inserito in Diritto&Diritti nel aprile 2003

I benefici penitenziari per i collaboratori di giustizia: alcune annotazioni alla luce della prima applicazione della legge n.45/01.

di Fabio Fiorentin

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1.Premessa: il diritto premiale e la rinuncia dello Stato all’attuazione della pretesa punitiva.2.Il quadro normativo previgente 3. la riforma introdotta con la legge n.45/01 4. I problemi interpretativi e la disciplina transitoria 5. I primi orientamenti giurisprudenziali.

 

1.La legge 13 febbraio 2001, n.45, recante “Modifica della disciplina della protezione e del trattamento sanzionatorio di coloro che collaborano con la giustizia nonché disposizioni a favore delle persone che prestano testimonianza”(pubblicata nel supplemento ordinario n.50/L alla G.U. n.58 del 10 marzo 2001) ha rappresentato – al di fuori dalle polemiche e dalle critiche anche aspre con le quali è stata salutata al suo apparire -  un intervento di profonda riforma in quel delicato settore del diritto penale, sostanziale e processuale, definito, con un’espressione ormai entrata nell’uso comune, quale “diritto premiale”.[1]

Si tratta, com’è noto, di un’insieme articolato di istituti  connotati dalla rinuncia,  assoluta o parziale, dello Stato all’esercizio effettivo della pretesa punitiva nei confronti di quei soggetti che abbiano posto in essere condotte rilevanti in senso contro-tipico rispetto al reato commesso e, in particolare, abbiano intrapreso delle forme di collaborazione con la giustizia.

            Peraltro, il diritto premiale non si presta ad una facile catalogazione e, ancor meno, ad un coerente inquadramento sistematico, dal momento che esso involge tanto il profilo investigativo  - e poi processuale - anteriore alla concreta applicazione della sanzione penale; quanto il successivo momento della determinazione concreta della pena in sede di condanna; quanto ancora la fase dell’esecuzione penale e più precisamente penitenziaria.

Per quanto concerne quest’ultimo ambito, gli istituti a caratterizzazione premiale operano attraverso meccanismi calibrati al fine di rendere giuridicamente più agevole  l’accesso alle misure alternative alla detenzione e – più in generale – ai benefici penitenziari,  attraverso deroghe anche estese alla normativa ordinaria ovvero, specularmente, di elidere le conseguenze negative dell’indice di pericolosità sociale, emergente dalla valutazione dei reati commessi, per tutti coloro che hanno prestato idonee forme di collaborazione con gli organi di giustizia ( è il caso del rapporto dialettico, ad esempio, tra la norma di cui all’art.4 bis della L. 354/75 e l’art. 58 ter della stessa legge).

            L’aura della premialità, nel senso sopra inteso, permea trasversalmente  un’articolata  serie di istituti  del diritto penale sostanziale e processuale, quasi a voler sostenere nel corso dell’intero svolgersi del procedimento penale la volontà del reo di collaborare lealmente con lo Stato e le sue istituzioni.

             Entro tale prospettiva, in via di prima approssimazione, è possibile tentare un approccio di sistemazione della materia, riconoscendo che i molteplici profili di premialità rinvenibili nell’ordinamento penale[2] sembrano accomunati dall’unico comune denominatore costituito dall’effetto mitigatore della sanzione penale che lo Stato riconosce all’autore del fatto-reato in rapporto ad una condotta collaborativa di quest’ultimo, normativamente connotata e definita.

            Vi è, in altri termini, nella fenomenologia del diritto premiale, un aspetto fattuale, obiettivo, dato dall’atteggiamento di collaborazione del prevenuto, e vi è un profilo normativo, costituito dalle conseguenze favorevoli che l’ordinamento fa discendere in conseguenza di tale comportamento.

Di particolare interesse appaiono i profili di incentivo premiale contenuti nella legge n.82/91, così come modificata dalla legge n.45/01, con riferimento al momento dell’esecuzione penale e penitenziaria e, dunque, con attinenza alle problematiche concernenti la concessione dei benefici penitenziari ai collaboratori di giustizia.

 

 

2. Il primo sistema organico  di istituti di carattere premiale  per i collaboratori di giustizia nasce, nel nostro Paese, in seguito alla stagione stragista del 1991-92, con l’emanazione del D.L. 13.5.91, n.152, convertito nella L. 12.7.91, n.203; e del D.L. 15.1.91, n.8 convertito in L. 15.3.91, n.82; D.L. 8.6.92, n.306, convertito in L. 7.8.92, n.356[3].

Detta normativa era direttamente ispirata alle  disposizioni premiali in materia di dissociazione e pentitismo già vigenti, risalenti all’esperienza legislativa degli anni ’80, dettate in materia di terrorismo ed eversione.

La nuova legislazione introduceva, in materia di criminalità organizzata,  nuove attenuanti speciali per i collaboranti,  apprestava loro nuove forme di tutela e protezione, modellava un canale preferenziale per l’accesso alle misure alternative alla detenzione in deroga ai presupposti ed ai limiti di pena per accedere ai benefici penitenziari validi per i casi ordinari.

Il sistema così modellato era concepito come strutturato su due pilastri principali costituiti, rispettivamente, dall’art. 58 ter della L. 26 luglio 1975, n.354 ( introdotto nell’Ordinamento penitenziario dall’art.1, comma 5, D.L. 152/91) e dall’art. 13 ter del D.L. 8/91.

L’art.58 ter O.P. delinea i connotati della figura dei soggetti  collaboranti, seguendo una traccia definitoria già chiaramente presente nel diritto penale  sostanziale (es. art.630, comma 5, c.p., art. 74, comma 7, D.P.R. 9.10.90, n.309), in tutti “coloro che, anche dopo la condanna, si sono adoperati per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, ovvero hanno aiutato concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione o la cattura degli autori dei reati”.[4]

            Si tratta, come si può vedere, di una condotta collaborativa, quella sussunta dalla norma in esame, “a forma libera”, non essendo prevista alcuna particolare formalità per  la sua manifestazione, essendo unicamente valorizzata dalla norma citata la valutazione dell’importanza del contributo portato dal collaborante allo sviluppo delle indagini ed all’individuazione dei colpevoli.

Su tali presupposti, l’istituto appena richiamato è apparso di  problematica applicazione  in caso di reato a commissione monosoggettiva: laddove è ovviamente impossibile prestare una collaborazione utile all’individuazione di eventuali correi.

Peraltro, poiché non  è dato rinvenire, nella disposizione normativa, una preclusione assoluta all’applicazione in rapporto a fattispecie di reato monosoggettivo  ( benché la ratio legis induca a ritenere che il modello di collaboratore  pensato dal legislatore sia il partecipe di un reato associativo), il riconoscimento della qualità di collaboratore di giustizia ai sensi dell’art. 58 ter O.P. è stato ammesso dalla giurisprudenza dei tribunali di sorveglianza anche in relazione a tali fattispecie.

 Nei casi descritti, sono state valorizzati ai fini del riconoscimento delle utilità di cui alla normativa premiale, elementi quali la confessione, l’attivazione per l’eliminazione conseguenze delittuose del reato,  la leale collaborazione nella ricostruzione dei fatti, e simili: parametri, in buona sostanza, tratti dalle figure di “collaborante” tipizzate dalle disposizioni di diritto penale sostanziale presenti nell’ordinamento.

L’apporto dichiarativo del collaborante deve avere i connotati dell’ utilità e della decisività in rapporto agli accertamenti dei fatti e delle responsabilità degli illeciti commessi[5].

E’, per converso, evidente che, qualora si versi nell’ipotesi di collaborazione riferita a delitti c.d. “associativi”, la condotta di colui che collabora all’individuazione dei correi componenti il sodalizio criminoso rappresenta, per facta concludentia, la prova del distacco del soggetto collaborante dall’organizzazione malavitosa.

Detta valutazione di abbandono dell’associazione comporta, secondo giurisprudenza largamente maggioritaria positive ricadute sul giudizio circa l’attualità e grado della pericolosità sociale del collaboratore.

Ulteriore, controversa, problematica attiene alla possibilità di collaborazioni successive all’irrevocabilità della sentenza di condanna[6].

Su tale profilo si è reiteratamente pronunciata la Cassazione, ammettendo, in linea di principio, la menzionata possibilità, che tuttavia può ricorrere soltanto nel caso vi siano ulteriori indagini e accertamenti in corso concernenti  fatti connessi ai delitti accertati nella sentenza irrevocabile e sussista comunque un collegamento ( o “inerenza”) tra il fatto accertato nella condanna in espiazione e quelli oggetto delle nuove dichiarazioni del collaborante[7].

La figura del collaboratore ai sensi dell’art. 58 ter O.P. non è caratterizzata da alcuna dimensione etico-psicologica: l’istituto non richiede, in altri termini, la sussistenza di alcun profilo di effettivo “pentimento” o “ravvedimento”, essendo indifferente per l’ordinamento la motivazione del foro interno – ivi compreso il calcolo dei possibili concreti vantaggi - che spinge il soggetto alla collaborazione con la giustizia.      

Secondo la previsione normativa in esame, le condotte collaborative “sono accertate dal tribunale di sorveglianza, assunte le necessarie informazioni e sentito il pubblico ministero presso il giudice competente per i reati in ordine ai quali è stata prestata la collaborazione”.

            Il tribunale procede osservando le norme di cui agli artt. 666,677,678 c.p.p., con la garanzia dunque del contraddittorio e con la possibilità per le parti di interloquire in ordine ai profili oggetto dell’accertamento della collaborazione prestata dall’interessato[8].

