Abuso di diritto, il Consiglio di Stato ribadisce l’applicabilità del divieto anche in chiave processuale (Cons. Stato n. 2874/2012)

Redazione 17/05/12
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Svolgimento del processo

L’odierno appellante impugnava innanzi al TAR l’atto di c.d. regressione tariffaria per l’anno 2004 relativamente alle varie branche nelle quali vi era stato l’accreditamento e di contemporanea emissione di una nota di addebito.

Il giudice di prime cure respingeva il ricorso e la sentenza veniva impugnata con l’odierno ricorso.

Con il primo motivo di appello la parte ha chiesto la riforma della sentenza di primo grado sostenendo che la controversia – vertente su diritti patrimoniali soggettivi – spetterebbe alla giurisdizione del giudice ordinario.

Con il secondo motivo ha dedotto l’erroneità della decisione nella parte in cui ha respinto la censura incentrata sulla violazione delle regole formali che l’amministrazione avrebbe dovuto rispettare nell’esercizio del suo potere in modo da assicurare l’equo contemperamento degli interessi pubblici e privati. In particolare, a giudizio dell’appellante, l’amministrazione, omettendo di ottemperare agli obblighi di monitoraggio e di comunicazione, avrebbe illegittimamente adottato il provvedimento impugnato e la sentenza erroneamente non ne avrebbe rilevato l’invalidità.

Con il terzo motivo di appello è stata riproposta la doglianza incentrata sulla lesione dell’affidamento in considerazione del fatto che l’abbattimento tariffario per il 2004 sarebbe avvenuto a due anni di distanza senza contemperare l’interesse pubblico con quello privato.

Si costituiva l’azienda sanitaria insistendo con plurime argomentazioni per il rigetto dell’appello.

Indi, sulle conclusioni delle parti, alla pubblica udienza del 30 marzo 2012 l’appello passava in decisione.

 

Motivi della decisione

1. In via generale, come già affermato dalla Sezione (Cons. St., III, 13 aprile 2011 n. 2290), il sistema di regressione tariffaria delle prestazioni sanitarie che eccedono il tetto massimo prefissato è espressione del potere autoritativo di fissazione dei tetti di spesa e di controllo pubblicistico della spesa sanitaria in funzione di tutela della finanza pubblica affidato alle regioni e trova giustificazione concorrente nella possibilità che le imprese fruiscano di economie di scala nonché effettuino opportune programmazioni della rispettiva attività ( Cons. Stato, IV, 15 febbraio 2002 n. 939). Ove infatti venisse consentito lo sforamento dei tetti complessivi di spesa fissati dalla Regione il potere di programmazione regionale ne risulterebbe vanificato.

1.1. Peraltro la Corte Costituzionale, nel valutare le linee fondamentali del sistema sanitario nel nostro ordinamento, ha sottolineato l’importanza del collegamento tra responsabilità e spesa ed ha evidenziato come l’autonomia dei vari soggetti ed organi operanti nel settore non può che essere correlata alle disponibilità finanziarie e non può prescindere dalla limitatezza delle risorse e dalle esigenze di risanamento del bilancio nazionale (Corte Cost., 28 luglio 1995 n. 416). In particolare, la Corte ha ribadito che “non è pensabile di poter spendere senza limite avendo riguardo soltanto ai bisogni quale ne sia la gravità e l’urgenza; è viceversa la spesa a dover essere commisurata alle effettive disponibilità finanziarie, le quali condizionano la quantità ed il livello delle prestazioni sanitarie, da determinarsi previa valutazione delle priorità e delle compatibilità e tenuto ovviamente conto delle fondamentali esigenze connesse alla tutela del diritto alla salute, certamente non compromesse con le misure ora in esame” (cfr. anche Corte Cost., 23 luglio 1992, n. 356; Cons. St., a. p. 2 maggio 2006 n. 8).

