”, in conclusione, la condotta richiamata nel reato di bancarotta con riferimento alle false comunicazioni sociali sarebbe penalmente indifferente. Né, in senso contrario potrebbe valere la osservazione, formulata da una parte della dottrina, che il richiamo contenuto nell’art. 223 L. fall., ai “fatti” previsti dall’art. 2621 c.c. prescinderebbe dall’accertamento delle soglie quantomeno dopo la riforma intervenuta con L. 28 dicembre 2005 n. 262 che ha previsto, comunque, la sanzione amministrativa per la fattispecie sottratta alla punibilità penale, sottraendola all’area della “indifferenza” dal punto di vista sanzionatorio. Invero, non potrebbe non obiettarsi che trattandosi di una novella capace, in via interpretativa, di fa ritenere integrato il reato fallimentare che, in base al precedente stato normativo, era invece ritenuto, dalla citata giurisprudenza, insussistente, la stessa non potrebbe trovare operatività in relazione ai fatti, quali quello in esame, commesso nel 2003 e quindi antecedentemente.
Ciò posto, va rilevato che il giudice dell’appello non si è uniformato al principio ricordato ed ha anzi affermato che il reato di bancarotta fraudolenta da reato societario (falso in bilancio) resta integrato dalla verifica, assieme agli altri presupposti previsti dall’art. 223, del “fatto” di falso in bilancio, a prescindere dall’accertamento e dalla sussistenza delle cause di non punibilità rappresentate dalle c.d. “soglie”, indispensabili per la integrazione del “reato” societario. Dovrà invece, in sede di rinvio, uniformarsi al principio sopra enunciato e risolvere alla stregua di esso la questione a suo tempo avanzata dalla difesa nei motivi di appello e affrontata, nella sentenza impugnata, soltanto in diritto, procedendo alla conseguente verifica in punto di fatto circa la configurabilità del reato contestato, sul presupposto della necessaria integrazione della norma dell’art. 223 comma 2 n. 1 anche alla luce del requisito sopra richiamato.
Assorbiti, dunque, sono gli ulteriori motivi di ricorso articolati dalla difesa e qui soltanto ricordati:
2) quello concernente il vizio di motivazione sulla responsabilità, affermata sulla base di indizi non rispondenti al criterio posto dall’articolo 192 c.p.p.
Invero ha rilevato la difesa che la Corte territoriale aveva desunto l’elemento psicologico del reato dal fatto, attestato in sentenza, che egli non si sarebbe attivato nonostante la nota integrativa allegata al bilancio approvato immediatamente prima dell’assunzione del ruolo di amministratore, nota nella quale, secondo la difesa, venivano richiesti dai sindaci approfondimenti sulla composizione del capitale societario: ebbene i giudici dell’appello avrebbero travisato la prova, tenuto conto che la nota in questione era stata allegata al bilancio 2001, approvato nel corso dell’assemblea del luglio 2002, la stessa nella quale erano anche state accettate le dimissioni presentate dal ricorrente. Tale dato era stato già segnalato nei motivi d’appello ed è attestato dal consulente del pm pagina 53 della sua relazione.
La difesa ha lamentato anche come i giudici dell’appello abbiano accreditato la responsabilità del ricorrente sulla base dell’articolo 40 c.p., ossia notando il venir meno all’obbligo di vigilanza: un obbligo che, tuttavia, è destinato ad operare sulla base del dimostrata consapevolezza del fatto-reato da impedire.
Inoltre, deve risultare il rapporto di causalità tra l’omissione e la realizzazione del fatto reato.
Il giudice del merito non aveva fornito la prova di tali indispensabili passaggi logici né avrebbe potuto darla se avesse considerato che la principale operazione determinativa del fallimento (fittizio aumento di capitale ) risaliva al novembre 2000 – gennaio 2001, ossia oltre un anno prima che il D.C. assumesse la carica nella società. Neppure poteva dirsi logica la motivazione con la quale i giudici dell’appello avevano ritenuto strumentale e fittizia la presentazione delle dimissioni, da parte del ricorrente nel novembre 2001, essendo, viceversa, numerosi gli elementi di fatto che avrebbero dovuto indurre il giudice a ritenere effettiva la presentazione delle dimissioni, a seguito di un periodo di gestione molto breve, affiancata da quella del M. e comunque all’oscuro di tutto per la mancata consegna della contabilità.
Ma soprattutto la difesa ha sottolineato che se è vero, come evidenziato dal consulente del pm, che il fallimento è stato causato dalla fittizia operazione di aumento del capitale risalente al novembre del 2000, altrettanto vero è che non è stata argomentata la ragione della imputazione dolosa del fallimento anche ad una condotta specifica dell’imputato, divenuto consigliere di amministrazione parecchio tempo dopo.
In terzo luogo si segnala che anche la semplice realizzazione del bilancio falso non esaurisce la motivazione sulla causazione dolosa del fallimento che, invece, deve essere specificamente dimostrata.
Infatti il falso in bilancio di per sé non può causare il fallimento ma solo coprire il dissesto derivante da una errata iniziativa imprenditoriale: può, cioè, solo aggravarlo e l’”aggravamento” del dissesto non è condotta capace di integrare il reato in contestazione.
La difesa segnala, poi, che il reato ritenuto dai giudici dell’appello, ossia quello dell’articolo 223 comma 2 n. 1 legge fallimentare sarebbe connotato dal dolo specifico e che pertanto la motivazione esibita dalla Corte territoriale, attestata sul dolo eventuale, è del tutto non congrua. In ogni caso anche il semplice dolo eventuale avrebbe dovuto essere dimostrato attraverso la prova della consapevolezza, da parte del ricorrente, che fosse in itinere la realizzazione del reato.
Ed invece il ricorrente si era astenuto da qualsiasi atto gestorio, essendo, stato oltretutto tenuto all’oscuro della contabilità del vero dominus della società, ossia da B.F. ed essendo stato, il ricorrente, quasi sempre affiancato da altri amministratori legali.
Egli non l’aveva saputo neppure dei debiti contratti in maturati nel maggio 2001, essendosi limitata esclusivamente ad approvare il bilancio dell’anno 2001, nel luglio 2002;
3) il vizio di motivazione in ordine al diniego delle circostanze attenuanti generiche.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso di M. e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
Annulla con rinvio la sentenza impugnata, quanto alle statuizioni che riguardano D.C. e rimette gli atti ad altra sezione della Corte di appello di Milano per l’ulteriore corso.

Redazione