            Il tenore letterale della disposizione induce a ritenere che sussista  riserva di competenza esclusiva in favore del tribunale in rapporto alla materia regolata dall’art. 58 ter O.P., di tal che non può condividersi quell’orientamento minoritario che ritiene possibile anche per il magistrato di sorveglianza lo scrutinio “incidentale” o “pregiudiziale” della posizione del condannato in relazione allo status di cui all’art. 58 ter O.P. in rapporto ai procedimenti di competenza (es. in rapporto a istanze di permessi-premio, o in sede di approvazione del decreto emesso ai sensi dell’art. 21 O.P. dal direttore dell’istituto di pena).

In tali casi, il magistrato di sorveglianza dovrà sospendere il procedimento e trasmettere gli atti al tribunale di sorveglianza per la pronuncia sull’istanza pregiudiziale (qualora proposta dall’interessato unitamente alla domanda inerente il beneficio penitenziario “sostanziale”) dovendosi, in assenza di autonoma istanza del condannato in tal senso, ritenere l’inammissibilità della richiesta. 

L’accertamento della collaborazione ha natura incidentale, o meglio necessariamente pregiudiziale alla valutazione di una connessa istanza di beneficio penitenziario[9], con la conseguente inammissibilità di un’impugnazione proposta con limitato riferimento alla decisione assunta dal tribunale di sorveglianza sulla sussistenza della collaborazione [10].

A tal proposito, è appena il caso di rilevare che, nelle ipotesi di concessione già nella sentenza di condanna di alcuna delle attenuanti speciali previste dalle norme sostanziali ( es. art. 630 comma 5 c.p., art. 73 comma 7 e art. 74 comma 7 del D.P.R. n. 309/90, art.4 legge antiterrorismo, etc.) ben difficilmente la cognizione del tribunale di sorveglianza, chiamato a vagliare l’istanza di riconoscimento della qualità di collaboratore, potrà esitare in una proununcia diversa da un atto meramente dichiarativo dell’avvenuta collaborazione con la giustizia del condannato,  in seguito al mero recepimento del contenuto dell’accertamento compiuto dal giudice penale in ordine alla sussistenza della condotta collaborativa e della conseguente decisione adottata.

La norma dell’art.58 ter O.P. citata si caratterizza per una funzione premiale “in negativo”, essendo finalizzata ad aggirare le preclusioni di cui all’ art.4 bis O.P., introdotto dalla medesima legge (D.L. 152/91 conv. in L. 12.7.91, n.203 e D.L. 8.6.92, n.306, conv. in L. 7.8.92, n.356) .

In seguito a tale ultima disposizione, infatti, l’ordinamento penitenziario ha assunto le caratteristiche, sotto il profilo della possibilità di accesso ai benefici penitenziari, di un sistema a doppio binario: caratterizzato, cioè, dalla coesistenza, accanto alle norme applicabili alla generalità dei detenuti “comuni”, di una serie articolata di preclusioni o limitazioni , stabilite dalla norma citata, per coloro che, condannati per delitti di particolare gravità tassativamente indicati dalla legge, non abbiano collaborato con la giustizia ai sensi dell’art. 58 ter O.P.

In particolare, l’art. 4 bis O.P. individua due tipologie di condannati, in rapporto ai reati commessi:

1)una prima fascia involge i condannati per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art.416 bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni di cui all’articolo citato, nonché  per i delitti di cui agli artt.416 bis, 630 c.p., 291quater T.U. 43/73, 74 D.P.R. 309/90;

            2) una seconda fascia comprendente attualmente i condannati per delitti commessi con finalità di terrorismo o di eversione, ovvero per i delitti di cui agli artt. 575, 628 comma 3, 629, comma 2, 291 ter T.U. 43/73, 416 realizzato allo scopo di commettere i delitti di cui al libro II, titolo XII, capo III, sezione I e dagli artt. 609 bis, 609 quater, 609 quinquies, 609 octies del codice penale, nonché per il delitto di cui all’art.73 aggravato nell’ipotesi di cui all’art.80, comma 2, D.P.R. 309/90.

            In relazione al primo Tatertypus, caratterizzato da un elevatissimo indice di pericolosità, la legge pone il divieto assoluto della concessione di benefici penitenziari (salva la liberazione anticipata) in assenza di collaborazione con la giustizia ai sensi dell’art. 58 ter O.P., ovvero nei casi di collaborazione impossibile o inesigibile ovvero oggettivamente irrilevante enucleati in parte dalla stessa norma citata, nella sua più recente formulazione, ed integrati dalla giurisprudenza costituzionale[11].

            Per ciò che concerne la seconda categoria di condannati, il legislatore, ferma restando la necessità che in sede istruttoria non siano stati acquisiti elementi tali da far ritenere l’attualità della appartenenza alla criminalità organizzata o eversiva, ha elevato le soglie minime di pena espiata che devono sussistere per integrare l’ammissibilità della concessione dei benefici e delle misure alternative alla detenzione ( espiazione di almeno metà della pena per i permessi premio; di almeno due terzi della pena per la semilibertà, di almeno un terzo della pena per il lavoro all’esterno del carcere).

            Su tale fattispecie, il riconoscimento della qualità di collaborante ai sensi dell’art. 58 ter O.P. opera non quale condizione di ammissibilità e, insieme, di esclusione dei maggiori limiti di pena secondo il meccanismo di cui al primo comma,  bensì con l’effetto di escludere, per il collaboratore, l’applicazione degli indicati parametri normativi di penalizzazione nell’accesso ai benefici penitenziari[12].

            Il secondo pilastro della disciplina organica sui collaboratori di giustizia era rappresentato, nella normativa antecedente all’entrata in vigore della legge n. 45/01, dal complesso disposto degli artt. 8 del D.L. n. 152/91 e dall’art. 13 ter della L. 82/91.

            Alla luce di tale normativa, il carattere premiale delle disposizioni in favore di chi collabora con la giustizia assumeva una connotazione marcatamente incentivante, che supera il concetto di “premialità in negativo”, proprio della norma dell’art. 58 ter sopra esaminata.

Quest’ultima disposizione, infatti, funzionava ( e funziona tuttora) quale ponte permanente tra il regime di rigore di cui all’art. 4 bis O.P. e il regime ordinario, applicabile alla generalità dei detenuti “comuni”, consentendo il passaggio, nei casi previsti, all’applicazione di quest’ultimo anche ai condannati ai sensi della norma di sfavore.

 La normativa di cui alla L. 82/91 era (ed in parte è tuttora) finalizzata a creare un canale privilegiato di accesso alle misure alternative alla detenzione per i  collaboratori di giustizia, assicurando altresì un compendio di sussidi e misure di protezione al soggetto collaborante ed ai suoi familiari: il tutto nell’ottica di favorire quanto più possibile  le collaborazioni attraverso un sistema di “premialità in positivo”  che, attraverso deroghe alla normativa ordinaria e attribuzione di utilità economiche o di altro tipo, rappresentava lo sforzo massimo dello Stato nei confronti dei collaboranti, compatibile con il mantenimento dello stato di diritto[13] .

            Sotto il profilo descrittivo della natura della collaborazione rilevante, la L. 82/91 non offriva, anteriormente alle modifiche introdotte con la L. 45/01, una specifica definizione delle condotte collaborative né delineava altrimenti le caratteristiche del soggetto collaborante, che pertanto dovevano ricavarsi dal complesso normativo preesistente del diritto sostanziale, laddove quest’ultimo tratteggia le condotte collaborative in presenza delle quali l’ordinamento prevede la concessione di specifiche attenuanti speciali ( v. supra ): si tratta, quindi, dello stesso modello di collaboratore presupposto dall’art. 58 ter O.P. .

Unica differenza rilevante rispetto a detta disposizione, consisteva nella limitazione delle condotte collaborative, idonee a far scattare le misure di favore, a quelle riferibili a delitti inseriti nel disposto dell’art. 380 c.p.p.  .

            L’adozione delle sistema di protezione ed assistenza del collaboratore era adottata da un’apposita Commissione centrale, costituita presso il Ministero dell’interno, di concerto con il competente Procuratore della Repubblica, cui spettava l’iniziativa della richiesta delle misure tutorie ovvero di interloquire con il proprio parere in ordine alla proposta del programma di protezione, previa l’eventuale attivazione di misure indifferibili nelle more della definizione del programma, da parte del Capo della polizia.

            Il domicilio legale, anche ai fini processuali, dei collaboratori sottoposti allo speciale programma di protezione era normativamente fissato per tutti in Roma, presso la Commissione centrale. 

             L’ammissione allo speciale programma di protezione comportava per il collaborante una serie articolata di concrete utilità:

misure di protezione nei confronti propri e del nucleo familiare;

sussidi economici;

accesso alle misure alternative a prescindere dai limiti di pena, della pena già eventualmente scontata e dalla natura e gravità dei delitti commessi;

non operatività delle preclusioni di cui agli artt. 4 bis e 58 quater O.P.;

non necessarietà di un autonomo accertamento giurisdizionale della qualità di collaboratore (quindi, non applicazione delle “griglie” di valutazione dell’art. 58 ter O.P.) ai fini dell’ammissione ai benefici penitenziari.