1.2. Il necessario raccordo tra tutela del diritto alla salute e esigenze di razionalizzazione delle spesa sanitaria trova applicazione anche a meccanismi di riequilibrio che intervengano a consuntivo ed in via eventuale rispetto alla programmazione a monte, come è il caso proprio della regressione tariffaria unica.

2. Venendo al caso di specie con riferimento all’anno 2004 in Campania le delibere regionali quadro D.G.R.C. n.48/2003 e n.2451 del 2003 hanno determinato i volumi delle prestazioni sanitarie da acquistare per il predetto anno presso i centri privati fissando i limiti di spesa sostenibili per tale anno e approvando nel contempo gli schemi degli accordi che le ASL avrebbero stipulato con le associazioni di categoria e con ciascun centro privato accreditato o provvisoriamente accreditato con il servizio sanitario nazionale per disciplinare l’erogazione delle prestazioni (si veda pagina 1 della memoria di costituzione dell’amministrazione).

Tali accordi hanno previsto che la remunerazione delle prestazioni delle strutture erogatrici rientranti nei tetti previsti dalla programmazione regionale sarebbe avvenuta sulla base delle tariffe regionali, mentre per le prestazioni eccedenti si sarebbero applicate le regressioni tariffarie utili a garantire il rispetto del tetto di spesa con sostanziale decurtazione del fatturato reso.

Alla delibera quadro ha fatto seguito la sottoscrizione dei protocolli di intesa e degli accordi contrattuali con i quali le parti si sono vincolate al rispetto del budget delle singole branche e della intera macroarea. Gli accordi hanno previsto che il tetto di spesa fosse fissato, non con riferimento alle attività erogate da ogni singolo centro, ma in relazione all’intera macroarea nel cui ambito rientravano le prestazioni sanitarie fornite da ciascun centro, stabilendo altresì che le modalità di regressione tariffaria fossero affidate ad un tavolo tecnico paritetico da costituire presso ciascuna ASL (si veda la copia della convenzione stipulata con la struttura e, in particolare, gli artt. 3 e segg.).

3. Passando ora all’esame dell’atto di appello, occorre prioritariamente esaminare il primo motivo con il quale l’odierno appellante – soccombente nel giudizio di primo grado da lui instaurato davanti al giudice amministrativo – deduce che erroneamente il TAR avrebbe deciso la controversia trattandosi di questioni rientranti nella giurisdizione del giudice ordinario perché afferenti a diritti patrimoniali soggettivi. A sostegno di tale tesi, in vista della decisione, parte appellante ha depositato copia dell’ordinanza 26 gennaio 2011 n. 1771 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione che, in un caso simile, ha dichiarato la giurisdizione del giudice ordinario.

3.1. Per l’amministrazione appellata, invece, la censura sarebbe inammissibile essendo basata su questioni e domande nuove che non avevano costituito oggetto del giudizio di primo grado anche perché l’appellante aveva richiesto al giudice amministrativo di annullare gli atti adottati dalla ASL.

Sempre per l’amministrazione (appellata) la doglianza non sarebbe nel merito fondata alla luce della giurisprudenza del Consiglio di Stato e perché l’ordinanza delle Sezione Unite prima citata sarebbe oggetto di impugnazione per revocazione tuttora pendente sull’assunto che la Suprema Corte non avrebbe tenuto conto che il rapporto intercorrente tra le parti si fonda su accordi previsti ex articolo 8 quinquies D.Lgs. n. 502 del 1992 le cui controversie, già ai sensi dell’articolo 11 L. n. 241 del 1990, appartengono alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

3.2. Per il Collegio la censura, anche infondata nel merito, è inammissibile.

3.3. Come è noto, per un primo orientamento, la statuizione del giudice di primo grado sulla giurisdizione è riesaminabile in appello allorché la relativa questione sia stata sollevata in termini e ciò a prescindere dall’avere l’appellante prescelto col ricorso di primo grado il giudice che poi contesta, in considerazione del fatto che tale deduzione effettivamente riflette una contraddittorietà logica, ma non tale da risultare incompatibile con la sussistenza dell’interesse ad appellare, essendo comunque idoneo il motivo così dedotto ad ovviare alla soccombenza derivante dalla decisione appellata (Cons. St., V, 5 dicembre 2008 n. 6049; nello stesso senso, ex multis, Cons. St., III, 14 giugno 2011 n. 3611).

