Abuso di ufficio per l’assessore che minaccia di non votare l’approvazione del bilancio (Cass. pen. n. 20414/2013)

Redazione 13/05/13
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Svolgimento del processo

1. Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Trapani propone ricorso immediato per cassazione, ex art. 569 c.p.p., avverso la sentenza del predetto Tribunale, in data 27-10-11, con la quale P.G. è stato assolto dal reato di cui all’art. 317 c.p., perchè, nella qualità di Assessore alla Presidenza della Provincia Regionale di Trapani nonchè di delegato di tale ente a prendere parte alle assemblee ordinarie della spa “Mega Service “, società di servizi di cui l’indicato ente pubblico è socio ed azionista di maggioranza, costringeva e comunque induceva V.M., Pi.Va. e M.M., rispettivamente Presidente, Amministratore delegato e componente del Consiglio di amministrazione dell’indicata società, a rassegnare indebitamente le dimissioni dall’incarico onde consentire, in loro vece, la nomina di altri soggetti sensibili alla linea della nuova direzione politica dell’ente, a tal fine abusando della sua qualità e dei suoi poteri e, in particolare, ricorrendo alla minaccia che, in caso contrario, e quindi persistendo il mantenimento della carica da parte loro, l’assemblea non avrebbe votato l’approvazione del bilancio per l’anno 2005, con ciò esponendo la società alle conseguenze gravemente pregiudizievoli del caso. In (omissis).

2. Il ricorrente deduce erronea applicazione della legge penale poichè il Tribunale ha escluso la ravvisabilità non solo del reato di cui all’art. 317 c.p., ma anche del delitto di cui all’art. 610 c.p.. Erroneamente, al riguardo, il giudice a quo ha escluso l’idoneità ad integrare gli estremi della minaccia della prospettazione, ventilata dal P., quale rappresentante del socio di maggioranza, agli amministratori in carica della società “Mega Service”, di non approvare il bilancio in caso di mancate dimissioni da parte loro. Essa costituiva infatti un indebito vincolo alla libertà psichica dei destinatali e una forma di costrizione psicologica, esercitata sugli amministratori, a tenere una condotta che altrimenti non avrebbero posto in essere. Quantomeno tale condotta avrebbe dovuto essere valutata nell’ottica del tentativo. Se infatti fosse stato attivato il potere di revoca degli amministratori, da parte dell’assemblea, i componenti del Consiglio di amministrazione sarebbero stati rimossi in modo legittimo ma avrebbero avuto diritto al risarcimento del danno, qualora la revoca fosse avvenuta senza giusta causa: diritto che invece avrebbero perso ove si fossero dimessi di loro iniziativa. D’altronde la minaccia di esercitare il potere di mancata approvazione del bilancio – e quindi di messa in liquidazione della società -, al solo fine di far pressione sugli amministratori affinchè rassegnassero le dimissioni, che si rifiutavano di dare spontaneamente, si è tradotta, di fatto, nella prospettazione di un non corretto esercizio di un potere che è sì riconosciuto ex lege ai soci ma per fronteggiare le situazioni elencate dall’art. 2464 c.c., e quindi per situazioni e finalità diverse rispetto a quelle avute di mira dall’agente e cioè liberarsi di amministratori riottosi ad abbandonare spontaneamente l’incarico.

Nè è possibile ritenere che una prassi invalsa, relativamente alla sostituzione dei componenti del Cda in conseguenza e a causa della elezione di un nuovo Presidente, possa valere a porre nel nulla la chiara normativa codicistica che disciplina i presupposti e le modalità della revoca.

2.1. Con il secondo motivo, il ricorrente assume che erroneamente il Tribunale abbia escluso che il P., in sede di partecipazione alle adunanze assembleali del 12 e del 21 luglio 2006 della spa “Mega Service”, in qualità di delegato del nuovo Presidente della provincia di Trapani, Ente socio di maggioranza assoluta della società, rivestisse qualità di pubblico ufficiale. Infatti il vertice politico dell’Ente rappresenta istituzionalmente la Provincia, anche all’interno dell’assemblea della società.