 

La giurisprudenza di legittimità aveva, da parte sua, chiarito la portata derogatoria della normativa di favore, limitandone l’incidenza ai parametri legali (limite pena, presupposti legali previsti dall’ordinamento penitenziario, etc.), senza dunque intaccare il margine di apprezzamento discrezionale attribuito al tribunale di sorveglianza, chiamato pur sempre a verificare la “meritevolezza” dell’interessato ai fini della concessione della misura alternativa[14]; nonché ponendo un argine allo snaturamento completo delle misure stesse, censurando la concessione di misure disancorate dai criteri e dalle condizioni normativamente previste (es. la gravità condizioni di salute o la presenza di figli minori degli anni dieci in rapporto alla concedibilità della detenzione domiciliare)[15] .

La prassi giurisprudenziale elaborò, in relazione all’applicaizone della normativa di favore di cui all’art. 13 ter L.82/91, criteri ed elementi di valutazione pretori, a fronte dei quali il tribunale di sorveglianza era tenuto a vagliare  la concedibilità delle misure .alternative ai  titolari dello speciale programma di protezione: gravità reato, entità della condanna subita, condotta successiva al delitto , eventuale revisione critica, etc[16].

Ulteriore caratterizzazione del peculiare sistema della L. 82/91 era  la corrispondenza biunivoca intercorrente tra il programma di protezione (e la sua attualità al momento della decisione del tribunale di sorveglianza) e l’applicabilità dei benefici penitenziari di cui all’art.13 ter della legge citata e delle conseguenti deroghe alla normativa ordinaria in tema di concessione di benefici.[17].

Tale indissolubile connessione portava a configurare l’attualità del programma di protezione quale condicio sine qua non al fine di far scattare i meccanismi premiali e la concessione dei benefici penitenziari in deroga alla normativa vigente: tanto che la giurisprudenza prevalente della Cassazione si era orentata a ritenere che anche la mera cessazione, rinuncia o revoca incolpevole del programma comportasse non soltanto la preclusione della possibilità di concessione di misure alternative secondo la disciplina di favore ma altresì, comportasse la revoca di quelle già eventualmente concesse e in corso al momento della caducazione del programma[18].

Assai controversa era poi la soluzione al problema dell’applicabilità del regime di favore a familiari e parenti del collaborante, sottoposti al pericolo di ritorsioni (c.d. “vendette trasversali”) a causa della collaborazione del congiunto[19].

Nel quadro della normativa previgente, un peculiare ruolo assumeva la ricordata Commissione centrale istituita presso il Ministero dell’interno con il compito primario di provvedere all’adozione dello speciale programma di protezione: esso non implicava tuttavia  soltanto la mera attivazione di provvedimenti tutori di polizia o di carattere economico, ma  costituiva altresì  il presupposto necessario e, in larga misura, condizionante la decisione dell’organo giurisdizionale chiamato a vagliare la concedibilità dei benefici penitenziari richiesti dal collaborante.

La rilevata “ingerenza” dell’organo amministrativo nella sfera di apprezzamento riservata all’autorità giudiziaria era ancor più accentuata nel momento processuale, laddove era fatto obbligo al tribunale di sorveglianza di inteloquire con la Commissione centrale, con obbligo per il tribunale di sorveglianza di motivare espressamente l’eventuale decisione che si discostasse dalla linea suggerita dal parere formulato dalla Commissione stessa ed acquisito agli atti del procedimento di sorveglianza.

In dottrina non si è mancato di rilevare come tale sinergia tra organi espressione della politica e tribunali di sorveglianza  fosse stata concepita alla luce della delicatezza delle scelte sottese alla concessione di misure alternative al carcere, che in larga parte avevano l’effetto di rendere quantomai evanescente, nella disincantata e pragmatica ottica contrattualistica che animava le disposizioni della L. 82/91, la pretesa punitiva dello Stato. 

 

 

3. La legge  n.45/01 interviene in modo profondo sull’impianto normativo previgente sopra sinteticamente descritto ( pur senza prescinderne del tutto) e può essere considerato il secondo  tentativo del legislatore – dopo la stagione delle riforme del 1991-92 – di introdurre una disciplina organica, di sistema, della normativa sui  collaboratori di giustizia.

In via di prima approssimazione, e premessa l’illustrazione sopra compiuta della normativa previgente, è d’immediata percezione la precisione “chirurgica” con cui la nuova legge ha inciso nella materia: lasciando intatto il primo pilastro della legislazione del 1991 (cioè, in particolare, le disposizioni dell’art. 58 ter O.P., sulle quali si è operato una limatura formale, precisando  che il riconoscimento della avvenuta collaborazione con la giustizia ai sensi della norma citata abbatte i limiti di pena posti dal precedente art. 4 bis dell’O.P., lasciando dunque intatta la c.d. “premialità in negativo” della scelta collaborativa) mentre riformula completamente l’impostazione del secondo pilastro della vechia disciplina, costituito dalla “premialità in positivo” delle norme della L. 82/91 (in particolare, per quanto concerne i benefici penitenziari, delle disposizioni dell’art. 13 ter L. 82 citata).

Nell’indicata prospettiva riformatrice, i principi ispiratori della L. 45/01 possono essere individuati:

nella netta distinzione tra il profilo premiale e l’aspetto tutorio;

nella modulazione normativa che favorisca la selezione qualitativa delle collaborazioni;

nella gestione processualee penitenziaria  trasparente delle collaborazioni avviate.

 

Sotto il primo profilo considerato, la nuova legge rimuove il nesso di immancabile corrispondenza tra la prestazione della collaborazione - con predisposizione dello speciale programma di protezione - e l’accesso (rectius:l’aspettativa di accedere) alle misure alternative alla detenzione anche in deroga alle vigenti disposizioni dell’ordinamento penitenziario.

Era questa, invero, la portata sostanziale del contenuto precettivo della norma contenuta nell’art.  13 ter della L. 82/91, che viene abrogato.

Il  suo posto, è preso ora, nella L. 82/91, dall’art. 16 nonies, introdotto dalla L. 45/01, che disciplina l’accesso ai benefici penitenziari per coloro che collaborano con la giustizia in termini che non contemplano tra i presupposti essenziali per la concessione dei benefici la titolarità (e attualità) del programma di protezione e le esigenze di tutela del collaborante e dei suoi congiunti.

La premialità del sistema, connessa, nel vigore della vecchia disciplina, alla sussistenza dello speciale programma di protezione, a sua volta presupponente l’attualità del rischio collegato al profilo qualitativo della collaborazione; viene ora ricollegata in via esclusiva alla valutazione della qualtà e importanza oggettiva dell’apporto collaborativo del dichiarante, mentre l’aspetto della tutela è ricondotto all’alveo suo proprio della valutazione esclusiva dell’eventuale (ma non scontato) profilo di rischio che il collaborante affronta in conseguenza della scelta processuale compiuta.

Sotto l’aspetto della tutela, in particolare, la nuova legge individua due livelli di attenzione gradatamente crescente in rapporto all’accertamento di un concreto pericolo tale da rendere indispensabile l’adozione di misure extra ordinem (cfr. artt. 9 e 13 L. 82/91, novellati dalla L. 45/01).

Il primo livello è quello ordinario, consistente nelle “misure speciali di sicurezza” che possono esere adottate dall’autorità di P.S.(trasferimento in comuni diversi da quello di residenza, adozioni di particolari misure tutorie) ovvero – in caso di persone detenute- dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (es. assegnazione alla sezione “ristrutturate” per collaboratori di giustizia, ubicazione in camera di sicurezza singola, etc.).

Qualora il pericolo per l’incolumità del collaborante non sia adeguatamente fronteggiabile con le misure di primo livello  sopra descritte, può essere fatto ricorso – quale extrema ratio – alla predisposizione di un “programma “ di protezione: che, nella sostanza, ricalca i contenuti del collaudato “speciale programma di protezione” della L. 82/91 (trasferimento in località protetta, assegnazioni economiche, cambio di generalità, etc.).

L’accesso al programma di protezione è valutato dalla Commissione istituita presso il Ministero dell’interno (art. 10 L. 82/91), che viene investita su proposta dei Procuratori della Repubblica o del Capo della polizia, e tiene conto del parere formulato dal Procuratore Nazionale Antimafia (se si tratta di delitti di criminalità organizzata)  o del Procuratore Generale presso la Corte d’appello competente (qualora si proceda per reati di terrorismo o eversione).

La sottoscrizione del programma importa l’accettazione degli obblighi connessi e la fissazione del domicilio legale in Roma, presso la Commissione (art. 12 comma 3 bis)[20].

L’art. 13 L. 82/91 riformulato dalla L. 45/01 disciplina in dettaglio presupposti, modalità esecutive, modifica e revoca delle speciali misure di protezione.

Come è stato a ragione osservato[21], gli interventi di riforma sopra brevemente tratteggiati hanno contribuito a rimuovere dalla normativa premiale in esame un profilo distonico rispetto all’esigenza costituzionalmente prevista che la pena (e dunque le sue concrete modalità di espiazione) siano orientate alla rieducazione del reo.

Nella  disciplina previgente, come si è già osservato, l’accesso ai benefici penitenziari era subordinato - e fortemente condizionato, anche nella fase decisioria di competenza della magistratura - dalle determinazioni adottate dall’autorità amministrativa (la Commissione competente a decidere sulla concessione dello speciale programma di protezione), poiché la sussistenza o meno del programma costituiva la condicio sine qua non del possibile accesso alle premialità previste dalla legge.

Ora il sistema appare in certo modo più razionale, atteso che la decisione sui benefici penitenziari in rapporto alle esigenze retributive e rieducative del   caso concreto è sottratta alla pesante ipoteca della sussistenza, o no, dello speciale programma di protezione.