3.4. A fronte di tale opzione ermeneutica, per altra tesi invece l’eccezione di difetto di giurisdizione del giudice adito in primo grado non può essere sollevata dalla parte che vi ha dato luogo agendo in primo grado mediante la scelta del giudice del quale poi, nel contesto dell’appello, disconosce e contesta la giurisdizione. Ritenere “… il contrario, infatti, si porrebbe in contrasto con i principi di correttezza e affidamento che modulano il diritto di azione e significherebbe, in caso di domanda proposta a giudice carente di giurisdizione, non rilevata d’ufficio, attribuire alla parte la facoltà di ricusare la giurisdizione a suo tempo prescelta, in ragione dell’esito negativo della controversia…” (Cons. St., VI, 10 marzo 2011, n. 1537). Tale conclusione è stata ribadita da una recente (ed articolata) sentenza che ha richiamato anche le modifiche alle regole processuali che governano la rilevazione del difetto di giurisdizione (articolo 9 c.p.a.) e il generale divieto di abuso di ogni posizione soggettiva, divieto che, ai sensi dell’art. 2 Cost. e dell’art. 1175 c.c., permea le condotte sostanziali al pari dei comportamenti processuali di esercizio del diritto (Cons. St., V, 7 febbraio 2012 n. 656, ove il richiamo a Cons. St., a.p., 23 marzo 2011 n. 3 e Cass. s.u., 15 novembre 2007 n. 23726).

3.4. A giudizio della Sezione merita condivisione questo secondo e più recente orientamento dovendosi valorizzare il principio per cui è vietato abusare del diritto.

3.4.1. Come è noto un risalente orientamento escludeva l’esistenza di un divieto generale di abusare del diritto, considerando tale divieto, più che un principio giuridico, un concetto di natura etica, con la conseguenza che colui che ne abusava era considerato meritevole di biasimo, ma non di sanzione giuridica.

3.4.2. Per altro orientamento il divieto di abuso del diritto deve in generale ricavarsi dalla norma (particolare) che vieta gli atti emulativi. Per tale tesi, in altri termini, la regola prevista dall’articolo 833 c.c. è espressione di un principio più generale che impedisce al titolare di un diritto di abusarne. Tale opinione, tuttavia, non ha riscosso unanimità di consensi sia perché, secondo alcuni, proprio la presenza di una norma specifica – come l’articolo 833 c.c. – sarebbe sintomo della volontà del legislatore del 1942 di non introdurre una siffatta clausola generale sia perché nell’interpretazione che la giurisprudenza ha dato del più volte citato articolo vi sarebbe il segno della sfiducia del legislatore nei confronti di clausole generali potenzialmente contrastanti con il principio della certezza del diritto.

3.4.3. Per un terzo orientamento il divieto di abuso del diritto va qualificato come corollario dell’obbligo generale di comportarsi secondo buona fede – ossia con lealtà e correttezza – previsto dal codice civile (articoli 1175, 1337, 1358, 1366, 1375 c.c.), obbligo di buona fede che, in via ancora più generale, trova copertura costituzionale nel dovere inderogabile di solidarietà sociale sancito dall’articolo 2 Cost. (ex multis Cass., III, 10 novembre 2010 n. 22819). Se ne può ravvisare una ulteriore espressione nell’art. 2058, secondo comma, a norma del quale il risarcimento in forma specifica, ancorché richiesto dal creditore e materialmente possibile, può essere escluso dal giudice qualora risulti eccessivamente oneroso per il debitore.