Quest’ultima, in base all’atto costitutivo e allo statuto, ha quale oggetto sociale una serie di servizi inerenti agli immobili, agli impianti, alle riserve naturali, al patrimonio, agli impianti sportivi e turistici di pertinenza della Provincia, della quale costituisce una longa manus. Ne deriva che, introducendo nel novero degli elementi di valutazione un fattore condizionante, per nulla compreso nel mandato conferitogli e che avrebbe dovuto esercitare una pressione sugli amministratori in carica, l’imputato ha usato in modo distorto della qualità di rappresentante della Provincia e ha assunto un’iniziativa esulante dalla sua competenza funzionale, con ciò integrando l’elemento dell’abuso della qualità. In quest’ottica, anche l’utilità indicata nell’imputazione, consistente nel disporre di amministratori di una società partecipata non resistenti ad assunzioni od operazioni clientelari, non è affatto evanescente, come ritiene il Tribunale.

Di qui il delitto di concussione. Si chiede pertanto annullamento della sentenza impugnata.

Motivi della decisione

Per ragioni di ordine logico, appare più corretto prendere le mosse dalla disamina del secondo motivo di ricorso. Correttamente, al riguardo, il Tribunale ha evidenziato come il ruolo del socio- azionista di una società a totale o parziale partecipazione pubblica sia da collocarsi nell’area del diritto privato e i poteri attribuiti all’Ente pubblico, in quanto socio, abbiano natura privatistica.

Dunque il ruolo rivestito dal P., nell’ambito della società, non si riconnetteva alla sua veste di pubblico ufficiale poichè egli era presente in assemblea in rappresentanza di un socio, ancorchè di maggioranza, di una società per azioni, senza alcun privilegio rispetto agli altri soci. E la minaccia di non approvare il bilancio 2005 riguardava, per l’appunto, l’esercizio dei poteri che il codice civile attribuisce ad ogni socio, in relazione al diritto di voto.

Dunque l’abuso commesso, nella prospettiva accusatoria, si configura come abuso di prerogative di diritto privato e non della qualità o dei poteri spettanti al P. in quanto pubblico ufficiale. La doglianza è quindi infondata.

4. Alle considerazioni appena formulate si riconnette un ulteriore profilo. Lo stesso ricorrente sottolinea correttamente come la minaccia di esercitare il potere di mancata approvazione del bilancio, al solo fine di far pressione sugli amministratori, affinchè rassegnassero le dimissioni, si sia tradotta, in ultima analisi, nella prospettazione di un non corretto esercizio di un potere che è sì riconosciuto ex lege ai soci ma per situazioni e finalità diverse rispetto a quelle avute di mira dall’agente e cioè liberarsi di amministratori riottosi ad abbandonare spontaneamente l’incarico. Orbene, l’esercizio di un potere riconosciuto dall’ordinamento nel contesto di situazioni difformi e per finalità difformi da quelle tipiche integra il vizio di eccesso di potere, che rileva esclusivamente ove vengano esercitate prerogative di diritto pubblico e non di diritto privato, come nel caso in disamina. E infatti, in giurisprudenza, si è affermato, in relazione ad una fattispecie inerente a procedure di identificazione, ispezione e fotosegnalamento espletate da agenti di polizia senza reale necessità e a fini di vessazione, che il reato di abuso di ufficio è configurabile anche in caso di sviamento di potere e cioè allorchè la condotta dell’agente, pur formalmente aderente alla norma che disciplina l’esercizio delle sue attribuzioni, si estrinsechi in assenza delle ragioni legittimanti e produca intenzionalmente un danno al soggetto passivo (Sez 6^, 11-3-2005, n. 12196, rv. n. 231194). E, nella più recente giurisprudenza, si è affermato che il legislatore non ha inteso limitare la portata applicativa dell’art. 323 c.p., ai casi di violazione di legge in senso stretto, avendo voluto includervi anche le altre patologie dell’atto amministrativo, tra le quali l’eccesso di potere, configurabile laddove vi sia stata oggetti va distorsione dell’atto dalla finalità tipica (Sez. 6^, 12-6-12, *****). Ma, come si diceva, il “campo d’esistenza” della figura dell’eccesso di potere è quello del diritto amministrativo ed è quindi correlato all’esercizio di poteri di natura pubblicistica e non di mere facoltà di diritto privato, onde, nell’ambito dei rapporti carattere privatistico, come quelli che sono riscontrabili nel caso sub iudice, l’eccesso di potere è penalmente irrilevante.

