A norma dell’art. 2, comma 2, della legge n. 241 del 1990, il procedimento amministrativo deve, di regola, concludersi entro trenta giorni dal suo avvio (Cons. Stato n. 3172/2013)

Redazione 10/06/13
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FATTO

In data 7 ottobre 1999, il signor **************** – proprietario di un terreno situato nel territorio di Rho, in una zona classificata come agricola dal vigente P.R.G. – ha chiesto al Comune il rilascio di una concessione edilizia per la costruzione nell’area di un centro florovivaistico.

Il Comune ha accordato la concessione con atto del 9 giugno 2000, previa sottoscrizione, da parte dell’interessato, di un atto di impegno al mantenimento dell’immobile al servizio dell’attività ******** (atto richiesto dall’Amministrazione in conformità all’art. 3 della legge della Regione Lombardia 7 giugno 1980, n. 93, formato in data 9 maggio 2000 e poi trascritto presso la Conservatoria dei registri immobiliari di Milano).

Con successivo provvedimento del 15 maggio 2002, n. 2512, il Comune ha inoltre autorizzato il signor R. – come titolare dell’azienda agricola florovivaistica “Viridea” – a esercitare l’attività di vendita al dettaglio di prodotti provenienti in misura prevalente dall’azienda agricola nonché di prodotti accessori, specificati in apposito elenco allegato all’autorizzazione.

Avendo la Polizia municipale accertato che circa la metà della superficie coperta sarebbe stata destinata alla vendita di prodotti non consentiti, l’Amministrazione comunale ha applicato una sanzione pecuniaria. Dopo avere poi contestato al signor R. il cambio di destinazione urbanistica, l’Amministrazione – con provvedimento 23 giugno-2 luglio 2003, n. 29990 – lo ha diffidato a provvedere al ripristino della destinazione agricola degli spazi utilizzati per la sola vendita di prodotti non derivanti dalla conduzione del fondo e non compresi nell’autorizzazione commerciale n. 25212 del 2002.

Il signor R. ha impugnato la diffida comunale.

Con sentenza 2 febbraio 2005, n. 200, il T.A.R. per la Lombardia, sez. IV, ha ritenuto illegittimo l’atto impugnato sulla base dei primi due motivi del ricorso: l’atto sarebbe viziato da violazione di legge (per essere stato adottato oltre il termine di trenta giorni dall’avvio del procedimento, previsto dall’art. 2 della legge 7 agosto 1990, n, 241) ed eccesso di potere (mancherebbe una precedente istruttoria come pure un’idonea motivazione). Il T.A.R. lo ha di conseguenza annullato, dichiarando assorbite le censure non vagliate.

Contro la sentenza il Comune ha interposto appello.

Il Comune premette che la decisione del T.A.R. si sarebbe fondata esclusivamente su considerazioni di ordine formale. In concreto, il contenuto dispositivo del provvedimento impugnato non avrebbe potuto essere diverso da quello adottato, posto che l’Amministrazione non avrebbe avuto alcuna discrezionalità circa l’adozione del provvedimento sanzionatorio; ne seguirebbe dunque l’applicabilità dell’art. 21-octies della citata legge n. 241 del 1990, con salvezza del provvedimento medesimo.

Nel merito dei singoli motivi del ricorso introduttivo, in Comune osserva che:

1. il superamento del termine previsto dall’art. 2 della legge n. 241 del 1990 per la conclusione del procedimento non determinerebbe illegittimità del provvedimento finale, avendo tale termine carattere sollecitatorio e non potendo comunque l’Amministrazione sottrarsi al dovere di impedire la prosecuzione di un’attività ritenuta illegittima perché in contrasto con la disciplina urbanistica della zona e con l’impegno assunto dalla controparte;

2. sarebbe infondata la censura di difetto di motivazione e di istruttoria: diversamente da quanto assume il T.A.R., il Comune avrebbe considerato le osservazioni e controdeduzioni presentate dall’appellato in data 30 dicembre 2002, rilevando che esse non apportassero comunque elementi di novità rispetto a quelle prodotte in precedenza; tali osservazioni e controdeduzioni, peraltro, non riuscirebbero in punto di fatto a contestare l’esito degli accertamenti della Polizia municipale e a suffragare la tesi, sostenuta dal privato, secondo cui tutti i prodotti in vendita ricadrebbero nel novero di quelli ammessi; i richiami a una precedente ordinanza-ingiunzione e a una sentenza del T.A.R. Lombardia, contenuti nella diffida impugnata, varrebbero comunque a integrare per relationem la motivazione del provvedimento;

3. diversamente da quanto sosterrebbe il terzo motivo del ricorso originario (primo di quelli dichiarati assorbiti), il Comune non avrebbe inteso perseguire la violazione della disciplina dell’attività commerciale (considerata dall’Amministrazione in un altro provvedimento diverso e autonomo), ma la violazione della destinazione d’uso agricola, prescritta dalla legge regionale e fatta oggetto di uno specifico impegno da parte del signor R.;