3.4.4. La giurisprudenza della Corte di Cassazione, ormai da tempo, riconosce il valore di norma di principio al divieto di abuso del diritto applicandolo sia nei rapporti di natura contrattuale sia in altri e diversi campi.

La Corte di Cassazione ha ritenuto configurabile un abuso del diritto nel comportamento del contraente che esercita verso l’altro i diritti che gli derivano dalla legge o dal contratto per realizzare uno scopo diverso da quello cui questi diritti sono preordinati. In tema di recesso, in particolare, con riferimento alla c.d. interruzione brutale del credito, la S.C. ha avuto modo di affermare che il giudice non deve limitarsi al riscontro obiettivo della sussistenza o meno dell’ipotesi di giusta causa di recesso prevista in un contratto di apertura di credito per un tempo determinato, ma, alla stregua del principio per cui il contratto deve essere eseguito secondo buona fede, deve accertare che il recesso non sia esercitato con modalità impreviste ed arbitrarie, tali da contrastare con la ragionevole aspettativa di chi, in base ai rapporti usualmente tenuti dalla banca ed all’assoluta normalità commerciale dei rapporti in atto, abbia fatto conto di poter disporre della provvista redditizia per il tempo previsto e che non può pretendersi essere pronto in qualsiasi momento alla restituzione delle somme utilizzate (Cass., I, 16 ottobre 2003 n. 15482).

Con altre decisioni in materia societaria si è optato per l’invalidità della delibera, se è raggiunta la prova che il potere di voto sia stato esercitato allo scopo di ledere gli interessi degli altri soci, ovvero risulti in concreto preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di minoranza, in violazione del canone generale di buona fede nell’esecuzione del contratto oppure ancora, riprendendo gli autorevoli studi condotti dalla dottrina, se ne è fatta applicazione con riferimento al fenomeno dell’abuso della personalità giuridica quando essa costituisca uno schermo formale per eludere la più rigida applicazione della legge (Cass. 25 gennaio 2000 n. 804; Cass. 16 maggio 2007 n. 11258).

Una compiuta elaborazione giurisprudenziale del generale divieto di abuso del diritto è stata realizzata nel 2009 dalla Corte di Cassazione. In questa occasione la Cassazione ha affermato che “gli elementi costitutivi dell’abuso del diritto – ricostruiti attraverso l’apporto dottrinario e giurisprudenziale – sono i seguenti: 1) la titolarità di un diritto soggettivo in capo ad un soggetto; 2) la possibilità che il concreto esercizio di quel diritto possa essere effettuato secondo una pluralità di modalità non rigidamente predeterminate; 3) la circostanza che tale esercizio concreto, anche se formalmente rispettoso della cornice attributiva di quel diritto, sia svolto secondo modalità censurabili rispetto ad un criterio di valutazione, giuridico od extragiuridico; 4) la circostanza che, a causa di una tale modalità di esercizio, si verifichi una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte. L’abuso del diritto, quindi, lungi dal presupporre una violazione in senso formale, delinea l’utilizzazione alterata dello schema formale del diritto, finalizzata al conseguimento di obiettivi ulteriori e diversi rispetto a quelli indicati dal Legislatore” (Cass. civile, III, 18 settembre 2009 n. 20106).

3.4.5. Tralasciando l’esame in questa sede delle diverse opinioni espresse dalla dottrina a commento della sentenza da ultimo citata (potendosi ricondurre le diverse, e contrapposte opinioni, anche al differente approccio che la dottrina ha nei confronti della “legislazione per principi e per clausole generali” sia per la diversa sensibilità manifestata relativamente al valore della certezza del diritto sia per la diffidenza o la simpatia manifestata per le clausole elastiche di adeguamento dell’ordinamento), giova sin da subito precisare che il divieto di abuso del diritto non è stato relegato dalla giurisprudenza al solo campo del diritto civile. Così, ad esempio, le S.U. hanno generalizzato il divieto di elusione dei tributi affermando che “non può non ritenersi insito nell’ordinamento, come diretta derivazione delle norme costituzionali, il principio secondo cui il contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali dall’utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale”; tale regola è stata collegata all’esistenza di un principio generale non scritto volto a contrastare le pratiche consistenti in un abuso del diritto (Cass. civile, sez. un., 23 dicembre 2008 n. 30055).