Esso  viene reindirizzato, da elemento di valutazione per l’accesso ai benefici penitenziari da parte del collaboratore,  alle finalità di tutela sue proprie, ed attivato soltanto in rispondenza a quelle esigenze di protezione che nel caso concreto sono ritenute sussistere.

Ciò che viene rescisso è, in altri termini, l’intersecazione tra il profilo amministrativo di polizia (concerente l’aspetto della protezione della persona del collaborante e dei suoi congiunti) e quello giudiziario, connesso alla valutazione della complessiva posizione processuale del collaborante in relazione alla concessione dei benefici penitenziari.

            Il secondo aspetto di novità della riforma concerne il profilo ontologico della figura del collaboratore di gustizia, che viene maggiormente definito, circoscrivendo il perimetro delle collaborazioni rilevanti ai fini delle premialità previte dalla legge, nell’ottica dichiarata di una maggiore selezione qualitativa dei collaboranti.

            Le caratteristiche che la collaborazione deve rivestire per essere rilevante ai fini della L.82/91, così come modificata dalla L. 45/01 sono le seguenti:

importanza delle dichiarazioni: detto requisito è valutato sulla base della completezza, attendibilità e novità delle dichiarazioni rese (art. 9, L. 82/91);

tempestività e genuinità delle dichiarazioni: congruenti con tali caratteristiche sono le disposizioni introdotte dalla L. 45/01 che introduce la regola dell’ordinarietà della detenzione (salvo il caso di concessione di benefici penitenziari o di revoca della misura cautelare) con previsione antitetica a quanto disponeva l’abrogato art. 13 bis della L. 82/91; quelle che prescrivono particolari modalità di custodia e trattamento penitenziario dei soggetti che abbiano manifestato la volontà di collaborare, allo scopo di evitare che la genuinità del materiale delle future dichiarazioni possa essere inquinato da accordi e previe concertazioni con altri dichiaranti; l’onere per il collaboratore di dichiarare i fatti di maggiore gravità di cui è a cononscenza nonché la consistenza e ubicazione dei beni che costituiscono il frutto degli illeciti nel termine perentorio di 180 giorni (tali dichiarazioni vengono raccolte nel verbale illustrativo della collaborazione di cui al nuovo art. 16 quater introdotto dalla L. 45/01);

attinenza delle dichiarazioni a fatti-reato indicati tassativamente dal legislatore (si tratta dei reati finalizzati al terrorismo o all’eversione;i delitti di cui all’art. 51, comma 3 bis, c.p.p. . In tal modo vede la luce una figura più precisamente definita - anche se in termini restrittivi rispetto al passato – di collaboratore di giustizia, che trova nella legge di settore e non più nel riferimento recettizio a fonti esterne (quali il codice penale o le leggi speciali) la sua identificazione.

 

Il terzo profilo di novità che caratterizza la riforma attiene alla gestione del momento processuale e esecutivo della posizione giuridica dei collaboratori.

Con riferimento a tale ultimo aspetto, il legislatore del 2001 ha posto –introducendo l’art. 16 nonies  citato, una serie di limitazioni e filtri alla possibilità di concedere i benefici penitenziari di cui alla L. 354/75 ai collaboratori di giustizia.

 I profili maggiormente qualificanti la nuova disicplina dell’accesso ai brenefici pentienziari da parte dei collaboratori di giustizia sono i  seguenti:

- contrazione delle tipologie di benefici concedibili, limitati ai permessi-premio, alla detenzione domiciliare ed alla liberazione condizionale;

- possibilità di concessione dei predetti benefici soltanto a soggetti che rispondano ai requisiti di collaboratori “rilevanti” esaminati al paragrafo precedente; per i quali non si ravvisi l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva; che abbiano maturato il ravvedimento per i delitti commessi; la pronuncia della sentenza di primo grado se la collaborazione involge fatti diversi da quelli oggetto della condanna in esecuzione; l’espiazione di almeno un quarto di pena (ovvero di dieci anni per l’ergastolano) prima dell’ammissione alle due misure alternative previste.

 

 

Appare evidente la contrazione della premialità insita nel nuovo dettato legislativo: essa si estrinseca non soltanto nella drastica limitazione della tipologia di benefici penitenziari concedibili, ma altresì nella previsione, innovativa rispetto alla disciplina previgente, di una serie di requisiti – quali sopra illustrati – la cui ratio non attiene a quei profili di finalizzazione rieducativa propri degli istituti noti del diritto penitenziario, ma che rispondono all’esigenza, avvertita dal legislatore, di ricalibrare la portata delle premialità concesse dall’ordinamento a chi si è macchiato di delitti di notevole allarme.

Indubbiamente, la L.45/01 risente, sotto l’aspetto considerato, del del mutato sentire sociale sul problema del bilanciamento dei valori, parzialmente confliggenti, dell’effettività della pena e dell’incentivo alle collaborazioni con la giustizia in considerazione delle utilità che, ai fini investigativi e processuali, possono derivare dalle dichiarazioni dei c.d. “pentiti”.

Paradigmatico di tale nuova politica legislativa è certamente l’inserzione, tra i presupposti che il giudice deve valutare ai fini della concessione dei benefici penitenziari, del requisito dell’avvenuto ravvedimento del condannato ai fini della concessione anche del beneficio minimale costituito dal permesso-premio (art. 16 nonies cit.).

            Com’è noto detto elemento era in precedenza richiesto soltanto per la concessione della liberazione condizionale (art.176 c.p.), ma si tratta della massima premialità concedibile , a legislazione vigente,  al condannato.

Nella consolidata esperienza applicativa, inoltre, tale beneficio viene solitamente accordato in prossimità del fine pena, in rapporto ed a riconoscimento di un percorso rieducativo maturato e consolidatosi nel corso di un prolungato periodo di osservazione della personalità condotta nell’istituto penitenziario ed in seguito alla graduale sperimentazione del condannato attraverso l’esperienza dei permessi premio, del lavoro all’esterno o di misure alternative alla detenzione.

Se la previsione normativa in esame può dunque avere senso in un’ottica restrittiva dell’area della premialità e particolarmente  attenta alle esigenze di prevenzione e dell’effettività dell’esecuzione della pena; essa manca, tuttavia, di coerenza sistematica, per i motivi sopra detti, in raffronto agli  istituti rieducativi del diritto penitenziario .

Tuttavia, sotto una diversa visuale, non può non valere la considerazione che – sotto il profilo strettamente rieducativo – la previgente disicplina si discostava forse ancor in maggior misura, attesa l’ottica pragmaticamente “mercantilistica” della L.82/91, dalla dovuta considerazione del principio rieducativo costituzionalmente imposto da ogni esecuzione di pena.

Infatti, la l. 82/91 si muoveva in un’ottica “contrattualistica” rispetto all’incentivo delle collaborazioni, rinunciando – con una certa dose di cinismo -  ad ogni pretesa di effettivo pentimento del collaborante, collegando la premialità  unicamente alla volontà esteriormente manifestata dal soggetto di collaborare con la giustizia.

La nuova legge esige invece il pentimento, cioè il ravvedimento del reo.

 Il punto di sofferenza con i principi e la sistematica degli isituti del diritto penitenziario risiede piuttosto nel fatto che la nuova disciplina  impone il  requisito del pentimento  anche per l’accesso a forme di benefici (permessi-premio e detenzione domiciliare) che, per consolidata giurisprudenza della Cassazione, non presuppongono affatto l’avvenuto ravvedimento del condannato, ma postulano soltanto l’accertata sussistenza di un grado di peicolosità sociale residuale compatibile con la sperimentazione del detenuto nell’ambiente libero.  

La nuova disciplina immette poi un tasso di maggior severità nella previsione delle fattispecie di revoca  delle misure tanto premiali (art. 16 nonies, comma 7) quanto tutorie (art. 13 quater, comma 2).

  Si tratta di  condotte colpevoli del collaboratore, quali l’inosservanza degli impegni assunti dal collaborante[22],la recidiva in ipotesi delittuose indicative del reinserimento del soggetto nel contesto criminale, ovvero la revisione delle sentenze che hanno riconosciuto le attenuanti correlate alla collaborazione in forza dell’accertata falsità o reticenza delle dichiarazioni fornite dal soggetto[23].

Del tutto inedita è la previsione della revoca dei benefici penitenziari concessi in caso di revisione della sentenza qualora il collaborante abbia, nei dieci anni successivi al passaggio in giudicato del titolo, commesso un nuovo delitto di cui all’art. 380 c.p.p. .

In tal caso il Procuratore generale, cui spetta l’iniziativa della revisione, informa il giudice di sorveglianza competenti a provvedere sulla revoca dei benefici.

Nelle ipotesi di revoca dei benefici penitenziari, il provvedimento emesso nella fase cautelare ,ai sensi dell’art. 51 ter O.P., dal magistrato di sorveglianza mantiene efficacia per il doppio del tempo ordinario (cioè per sessanta giorni anziché per il termine ordinario di trenta giorni previsto dalla norma citata).  

La nuova disciplina modifica, inoltre, il ruolo degli organi che, a vario titolo, concorrono nelle fasi procedimentali e processuali relative alla concessione dei benefici penitenziari ai collaboratori.

Anzitutto, la Commissione centrale perde la posizione di consulente privilegiato del tribunale di sorveglianza, e ciò in conseguenza dell’avvenuta rescissione del legame necessitato tra sussistenza dello speciale programma di protezione e possibilità di accesso alle premialità penitenziarie.