4. sarebbe inconferente il richiamo all’art. 4 del decreto legislativo 18 maggio 2001, n. 228 (che avrebbe eliminato il concetto di “accessorietà” dei prodotti venduti), dato che ciò che verrebbe in questione sarebbe non le modalità di esercizio dell’attività di vendita, ma la compatibilità di tale attività con la destinazione agricola dell’immobile;

5. sarebbe fuorviante l’argomento secondo cui, una volta accertata la vendita di prodotti estranei a quelli consentiti, non ne seguirebbe la violazione del vincolo alla destinazione d’uso, ma solo l’impossibilità di continuarne la vendita all’interno della struttura: l’esercizio dell’attività di vendita di prodotti diversi da quelli dell’azienda agricola, invece, integrerebbe di per sé violazione dell’impegno a suo tempo assunto e dunque del vincolo così costituito sull’immobile, trasformando la destinazione d’uso del fabbricato e assumendo rilevanza sotto il profilo urbanistico, con violazione della normativa regionale di settore; d’altronde, la quantità dei beni estranei posti in vendita sarebbe tale da incidere significativamente sull’uso dell’intero immobile;

6. non vi sarebbe la lamentata contraddizione con precedenti atti e comportamenti dell’Amministrazione comunale, perché il Comune non contesterebbe la possibilità di costituire un’azienda florovivaistica in un’area destinata a verde agricolo e la possibilità di vendere beni connessi; l’esistenza di un’autorizzazione commerciale non farebbe venir meno l’obbligo di rispettare le norme di legge e l’impegno assunto;

7. quanto infine alla questione dell’estraneità dei generi accertati rispetto a quelli autorizzati, essa sarebbe accertata in punto di fatto e comunque non supererebbe il rilievo della violazione della disciplina urbanistica; l’individuazione delle zone utilizzate per la vendita, in violazione dell’asservimento all’azienda agricola, sarebbe stata puntualmente verificata dalla Polizia municipale, anche in relazione agli elaborati progettuali a suo tempo assentiti dall’Amministrazione.

Il signor R. si è costituito in giudizio per resistere all’appello, dapprima con memoria di stile, svolgendo poi le proprie difese con successiva memoria depositata il 22 aprile scorso.

L’appello, in primo luogo, sottolinea l’obbligo dell’Amministrazione di concludere nel termine di legge i procedimenti avviati (l’inosservanza del termine può produrre danno ingiusto risarcibile). Quanto poi all’asserita illegittimità dell’attività di vendita, osserva che il Comune trascurerebbe la previsione dell’art. 4 del decreto legislativo n. 228 del 2001, citato, che rende libera la vendita diretta al dettaglio, da parte degli imprenditori agricoli, dei prodotti provenienti in misura prevalente dalle rispettive aziende. Tale misura di prevalenza, che costituirebbe solo un criterio orientativo, sarebbe svincolata dalla capacità produttiva del fondo su cui insiste l’attività di vendita, rinviando a un’organizzazione aziendale suscettibile di essere complessa e articolata sul territorio. L’Amministrazione, peraltro, avrebbe anche omesso di verificare tale prevalenza, come invece avrebbe potuto fare anche utilizzando il criterio del fatturato, indicato dal comma 8 dell’art. 4 richiamato.

L’appello ripropone poi tutti i motivi del ricorso introduttivo, contestando punto per punto le difese del Comune.

Con memoria di replica, il Comune dichiara di considerare tardiva – ex art. 73, comma 1, c.p.a. – la memoria difensiva della controparte e di non accettare il contraddittorio in ordine alle deduzioni ivi svolte.

All’udienza pubblica del 21 maggio 2013, l’appello è stato chiamato e trattenuto in decisione.

DIRITTO

La questione della ritenuta tardività della memoria difensiva della parte appellata, dedotta dall’Amministrazione appellante, può essere trascurata, poiché l’appello è comunque fondato nel merito.

Il Tribunale territoriale ha accolto il ricorso su un duplice rilievo:

il provvedimento impugnato sarebbe stato adottato oltre il termine di legge;

il provvedimento stesso non sarebbe stato preceduto da istruttoria e non sarebbe corredato da idonea motivazione.

Nessuno di tali rilievi resiste alle critiche mosse con l’appello.

Quanto al termine, è ben vero che – a norma dell’art. 2, comma 2, della legge n. 241 del 1990 – il procedimento amministrativo deve, di regola, concludersi entro trenta giorni dal suo avvio e che, nel caso di specie, tale termine risulta ampiamente oltrepassato (il dato non è contestato).