3.4.6. Il divieto di abuso del diritto ha trovato applicazione anche nel diritto processuale sia nella giurisprudenza della Corte di Cassazione sia nelle autorevoli prese di posizione dell’Adunanza Plenaria. Il giudice ordinario, infatti, ha definito abusiva la pratica di frazionamento di un credito, nella fase giudiziale dell’adempimento, al fine, essenzialmente, di scelta del giudice competente (Cass., s.. u, 15 novembre 2007 n. 23726) laddove l’Adunanza Plenaria, con la sentenza 23 marzo 2011 n. 3, ha “considerato sindacabile, ai fini dell’esclusione o della riduzione dal danno ex art. 1227, comma 2 c.c., le condotte processuali opportunistiche che, in violazione del duty to mitigate che grava sul creditore, abbiano prodotto o dilatato un danno che, more probably that not, sarebbe stato evitato in caso di tempestiva impugnazione del provvedimento dannoso o di esperimento degli altri strumenti di tutela previsti” (Cons. St., V, 7 febbraio 2012 n. 656).

3.4.7. In altre decisioni di merito il giudice civile, in presenza di un contratto quadro di intermediazione finanziaria nullo per difetto di sottoscrizione, ha respinto la domanda proposta dall’investitore tendente ad ottenere la ripetizione degli investimenti svantaggiosi e non anche di quelli che invece si erano rivelati forieri di guadagni proprio facendo applicazione del generale canone che vieta di abusare del diritto alla domanda (Trib. Torino, 7 marzo 2011).

3.4.8. Alla luce delle considerazioni sino a qui esposte – e prescindendo pure dalla disputa attualmente esistente in dottrina circa la portata del divieto di abuso del diritto e i suoi rapporti con il canone della buona fede – non appare contestabile che le scelte e le domande proposte in giudizio debbano essere vagliate anche alla stregua del concreto risultato perseguito dalle parte e della sua conformità agli scopi voluti dall’ordinamento. Per tale ragione “si deve allora ritenere, in applicazione delle regole processuali di cui al D.Lgs. n. 104 del 2010 ed in funzione del principio generale che colpisce il divieto dell’abuso del diritto con la sanzione del rifiuto della tutela, volta ad impedire il conseguimento dell’obiettivo non correttamente perseguito, che sia inammissibile il motivo di appello con cui la parte ricorrente in primo grado ha sollevato il difetto di giurisdizione del giudice adito” (ancora Cons. St., V, 7 febbraio 2012 n. 656).

A tale considerazione va aggiunto che, entrato in vigore il codice del processo amministrativo, il difetto di giurisdizione nei giudizi di impugnazione è rilevato se dedotto con specifico motivo avverso il capo della pronuncia impugnata che, in modo implicito o esplicito, ha statuito sulla giurisdizione (articolo 9 cpa) e dunque essere eccepito solo dalla parte che rispetto alla decisione del giudice di primo grado è rimasta sul punto soccombente.

3.5. La doglianza sarebbe comunque infondata nel merito alla stregua sia del dato legislativo -perché ai sensi dell’articolo 133, comma 1, c.p.a. si tratta di controversie, per un verso, attinenti ad accordi tra privati e pubbliche amministrazioni e, per altro verso, relative a rapporti di tipo concessorio – sia del consolidato orientamento di questo Consiglio (si vedano, tra le tante, Cons. St., a.p., 2 maggio 2006 n. 8; Cons. St., III, 14 giugno 2011 n. 3611).