La nuova legge esalta, sotto il profilo indicato, il ruolo consultivo della Procura nazionale antimafia (se il collaboratore ha commesso reati rientranti nell’art. 51 comma 3 bis c.p.p.) ovvero, nei casi di condanne per reati di eversione o terrorismo, dei Procuratori generali territorialmente competenti.

Ulteriore elemento differenziatore rispetto alla previgente disciplina consiste nella circostanza che la compulsione del PNA o dei PG  deve intervenire a prescindere dalla circostanza che il beneficio in discussione avanti al giudice di sorveglianza (permesso premio, detenzione domiciliare o liberazione condizionale) debba essere eventualmente concesso in deroga alle disposizioni dell’ordinamento penitenziario.

La valorizzazione dell’organo inquirente nella descritta fase esecutiva è completata dalla previsione che le medesime autorità possano proporre il collaboratore per l’accesso agli indicati benefici.

Accanto all’istanza di parte, pertanto, si affianca la possibile iniziativa dell’organo requirente, con previsione che costituisce un unicum nel panorama del diritto penitenziario e che certamente non è riprodotta in rapporto ai procedimenti relativi a detenuti “comuni”.

La proposta o il parere dell’organo inquirente dovrà contenere i seguenti elementi (art. 16 nonies, comma 2 e 3):

illustrazione delle caratteristiche della collaborazione (con allegazione del verbale illustrativo della collaborazione e degli eventuali provvedimenti di applicazione delle misure tutorie);

valutazione del profilo di pericolosità sociale attuale del soggetto, con riferimento all’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata e ad ogni altro elemento idoneo a riscontrare l’intervenuto ravvedimento del condannato.

 

Contraltare a siffatto impegnativo onere istruttorio posto in capo all’organo requirente è l’obbligo di motivazione specifica imposto al giudice di sorveglianza che, discostandosi dal parere sfavorevole del PNA o del PG, conceda il beneficio penitenziario richiesto.

La nuova legge disciplina altresì diversamente rispetto al passato il riparto di competenza territoriale fra il tribunale di sorveglianza di Roma e gli altri  tribunali di sorveglianza: il primo rimane competente in via esclusiva per i procedimenti inerenti la concessione o revoca dei benefici penitenziari a collaboratori sottoposti a misure tutorie o al programma di protezione[24].

Per i collaboratori che non beneficiano di misure speciali, la competenza è incardinata secondo le regole ordinarie (art. 677 c.p.p.) presso i tribunali di sorveglianza distrettuali territorialmente  competenti in rapporto all’ubicazione dell’interessato.

 

4. La legge 45/01 contiene una specifica norma (art. 25) dedicata alla  disciplina transitoria.

 Tuttavia, l’articolo in questione sembra risolvere soltanto in parte l’orizzonte delle delicate questioni interpretative  collegate al trapasso dalla cornice normativa previgente all’attuale disciplina delle collaborazioni.

Tale ravvisata insufficienza della normativa transitoria deriva soltanto in parte da carenze nel drafting legislativo, essendo in realtà  piuttosto la conseguenza della dichiarata volontà del legislatore, esplicitata dalla Relazione alla legge, di evitare di appesantire la legge con una dettagliata regolamentazione del diritto transitorio, poiché nella materia sarebbero stati applicati i consolidati principi ricavabili dal codice penale (in rapporto alla successione delle leggi di sostanza nel tempo) ovvero, con più specifico riferimento all’ambito penitenziario, dalla Corte Costituzionale in ordine all’irreversibilità della progressione trattamentale già conseguita dal condannato in assenza di condotte colpevoli e dell’irretroattività delle norme di diritto penitenziairo più sfavorevoli nei confronti dei soggetti già ammessi al godimento dei benefici nella vigenza delle norme più favorevoli.

L’art.25 della legge 45/01 sancisce che le nuove regole in materia di collaborazione con la giustizia si applicano a tutti coloro che hanno già manifestato la volontà di collaborare prima dell’entrata in vigore della nuova legge, purché, nel termine di 180 giorni da tale data sia redatto il verbale riassuntivo della collaborazione (previsto dal già citato art. 16 quater).

Per tale fascia di condannati, la collaborazione può involgere l’intera gamma dei delitti indicati nell’art. 380 c.p.p., non essendo limitata dalle previsioni restrittive introdotte con la riforma (che restringe la tipologia dei reati per i quali è applicabile la legge 45/01 a quelli previsti dall’art. 51 comma 3 bis c.p.p.).

La questione interpretativa che la norma transitoria immediatamente schiude concerne l’individuazione del soggetto cui si applicherà la nuova legge per effetto della sua manifestata volontà di collaborare anteriormente all’entrata in vigore della l. 45/01.

Allo stato attuale della elaborazione giurisprudenziale non può dirsi affermato un indirizzo unitario dominante in ordine al problema, tuttavia pare prevalere la tesi che per “persone che hanno manifestato la volontà di collaborare” devono intendersi  anche coloro che, pur senza avere ottenuto l’ufficializzazione dello status di collaboratore, abbiano, alla data di entrata in vigore della legge 45/01, già tenuto condotte – processuali ovvero esterne a procedimenti in corso -  ogettivamente configurabili come collaborative.

Si tratterebbe, in altri termini, di estendere l’applicazione della nuova disciplina – sia pure temperata dalla sopra vista eccezione di cui all’art.25, comma 3, citato, a tutti i soggetti che, sia pure non formalmente dichiarati tali, nei fatti abbiano già maturato al 25.3.01 le caratteristiche oggettive tali da renderli identificabili quali collaboratori di giustizia, anche se non già sottoposti a speciale programma di protezione.

Di maggiore problematicità appare la ricostruzione della disciplina transitoria concernenteil novero dei “vecchi collaboratori”  (cioè i soggetti già “consacrati” dall’attribuzione del programma di protezione alla data di entrata in vigore della nuova normativa).

In proposito, è opportuno richiamare sinteticamente le regole ermeneutiche applicabili.

Anzitutto, occorre precisare la summa divisio interocorrente tra normativa di carattere procedurale o amministrativo e disposizioni di carattere penale-sostanziale.

Per quanto attiene all’applicazione delle prime, prevale il principio intepretativo del tempus regit actum, di tal che le nuove norme procedurali introdotte dalla l. 45/01 troveranno immediata applicazione ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della legge.

Con riferimento alla normativa di carattere sostanziale, vale com’ è noto il diverso principio dell’irretroattività della legge penale più sfavorevole al reo, ai sensi del disposto dell’art. 25, comma 2, Cost. e art. 2 c.p. .

Tale criterio interpretativo risulta pienamente applicabile agli istituti del diritto penitenziario – ed in particolare alla materia dei benefici penitenziari – alla luce della ormai consolidata giurisprudenza costituzionale secondo la quale norme penali sostanziali, come tali soggette al principio sopra richiamato, non sono soltanto le norme penali incriminatrici, bensì anche tutte le disposizioni che connotano l’esecuzione della pena, concorrendo a strutturarne durata e concrete modalità espiative.  

 Ciò posto, e considerato che – almeno in linea generale – la legge n. 45/01 introduce norme peggiorative dello status dei collaboratori di giustizia, ne consegue che, in applicazione dei ricordati canoni ermeneutici, i “vecchi collaboratori” che già hanno titolo per fruire dei benefici penitenziari ai sensi della l. 82/91, non dovrebbero risentire dell’applicazione della nuova disciplina, quantomeno per ciò che concerne le disposizioni peggiorative, e ciò anche nell’ottica, armonica con le finalità premiali della normativa sui collaboratori di giustizia, di non frustrare l’aspettativa di chi è stato indotto a collaborare con la giustizia con l’aspettativa di accedere ai benefici penitenziari previsti dalla normativa previgente .

Allo stesso modo, ai sensi dell’art. 2 c.p., ai “vecchi collaboratori” in virtù del  principio del favor rei si applicheranno  le disposizioni più favorevoli della l. 45/01.

Esemplificativamente, alle “vecchie collaborazioni” si applicherà subito la nuova disciplina della liberazione condizionale  (misura non prevista dalla l. 82/91).

 

 

5. Allo stato attuale, a circa due anni dall’entrata in vigore della nuova legge, risulta massimata un’unica pronuncia di legittimità  che riguarda gli istituti introdotti dalla riforma della disciplina delle collaborazioni con la giustizia.

Si tratta della sentenza della Cassazione, I sezione, n. 30740 del 13.9.02 (RV 222185), con la quale la Suprema Corte risolve il conflitto di competenza insorto tra il tribunale di sorveglianza di Roma ed altro tribunale di sorveglianza distrettuale in rapporto all’istanza di  ammissione a misure alternative alla detenzione di condannato ammesso non a  speciale  programma,  ma  solo a misure urgenti di protezione adottate dal Capo  della  polizia.

La sentenza attribuisce al tribunale capitolino la competenza a decidere in quanto l'interessato, destinatario delle citate misure urgenti di protezione, domicilia di fatto, indipendentemente  da una formale elezione di domicilio, presso il Servizio centrale di protezione, che ha sede a Roma.

Più articolata e ricca di spunti, com’è del resto naturale tenuto conto della attuale fase di prima applicazione della disciplina introdotta dalla l. 45/01, è la giurisprudenza di merito dei tribunali di sorveglianza, che ha affrontato sotto molteplici aspetti i profili applicativi della normativa di nuova introduzione.