Senonché, per giurisprudenza costante, il mancato rispetto di tale termine non produce l’illegittimità del provvedimento tardivo, per trattarsi di un termine che, non essendo indicato come perentorio, ha funzione solo acceleratoria, cosicché il ritardo nell’adottare il provvedimento non comporta decadenza della potestà amministrativa, né illegittimità del provvedimento conclusivo (cfr. ex plurimis Cons. Stato, sez. VI, 1° dicembre 2010, n. 8371; Id., sez. IV, 12 giugno 2012, n. 2264).

A questa conclusione non vale opporre – come invece vorrebbe la parte appellata – la circostanza che l’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento può essere fonte di danno ingiusto risarcibile (art. 2-bis della citata legge 241 del 1990). E ciò, sia perché la disposizione ora ricordata è stata introdotta in epoca successiva a quella dei fatti di causa (con legge 18 giugno 2009, n. 69), sia perché illegittimità dell’atto e illiceità del comportamento discendono da giudizi di valore di segno diverso e si muovono evidentemente su piani differenti quanto a presupposti e conseguenze.

Nemmeno appare fondata la censura di difetto di istruttoria e di motivazione, accolta dal T.A.R. In particolare, il Tribunale regionale ha ritenuto che il provvedimento impugnato non contenesse alcuna valutazione in ordine alle controdeduzioni presentate dall’originario ricorrente il 30 ottobre 2002, con riguardo a una supposta erroneità dei presupposti di fatto oggetto della contestazione comunale.

A questo proposito, ha facile gioco il Comune a controbattere che il provvedimento menziona espressamente tali osservazioni, rileva che esse sarebbero sostanzialmente riproduttive di altre osservazioni e controdeduzioni precedenti, senza introdurre elementi di valutazione nuovi rispetto a quelli già presi in esame. La diffida comunale replica anzi dettagliatamente sul punto (si veda il paragrafo compreso tra la parte finale della pag. 1 e quella iniziale della pag. 2).

Quanto poi all’istruttoria, che il T.A.R. assume mancante, essa è puntualmente rappresentata dall’accertamento operato dalla Polizia municipale il 30 luglio 2002, che la diffida impugnata richiama in premessa.

Occorre allora prendere in esame gli ulteriori motivi del ricorso di primo grado, che il T.A.R. non ha esaminato per avere posto a fondamento della propria decisione le censure di cui ora si è detto.

Tali motivi non hanno pregio.

Essi si risolvono nella proposizione, sotto differenti angolature, del rilievo assorbente che sarebbe da accordarsi alla sopraggiunta normativa di liberalizzazione della vendita, da parte dell’imprenditore agricolo, dei prodotti della propria azienda. Verrebbe particolarmente in questione, a tale riguardo, l’art. 4, comma 1, del decreto legislativo 18 maggio 2001, n. 228, secondo il quale “gli imprenditori agricoli, singoli o associati, iscritti nel registro delle imprese di cui all’art. 8 della legge 29 dicembre 1993, n. 580, possono vendere direttamente al dettaglio, in tutto il territorio della Repubblica, i prodotti provenienti in misura prevalente dalle rispettive aziende, osservate le disposizioni vigenti in materia di igiene e sanità”;

In disparte il punto che il R. non appare avere per nulla dimostrato che i prodotti posti in vendita provenissero da aziende di sua proprietà o comunque a lui riconducibili, è insuperabile il rilievo che quella che viene in gioco, nella presente controversia, è la disciplina urbanistica e non quella del commercio.

In altri termini: l’imprenditore agricolo si vedrà pure garantita la più ampia facoltà di vendere direttamente i propri prodotti, ma questa libertà economica non può che svolgersi nell’ambito dei confini stabiliti dalle discipline tipiche dei diversi settori.

L’art. 4 del decreto legislativo ricordato fa espressamente salve “le disposizioni vigenti in materia di igiene e di sanità”, con ciò intendendo che quella libertà di impresa si esercita all’interno del quadro legislativo in vigore: il riconoscimento, che il legislatore ne ha fatto in termini ampi, non potrebbe essere certo il grimaldello per scardinare normative diverse, rivolte a tutelare interessi pubblici di altra natura. Laddove nel caso di specie – tenuto conto dell’attività imprenditoriale concretamente svolta dal R. ed effettivamente accertata – la libertà commerciale così intesa finirebbe per contraddire la destinazione agricola dell’area, derogare alle previsioni di piano e rendere così vani i poteri di governo del territorio che la legge assegna all’Ente locale. Il che, evidentemente, sarebbe del tutto inammissibile.

Dalle considerazioni che precedono, discende che l’appello è fondato e va pertanto accolto.

Ogni altro argomento o eccezione, non espressamente esaminato, è stato dal Collegio ritenuto non rilevante ai fini della decisione e comunque inidoneo a condurre a una conclusione di segno diverso. Le spese seguono la soccombenza, conformemente alla legge, e sono liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, rigetta il ricorso di primo grado.

Condanna la parte soccombente alle spese, che liquida nell’importo di euro 3.000,00 (tremila/00), oltre agli accessori di legge.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 21 maggio 2013

Redazione