4. Con il secondo motivo di appello si censura la sentenza impugnata perché, a differenza di quanto affermato dal giudice di primo grado, il mancato adempimento dell’obbligazione di monitoraggio e di comunicazione dei dati determinerebbe l’illegittimità del provvedimento impugnato in ragione della violazione delle regole formali che disciplinano l’esercizio del potere amministrativo anche allo scopo di assicurare l’equo contemperamento degli interessi pubblici e privati connessi all’esercizio del potere stesso.

Per parte appellante la regressione tariffaria, inquadrandosi nel potere autoritativo di fissazione dei tetti di spesa e di controllo della spesa sanitaria in funzione di tutela della finanza pubblica, dovrebbe necessariamente essere preceduta dal rispetto dei criteri di legge anche per contemperare le prima ricordate esigenze del contenimento della spesa sanitaria con l’interesse della struttura privata a vedere concretamente dispiegata la sua capacità operativa.

In altri termini si sarebbe realizzata la violazione dell’articolo 8 quinquies D.Lgs. n. 502 del 1992 nella parte in cui stabilisce che spetta alla regione di stabilire i criteri per la determinazione della remunerazione delle strutture ove queste abbiano erogato volumi di prestazioni eccedenti il programma preventivo concordato, tenuto conto del volume complessivo di attività e del concorso allo stesso da parte di ciascuna struttura.

Il TAR invece avrebbe affermato erroneamente che i criteri che sovrintendono all’abbattimento tariffario possono essere disattesi quando ha stabilito che l’applicazione della regressione tariffaria non è subordinata né condizionata all’esecuzione del monitoraggio e nella parte in cui ha respinto le censure mosse in primo grado dall’appellante allorché lamentava che l’intero procedimento di regressione si fosse tradotto nell’approvazione di una mera tabella numerica senza che fosse possibile comprendere l’iter logico seguito per pervenire alle percentuali di abbattimento poi comunicate alle singole strutture ricorrenti. L’illegittimità del provvedimento impugnato, sempre per parte appellante, emergerebbe anche in considerazione del tardività del monitoraggio delle prestazioni, monitoraggio questo effettuato ad esercizio finanziario ormai concluso.

4.1. Per l’amministrazione appellata, invece, l’esercizio della potestà amministrativa prescinderebbe dagli adempimenti del monitoraggio e dalla comunicazione dei dati sull’andamento dei volumi ai centri non potendosi riconoscere rilievo alcuno a tali adempimenti anche in considerazione degli interessi pubblici connessi all’esercizio del cosiddetto potere di regressione tariffaria.

Sempre per l’amministrazione il ragionamento svolto dal giudice di primo grado sarebbe pienamente condivisibile nella parte in cui svincola l’esercizio di tale potere dagli adempimenti del monitoraggio e da quelli connessi alle comunicazioni; inoltre non risponderebbe al vero che il monitoraggio sia stato tardivo in considerazione del fatto che sarebbe iniziato nello stesso mese di dicembre del 2004 e conseguentemente sarebbe stato possibile concluderlo solo in momenti successivi alla chiusura dell’anno in questione.

4.2. Tutto ciò premesso la censura – incentrata sull’asserita violazione delle regole procedimentali – non può essere accolta perché, come già affermato dalla Sezione (Cons. St., III, 13 aprile 2011 n. 2290), atteso il carattere autoritativo e pubblicistico della potestà programmatoria regionale, il mancato o ritardato adempimento di alcuni adempimenti di natura procedimentale, come quelli lamentati dalla appellante, non esclude la potestà dell’amministrazione di imporre la regressione tariffaria allo scopo di contenere la remunerazione complessiva delle prestazioni nei limiti fissati, né comporta l’obbligo per l’amministrazione sanitaria di acquistare prestazioni sanitarie impiegando risorse superiori a quelle disponibili, permanendo, fondamentale ed ineludibile, l’esigenza di contenimento della spesa pubblica sanitaria nei limiti fissati dalle delibere regionali di programmazione.