I profili di maggiore interesse sotto il profilo dell’esegesi della normativa e della sua pratica applicazione, possono essere sintetizzati nei seguenti termini:

 

 

1) problema di diritto transitorio connesso alla possibilità, per i soggetti già ammessi allo speciale programma di protezione sotto la vigenza della L.82/91, non più rinnovato per ritenuto venir meno delle esigenze di tutela, di essere ammessi alle misure alternative previste dalla L. 45/01 per i collaboratori di giustizia ai sensi del novellato art. 16 nonies L.82/91.

Emblematico, a tal proposito, il caso di un condannato che aveva prestato la propria attività di collaborazione in realzione a delitti diversi da quelli previsti dalla norma citata (terrorismo o eversione dell’ordinamento costituzionale, delitti previsti dall’art. 51 comma 3 bis c.p.p.), di tal che l’ammissione ai benefici previsti dalla nuona normativa avrebbe potuto ammettersi soltanto ai sensi della disciplina transitoria di cui all’art.25, comma 3, L.45/01.

La norma transitoria poteva in effetti interpretarsi tanto in senso logico-sistematico (ritenendo cioè che la disposizione si limiti “a richiamare in vita i presupposti che già disciplinavano l’ammissione dei collaboratori di giustizia ai benefici”) quanto in senso più strettamente letterale (valorizzando il tenore della norma in esame che estende l’efficacia della nuova legge a quanti “hanno manifestato la volontà di collaborare” alla data di entrata in vigore della riforma).

Mentre l’adesione alla prima opzione interpretativa conduce alla conclusione che l’ammissione ai benefici penitenziari continua ad essere subordinata – anche nella vigenza della L. 45/01 – all’attualità del programma di protezione; la seconda linea ermeneutica consente di estendere le disposizioni più favorevoli della nuova disciplina anche ai soggetti che hanno collaborato con la giustizia pur in rapporto a delitti non contemplati dall’art. 16 nonies L.82/91, bensì in relazione alla più ampia gamma di delitti prevista dall’art. 380 c.p..p. (richiamato quale discrimine per le attività collaborative rilevanti dalla norma di diritto transitorio dell’art.25 L. 45/01 citata).

Alcune pronunce dei tribunali di sorveglianza hanno ritenuto di accogliere tale ultima soluzione, tenuto conto che l’altra prospettazione avrebbe avuto l’effetto, inaccettabile sotto il profilo della corretta esegesi del  dettato normativo, di (re)introdurre in via interpretativa un presupposto per l’ammissione ai benefici penitenziari (l’attualità del programma di protezione) non (più) espressamente previsto dalla legge, essendo stato abrogato l’art. 13 ter della L. 82/91[25];

2) problema di diritto transitorio relativo all’ultrattività dell’abrogata disciplina (art.13 ter L.82/91) in rapporto a condannati che, al momento dell’entrata in vigore della L. 45/01, fossero sottoposti allo speciale programma di protezione .

Una serie di pronunce ha ritenuto applicabile la vecchia normativa a tutti coloro che, al momento dell’introduzione della nuova e più restrittiva disciplina, avessero già maturato le condizioni per essere ammesse al trattamento più favorevole contemplato dall’art. 13 ter L. 82/91, poiché in possesso dei requisiti oggettivi e soggettivi  per l’ammissione ai benefici penitenziari.

Si è nella specie ravvisato un contrasto con i principi costituzionali di cui agli artt. 3, 25 comma 2 e 27 della Costituzione qualora al soggetto che ha prestato la propria collaborazione ed abbia maturato i requisiti per la concessione dei benefici nella vigenza della disciplina non più vigente si applicasse la più rigorosa disciplina dell’art. 16 nonies soltanto in ragione della circostanza che, per cause estrinseche alla volontà del collaborante, la decisione sull’applicazione delle misure alternative non sia intervenuta al momento del subentro della nuova regolazione della materia[26].

Tale eventualità configurerebbe, secondo la giurisprudenza citata, una palese disparità di trattamento con quanti avessero ottenuto la concessione dei benefici penitenziari prima dell’introduzione della L. 45/01 .

3)tipologia di benefici penitenziari concedibili ai collaboratori di giustizia ai sensi dell’art. 16 nonies L. 82/91: un orientamento di merito.  esclude in radice che per i collaboratori di giustizia sia consentita l’ammissione alla misura dell’affidamento in prova al servizio sociale ai sensi dell’art. 47 O.P.: che “risulta istituto completamente abrogato per i collaboratori”[27]. ;

4) natura della detenzione domiciliare prevista dall’art.16 nonies della L. 82/91.

Secondo alcune pronunce, si tratterebbe di un nuovo tipo di misura alternativa: dunque “speciale” e non riconducibile alle species già presenti nell’ordinamento penitenziario, ed in particolare non sussumibile nell’istituto applicabile in alternativa ed in assenza dei presupposti di cui all’art. 47 ter comma 1 O.P. .

Tale assunto appare conseguenza logica della ritenuta esclusione della misura dell’affidamento da quelle applicabili, ai sensi dell’art. 16 nonies, ai collaboratori di giustizia .

5)problema connesso all’individuazione della normativa più favorevole al reo, al fine della sua applicazione ai sensi dell’art.2 c.p. e 25 Cost., nel caso di soggetto che abbia ottenuto la declaratoria di cui all’art. 58 ter O.P. ma non l’ammissione allo speciale programma previsto dall’abrogato art.13 ter L. 82/91.

E’ stata ritenuta applicabile la norma di cui all’art. 16 nonies introdotto dalla L. 45/01 poiché nella fattispecie l’unica in grado di consentire – tenuto conto del lontano fine-pena del soggetto -  l’applicazione della misura alternativa della detenzione domiciliare.

In proposito, il tribunale non ha ritenuto necessaria l’acquisizione del verbale illustrativo della collaborazione, trattandosi di soggetto la cui collaborazione si era completata anteriormente all’entrata in vigore della L. 45/01, e la cui importanza ai fini dell’accertamento dei fatti-reato commessi era già stata accertata con il procedimento culminato nell’accertamento dell’avvenuta collaborazione con la giustizia ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 58 ter O.P. [28].

 

 

 

Fabio Fiorentin                                                              

 


Note:

[1] L’incidenza della L.45/01 sul sistema del diritto premiale, in particolare con riferimento alla disciplina concernente i collaboratori di giustizia, è apparsa fin dalla sua prima applicazione, di determinante rilevanza dell’operare una drastica inversione nella politica legislativa coerentemente seguita fino a quel momento dal legislatore. Efficacemente, autorevole dottrina che si è occupata della nuova normativa, evidenzia la “ caduta del tasso di premialità dell’ordinamento: la species, invero costosa, del collaboratore di giustizia cede il passo alla razza, decisamente a buon mercato, dell’imputato trasformato in testimone attraverso la coazione”: cfr. Bernasconi A.,”La riforma della legge sui collaboratori di giustizia: profili genrali e intersezioni con le tematiche del “giusto processo”,2001, p.77.

[2] Comunemente si individua una triplice tipologia di istituti premiali, caratterizzati dalla scansione procedurale e cronologica dello svolgersi fisiologico del procedimento penale: premialità investigativa, premialità processuale, premialità esecutiva (o meglio, penitenziaria).

[3] L’emergenza ha, da sempre, caratterizzato l’andamento “a fisarmonica” della politica legislativa in materia di benefici penitenziari. Nella seconda metà degli anni ‘70 a causa dell’insorgere del fenomeno eversivo, furono varati provvedimenti (L. 12.1.77, n.1; L. 20.7.77, n.450; D.P.R. 24.5.77, n.339 ) tesi a limitare fortemente l’applicazione di misure in favore dei detenuti. Nel corso della seconda metà degli anni ’80 vi fu una nuova “stagione delle riforme” con l’approvazione della L. 10 ottobre 1986 n. 663 (c.d. “legge Gozzini”) e l’ampliamento dell’ambito applicativo delle misure alternative alla detenzione con l’introduzione di nuovi istituti. La crisi determinatasi a seguito della recrudescenza della criminalità organizzata di matrice mafiosa, culminata con le stragi di Capaci e via D’Amelio, determinò una nuova fase di contrazione dei margini di applicazione dei benefici penitenziari in rapporto a particolari tipologie di detenuti, condannati per taluni reati di particolare gravità e allarme sociale e collegati alla criminalità organizzata od eversiva (cfr. L. 12 luglio 1991, n.203, di conversione del D.L. 13 maggio 1991, n.152 recante “Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativa” e la L. 7 agosto 1992 n.356, di conversione del D.L. 8 giugno 1992 n.306, recante “Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa”). Gli anni successivi hanno visto l’introduzione, con la L. 27 maggio 1998, n.165 (c.d. “legge Simeone”) di alcune modifiche (nuovamente) orientate all’allargamento dei margini di applicazione dei benefici penitenziari, anche con l’introduzione di nuove figure e istituti , in un’ottica deflattiva del sovraffollamento carcerario, di nuove tipologie di misure e interventi in favore dei detenuti affetti da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria (L. 12 luglio 1999, n.231) e da ultimo del nuovo regolamento di esecuzione della legge n.354/75, introdotta con il citato D.P.R. n. 230/2000 e, naturalmente, della legge 13.2.01, n.45 .

[4] Cfr. tuttavia Cass.,I,n.1076 dd. 10.03.97, Cualbu: l'art. 58-ter della legge 26 luglio 1975 n. 354 (cd. ordinamento penitenziario) richiama il precedente art. 4-bis solo per individuare i reati in relazione ai quali esso trova applicazione, senza rinviare in modo recettizio a tutta la disciplina contenuta nel citato art. 4-bis. Ne consegue che è da escludere che il riconoscimento dell'attenuante di cui all'art. 62, comma primo, n. 6 cod. pen. possa tener luogo attività' collaborativa prevista dal suddetto art. 58-ter (massima tratta dal CED Cass.).