5. Infondato è anche il primo motivo di ricorso. Come correttamente osservato dal Tribunale, escluso il ricorrere della qualità di pubblico ufficiale, occorre esaminare la questione inerente alla configurabilità, in via residuale, in capo all’imputato,di una responsabilità ex art. 610 c.p.. Occorre dunque stabilire se la condotta consistente nel prospettare al presidente, all’amministratore delegato e a un componente del consiglio di amministrazione di una società, in caso di mancate dimissioni, la non approvazione del bilancio integri, nell’ottica delineata dall’art. 610 c.p., gli estremi della “minaccia”. Orbene, al riguardo, occorre osservare che la minaccia, in generale, consiste nel prospettare ad una persona un male ingiusto, il cui avverarsi dipende dalla volontà dell’agente. E, in giurisprudenza, si è precisato che, ai fini della ravvisabilità del reato di violenza privata, non è necessaria una minaccia verbale od esplicita, essendo sufficiente un qualsiasi comportamento od atteggiamento, tanto verso il soggetto passivo quanto verso altri, idoneo, avuto riguardo alla situazione complessiva in cui la condotta si inserisce, ad incutere timore ed a suscitare la preoccupazione di subire un danno ingiusto, onde ottenere che il soggetto passivo sia indotto da tale intimidazione a fare, tollerare od omettere qualche cosa (Cass. 6-3- 89, ******, Cass. pen. 1990, 1746; Cass. 28-1-76, Di *****, Cass. pen. 1977, 365). Nel caso di specie, la minaccia è consistita, già nell’ottica dell’imputazione formulata, nel prospettare un male ingiusto per la società. E lo stesso ricorrente precisa che, ove l’assemblea non avesse votato l’approvazione del bilancio per ***** 2005, ne sarebbe derivata l’impossibilità di funzionamento della società e cioè una delle cause prevista dall’art. 2484 c.c., per lo scioglimento della stessa, con le relative conseguenze a livello occupazionale. Dunque, l’agente ha prospettato un male ingiusto per la società e per i lavoratori, non per i soggetti passivi. Nè il ricorrente spiega in qual modo la prospettazione di un danno ingiusto per la società e per i lavoratori – e cioè per soggetti terzi – avrebbe dovuto esplicare, sulla psiche di V., Pi. e M., effetti intimidatori tali da eliminare o quantomeno ridurre sensibilmente la capacità di determinarsi e di agire secondo la propria indipendente volontà (Cass. 12-8-86, n. 8291). E’ infatti ben possibile che la prospettazione di un danno ingiusto a carico di terzi esplichi efficacia in tal senso ma occorre che venga adeguatamente lumeggiato il profilo inerente all’idoneità di una siffatta condotta ad incutere timore nel soggetto passivo. Nel caso di specie, anzi, il Tribunale ha correttamente evidenziato come il danno per la società, prospettato dall’imputato, si risolvesse in un pregiudizio per lo stesso socio di maggioranza, sul quale sarebbero ricadute le conseguenze negative dell’impasse di bilancio e che sarebbe stato obbligato a far fronte alle relative necessità economiche. Non può pertanto considerarsi giuridicamente erroneo l’asserto del Tribunale, che ha, nella specie, escluso, sia pure attraverso un percorso argomentativo in parte diverso, il ricorrere di una condotta rilevante ex art. 610 c.p..

6. Il ricorso deve pertanto essere rigettato, siccome infondato.

P.Q.M.

RIGETTA IL RICORSO. Così deciso in Roma, il 25 gennaio 2013. 

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