Infine, sempre come già affermato dalla Sezione, “il tavolo tecnico, a conclusione dei propri lavori, è pervenuto alla determinazione dei dati contabili. Dalla relativa tabella possono essere desunti i criteri adottati per l’applicazione della regressione tariffaria che hanno formato oggetto di discussione nei verbali delle riunioni del tavolo stesso. Infatti è indicato il numero di prestazioni e l’ammontare della remunerazione netta per ciascuna branca, al quale è sommato l’importo della compensazione passiva; il totale è posto a raffronto con il tetto di spesa preventivato per la branca; la sommatoria algebrica delle relative differenze costituisce il totale complessivo da recuperare con il meccanismo della regressione tariffaria che è calcolata come percentuale del corrispondente abbattimento della remunerazione nei settori che hanno sconfinato rispetto al limite di spesa”.

5. Con il terzo motivo di appello si deduce, tra l’altro, che la decisione di primo grado sarebbe erronea sia perché i giudici di prime cure avrebbero dovuto ritenere illegittimo un abbattimento tariffario per l’anno 2004 applicato dopo due anni dalla chiusura dell’esercizio sia perché nella fattispecie concreta vi sarebbe stata una lesione dell’affidamento mancando anche la comparazione tra l’interesse pubblico che l’amministrazione intendeva realizzare e quello privato.

5.1. La censura non merita accoglimento. Altra decisione della Sezione ha già escluso la lesione del principio dell’affidamento perché “… non è contemplata dal sistema un’impensabile decadenza del relativo potere. Infatti, la fissazione dei limiti di spesa e l’applicazione delle regressioni tariffarie volte a garantire l’effettività di tali limiti, anche se tardive e con sostanziale portata retroattiva, rappresentano comunque l’adempimento di un preciso ed ineludibile obbligo, che influisce sulla possibilità stessa di attingere le risorse necessarie per remunerare le prestazioni erogate…” (Cons. St., III, 14 giugno 201 n. 3611); sotto altro aspetto va sottolineato che il procedimento di regressione non poteva che iniziare alla fine del 2004 e concludersi in momenti successivi alla chiusura dell’anno in questione (Cons. St., III, 13 aprile 2011 n. 2290).

Al riguardo, inoltre, va richiamato anche quanto chiarito dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, secondo la quale non può sostenersi che la retroattività dell’atto di determinazione della spesa vale ad impedire agli interessati – in contrasto con elementari principi – di disporre di un qualunque punto di riferimento regolatore per lo svolgimento della loro attività.

È evidente che in un sistema nel quale è fisiologica la sopravvenienza dell’atto determinativo della spesa, solo in epoca successiva all’inizio di erogazione del servizio, gli interessati potranno aver riguardo – fino a quando non risulti adottato un provvedimento – all’entità delle somme contemplate per le prestazioni dei professionisti o delle strutture sanitarie dell’anno precedente, diminuite, ovviamente, della riduzione della spesa sanitaria effettuata dalle norme finanziarie dell’anno in corso.

La linea interpretativa rappresentata in questa sede, è d’altra parte la sola che consente di garantire il raggiungimento dell’obiettivo di carattere primario e fondamentale del settore sanitario che è la garanzia di quella che la sentenza n. 509 del 2000 della Corte Costituzionale chiama “nucleo irriducibile” del diritto alla salute (Cons. St., A.P., 2 maggio 2006 n.8).

Nel caso di specie poi non v’è stata alcuna lesione dell’affidamento perché i limiti di spesa erano stati stabiliti con la DGRC 2451/03 e con la DGRC 048/03, atti questi che davano la possibilità all’operatore di porre in essere scelte consapevoli sulla base di previsioni attendibili ancorchè suscettibili di correzione.

6. In conclusione l’appello deve essere rigettato; la complessità delle questioni giuridiche trattate costituisce giusta causa per compensare tra le parti le spese di giudizio.

P.Q.M.

 

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza)

definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Redazione