 

[5] Sull’ampiezza della collaborazione utile al riconoscimento della qualità di collaboratore, cfr. Cass.,I, n.3176 del 26.6.97, Battisti, in CED Cass.:Ai fini della concessione dei benefici penitenziari (nella specie, permesso-premio), l'utile collaborazione non può intendersi limitata ai delitti ostativi a tale concessione, ma è estesa a tutti i delitti che siano con questi finalisticamente collegati, sicché non è rispondente alla "ratio legis", alla quale sono sottesi un ravvedimento operoso e la volontà di emenda, ammettere l'accesso ai benefici in presenza di una collaborazione parziale da cui dovessero restare esclusi taluni delitti che, pur essendo estranei alla previsione dell'art. 4-bis della legge n. 354 del 1975 (cd. ordinamento penitenziario), costituiscono elementi di un medesimo piano operativo e forme attuative di criminalità organizzata. (Fattispecie relativa alla deliberata omissione di qualsiasi collaborazione, da parte del detenuto - pur occupante una posizione di rilievo nell'associazione criminale - in ordine alle circostanze di fatto relative all'acquisto di partite di droga e al successivo smercio).Per una esemplificazione in tema di delitti concernenti gli stupefacenti: Corte Cass., Sez. U, Sent. n. 13 dell'11.3.1999, imp. Barbagallo:in tema di reati concernenti le sostanze stupefacenti, non costituiscono presupposto idoneo per il riconoscimento dell'attenuante della collaborazione prevista dal comma 7 dell'art. 73 d.p.r. 9 ottobre 1990, n. 309, ammissioni o comportamenti non conducenti all'interruzione del circuito di distribuzione degli stupefacenti, ma limitati al rafforzamento del quadro probatorio o al raggiungimento anticipato di positivi risultati di attività di indagine già in corso in quella direzione (massima tratta dal CED Cass.).

[6] Cfr. Cass.,I,n.3419 dd. 07.07.99, Agrani )  L'impossibilità di utile collaborazione con la giustizia, conseguente all'avvenuto, integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità con sentenza irrevocabile, in tanto rende superabile il divieto di concessione di benefici penitenziari previsto dall'art. 4 bis dell'ordinamento peniten ziario nei confronti di condannati per determinati delitti - alla stregua di quanto statuito dalla Corte costituzionale con la sentenza 1 marzo 1995 n. 68 - in quanto la sentenza che ha dato luogo all'accertamento sia anteriore alla data di entrata in vigore della menzionata disposizione normativa, non essendo, a tal fine, sufficiente l'anteriorità dei soli fatti ai quali essa si riferisce (massima tratta dal CED Cass.).

[7] Cfr. Cass., I, 11.10.96, ric. Grassi, in CED 205749.In particolare, ai fini della nozione di completezza che la collaborazione utile ai fini dell’art. 58 ter deve rivestire, cfr. Cass.,I, n.5606dd. 12.11.96 , Liberti : avuto riguardo alla "ratio" del combinato disposto dagli artt. 4 bis e 58 ter dell'ordinamento penitenziario, quale ricostruibile anche a seguito degli interventi effettuati dalla Corte costituzionale, in particolare con le sentenze nn. 357 del 1994 e 68 del 1995 (con le quali è stata sostanzialmente esclusa l'operatività del divieto di concessione dei benefici penitenziari nel caso di incolpevole impossibilità di efficace collaborazione da parte di soggetti condannati per taluno dei reati previsti dal citato art. 4 bis), ed avuto riguardo altresì al sempre valido principio della unicità, ad ogni effetto giuridico, delle pene cumulate, ai sensi dell'art. 76, comma primo, cod. pen. deve riguardarsi come legittimo il diniego dei sud- detti benefici nel caso di soggetto il quale, essendo stato condannato per più reati, in parte compresi fra quelli ostativi, e trovandosi nell'impossibilità di prestare, con riguardo a questi ultimi, la collaborazione richiesta dalla legge, neghi detta collaborazione anche con riguardo agli altri, per i quali, invece, la stessa sarebbe possibile.

[8] Sull’onere di cooperazione dell’interessato ai fini dell’istruttoria di competenza del tribunale, cfr. Cass., I, n.4943 dd. 07.10.97, Santarelli: ai fini dell'ammissione a benefici penitenziari che presuppongano la prova della collaborazione con la giustizia dell'interessato, gli elementi qualificanti tale collaborazione devono essere accertati dal giudice anche d'ufficio, ma alla parte incombe l'onere di allegazione e di prospettazione di circostanze idonee a dimostrare l'impossibilità di un'utile collaborazione ai sensi del combinato disposto artt. 4-bis e 58-ter della legge 26 luglio 1975 n. 354 (cd. ordinamento penitenziario).Massima tratta dal CED Cass. .

[9] Cfr. Cass., I ,  n. 973 del 26 marzo 1997, ric.Guidali,  in CED Cass.: “La qualità di collaboratore a norma dell'art. 58-ter della legge 26 luglio 1975 n. 354 (cd. ordinamento penitenziario) non può formare oggetto di una pronuncia dichiarativa fine a se stessa, mirante al riconoscimento di una condizione assimilabile a uno "status" e indipendente dalla richiesta dei benefici per i quali opera la preclusione derivante dal titolo del reato, ma deve essere invece accertata all'interno del procedimento attivato dalla richiesta di uno di detti benefici, con lo specifico scopo di stabilire se ricorra la particolare situazione derogatoria ex art. 58-ter citato, che consente al giudice di superare il divieto dettato, in linea generale, dall'art. 4-bis della stessa legge. Sull’onere di allegazione da parte dell’interesssato degli elementi su cui il tribunale possa fondare il giudizio cfr. Cass.,I, 9.6.98,Di Quarto, in CED Cass:”In tema di benefici penitenziari, le sentenze della Corte Costituzionale n. 357/94 e n. 68/95 -pur avendo dichiarato incostituzionale l'art. 4 bis, comma primo, dell'Ordinamento Penitenziario nella parte in cui non prevedeva la possibilità di benefici o misure alternative per i condannati per il reato ex art.416 bis cod. pen. -non hanno escluso per ciò solo che, in assenza comunque di qualsiasi attività collaborativa del richiedente, debba essere costui in sede di istanza ad indicare le ragioni della asserita impossibilità a fornire detta collaborazione, rimettendo poi al giudicante l'onere di verificare quanto dallo stesso affermato e, in caso di rigetto dell'istanza, a motivare al riguardo. Il giudice di sorveglianza, una volta verificata l'inammissibilità dell'istanza per la mancanza del requisito della impossibilità di qualsiasi attività collaborativa, non é tenuto ad attivarsi di ufficio, pur in presenza dei suindicati pronunciamenti costituzionali, per verificare e valutare la sussistenza o meno di circostanze atte a consentire il superamento della mancata collaborazione oggettivamente sussistente, ostativa, in quanto tale, all'accoglimento dell'istanza già di per sé inammissibile per i motivi di cui sopra. (Nella fattispecie il Tribunale di Sorveglianza, con ordinanza, aveva dichiarato inammissibile la richiesta del detenuto di essere affidato in prova al servizio sociale, rilevando che l'istante era stato condannato per il reato di associazione per delinquere di stampo mafioso e non risultava aver prestato una attività di collaborazione ex art. 58 ter dell'Ordinamento Penitenziario. Avverso tale provvedimento aveva proposto ricorso per Cassazione l'interessato deducendo vizio di carenza di motivazione non avendo il Tribunale di Sorveglianza minimamente valutato che egli, per la posizione marginale che aveva ricoperto nell'ambito dell'associazione per delinquere in questione, non aveva avuto alcuna concreta possibilità di prestare una idonea collaborazione con gli inquirenti, circostanza questa che a suo avviso avrebbe dovuto essere presa in considerazione, così come avrebbe dovuto essere effettuato l'accertamento circa la inesistenza di suoi attuali collegamenti con la criminalità organizzata. La Suprema Corte, osservando tra l'altro che l'interessato nella sua originaria istanza di affidamento in prova non aveva fatto cenno alcuno alla sua asserita impossibilità di collaborazione, ha rigettato il ricorso in applicazione del principio di cui in massima).”

[10] Cfr. Cass.,I,  3.7.96,  ric. Brizuela, in CED Cass.

[11] L’art. 58 ter O.P., comma 1, secondo periodo, recita:” Quando si tratta di detenuti o internati per uno dei predetti delitti , ai quali sia stata applicata una delle circostanze attenuanti previste dagli articoli 62, numero 6), anche qualora il risarcimento del danno sia avvenuto dopo la sentenza di condanna, o 114 del codice penale, ovvero la disposizione dell’art.116, secondo comma, dello stesso codice, i benefici suddetti possono essere concessi anche se la collaborazione che viene offerta risulti oggettivamente irrilevante purché siano stati acquisiti elementi tali da escludere in maniera certa l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata.” La Corte costituzionale, con sentenza del 27 luglio 1994, n.357,  ha dichiarato l’illegittimità costituzionale  della disposizione sopra citata nella parte in cui non prevede che i benefici penitenziari possano essere concessi anche nel caso in cui la limitata partecipazione al fatto criminoso, accertata nella sentenza di condanna, renda impossibile un’utile collaborazione con la giustizia. La Corte, con sentenza del 1 marzo 1995, n.68, ha ulteriormente integrato il precetto sopra riportato stabilendo la validità, ai fini del superamento delle preclusioni di cui all’art.4 bis, comma 1, O.P., del dato oggettivo costituito dall’impossibilità di un’utile collaborazione a motivo dell’avvenuto integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità operato dalla sentenza di condanna definitiva.

[12] La Corte costituzionale ha confermato la tesi giurisprudenziale dell’applicabilità del regime restrittivo di cu all’art. 4 bis O.P. anche alle esecuzioni in corso al momento dell’entrata in vigore della normativa restrittiva (13.5.91), elaborando tuttavia il principio, fondato sul disposto dell’art. 27 Cost. che delinea la finalizzazione rieducativa della pena, del divieto di regressione incolpevole del trattamento penitenziario. In altri termini, la Corte ha ritenuto non conforme a Costituzione qualsiasi intervento restrittivo sui benefici penitenziari già concessi al condannato a riconoscimento dell’adesione al progetto rieducativi non fondata su profili di responsabilità imputabili al detenuto: cfr. Corte costituzionale 8 luglio 1993, n.306, che ha censurato la revoca di benefici penitenziari già concessi a condannati per i delitti di cui al primo comma, prima parte dell’art. 4 bis O.P. anche quando non sia stata accertata l’attuale sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata;Corte costituzionale 14 dicembre 1995, n.504, che ha ritenuto incostituzionale il diniego di concessione di ulteriori permessi premio a coloro che, condannati per taluno dei delitti di cui al primo comma, primo periodo dell’art. 4 bis O.P., non si trovino nelle condizioni per  l’applicazione dell’art. 58 ter O.P., ma che abbiano fruito del  beneficio premiale senza che, al momento dell’entrata in vigore della normativa di rigore, vi siano elementi tali da far ritenere l’attuale sussistenza di legami con la criminalità organizzata od eversiva; Corte costituzionale 30 dicembre 1997, n.445, la quale ha stabilito che la misura della semilibertà può essere concessa ai condannati che, al momento dell’ entrata in vigore della normativa di rigore, avessero già raggiunto un grado di rieducazione adeguato alla misura richiesta, sempre che non siano stati acquisiti elementi tali da far ritenere attuale il collegamento con la criminalità organizzata o eversiva.;Corte costituzionale 22 aprile 1999, n.137, che detta un principio similare in rapporto alla concedibilità del beneficio dei permessi premio. La Corte ha, infine, escluso l’applicazione della disciplina di rigore introdotta nel 1991-92 ai condannati minorenni: cfr., in rapporto ai maggiori limiti di pena imposti dall’art. 4 bis O.P.  (cfr. Corte cost. 30 dicembre 1998, n.450 in relazione ai permessi premio); in rapporto all’applicazione delle preclusioni di cui all’art. 58 quater O.P. (Corte cost. 1 dicembre 1999, n.436).

[13] Cfr. in tema le approfondite osservazioni di Centofanti F. , in “Benefici penitenziari e ruolo della magistratura di sorveglianza”, incontro del 8-10 luglio 2002 in  Roma,  a cura del CSM sul tema “diritto premiale e collaboratori di giustizia”.

[14] Cfr. Cass., I, 18.4.98, Del Vecchio, in CED Cass. V. amplius nota 15 .

[15] Cfr. Cass., I, 6.3.00, Tibaldi, in CED Cass. .Per un profilo particolare dell’efficacia derogatoria della normativa di favore, cfr.Cass., I, n.5753 dd. 31.01.97 , Correale : in tema di detenzione domiciliare, la derogabilità, per i soggetti sottoposti a speciale programma di protezione, ai sensi dell'art. 13 ter, comma secondo, del D.L. 15 gennaio 1991 n. 8, conv. con modif. in legge 15 marzo 1991 n. 82, dei limiti di pena previsti dall'art. 47 ter dell'ordinamento penitenziario non comporta la possibilità che la misura alternativa in questione possa essere applicata anche quando sia stata inflitta la pena dell'ergastolo, attesa la netta differenza che esiste fra tale pena e quelle detentive temporanee, cui si riferisce il citato art. 47 ter (massima tratta dal CED Cass.).Con la stessa decisione, la Corte ha stabilito il principio che “la misura alternativa della detenzione domiciliare, prevista dall'art. 47 ter dell'ordinamento penitenziario, pur essendo concedibile, quanto ai soggetti sottoposti a speciale programma di protezione, anche in deroga ai limiti di pena indicati in detta norma, ai sensi dell'art. 13 ter, comma secondo, del D.L. 15 gennaio 1991 n. 8, conv. con modif. in legge 15 marzo 1991 n. 82, postula comunque che si tratti di persone per le quali si riscontri l'esistenza di taluna delle condizioni soggettive previste dal citato art. 47 ter, dovendosi altrimenti pervenire all'aberrante conclusione secondo cui, nell'ipotesi data, la concessione del beneficio verrebbe a risultare obbligatoria, senza alcuna possibilità di valutazione discrezionale da parte del giudice”. Con riferimento ai presupposti legali al fine della concedibilità delle misure, con riferimento particolare alla detenzione domiciliare, cfr. Cass.,I, n.5523 dd. 04.12.96, Chiofalo: “Anche per la detenzione domiciliare la concedibilità del beneficio non si sottrae al criterio della valutazione discrezionale da parte del giudice, che deve riguardare, al di là dell'indefettibile accertamento delle condizioni soggettive di ammissibilità, l'opportunità del trattamento alternativo che, come per ogni altra misura della stessa categoria, deve concernere le premesse meritorie e l'attingibilità concreta del beneficio, in relazione alla personalità del condannato.(Fattispecie relativa ad istanza di ammissione al regime di detenzione domiciliare presentata da persona ammessa a speciale programma di protezione, in relazione alla quale la S.C., nell'enunciare il principio di cui in massima, ha affermato che la facoltà di ammettere alle misure alternative soggetti del genere anche in deroga alle disposizioni vigenti riguarda soltanto le limitazioni in tema di condizioni di ammissibilità, ma non si estende ai presupposti relativi all'emenda di tali soggetti e alle finalità di conseguire la loro stabile rieducazione).”  Massima tratta dal CED Cass. .

 

[16] Cfr. Cass.,I, n.1960 dd. 18.04.98  Del Vecchio: La normativa che prevede la concessione dei benefici penitenziari ai col- laboratori di giustizia a condizioni di assoluto privilegio non può essere intesa nel senso che il legislatore abbia voluto eliminare tutti i requisiti richiesti dalla legge penitenziaria, obbligando il giudice ad accordarli solo in funzione di una collaborazione che ne abbia messo tanto a repentaglio la sicurezza personale, da rendere necessario uno speciale programma di protezione. Ed invero, l'art. 13-ter della legge n. 82 del 1991, disponendo che il provvedimento in tema di benefici penitenziari può essere adottato, anche in deroga delle vigenti disposizioni, ivi comprese quelle relative ai limiti di pena, invece di limitare o addirittura escludere la discrezionalità della magistratura di sorveglianza, ne amplia la portata, concedendole, in presenza di un contributo di rilevante spessore dato alla giustizia, di superare i requisiti, formali e sostanziali, richiesti nei casi ordinari. In un giudizio di tale delicatezza, la condotta collaborativa, anche se indicativa di una revisione critica, non deve essere tenuta presente da sola, ma va posta in relazione ad altri determinanti parametri, come la gravità dei reati in espiazione e l'entità della pena ancora da scontare (massima tratta dal CED Cass.)..

[17] Cfr. Cass. ,I, Parrinello, in CED Cass. .

[18]Cfr. Cass., I, n.792 dd. 04.04.98 , Manca: “La concessione dei benefici penitenziari, in deroga ai divieti o alle limitazioni di cui all'art.4 bis dell'ordinamento penitenziario,ai soggetti ammessi allo speciale programma di protezione,giusta quanto previsto dall'art.13 ter,comma 1,del D.L. 15 gennaio 1991 n.8,convertito con modifiche in L.15 marzo 1991 n.82,presuppone l'attualità del detto programma e non può,quindi,aver luogo quando essa sia venuta a cessare,anche se non per revoca,ma solo per mancata proroga del programma stesso. (Nella specie,in applicazione di tale principio, la S.C. ha riconosciuto la legittimità del provvedimento con il quale il tribunale di sorveglianza aveva disposto la cessazione della detenzione domiciliare in conseguenza della mancata proroga del programma di protezione cui il condannato era stato,a suo tempo ammesso” (massima tratta dal CED Cass.). Contra, per il mantenimento dei benefici penitenziari concessi in deroga alla normativa ordinaria anche nel caso di revoca incolpevole del programma, cfr. Cass.,I,  n. 2067 dd. 23.6.99, Marra, in CED Cass.,  che ritiene applicabile il principio generale del divieto di regressione del trattamento penitenziario in assenza di condotte colpevoli del condannato, che impongano di modificare il giudizio sui progressi rieducativi del reo: “La misura alternativa (nella specie detenzione domiciliare) concessa "extra ordinem" al condannato ammesso a speciale programma di protezione ai sensi della legge n. 82 del 1991 non viene meno a seguito della revoca del programma stesso non determinata da fatto colpevole del soggetto (nella spe cie l'obiettivo affievolimento della sua situazione di pericolo personale), in quanto anche per essa vale sempre la regola generale in virtù della qua le non può essere caducata che in conseguenza di fatti, ascrivibili alla condotta del soggetto, dimostrativi dell'infondatezza del giudizio prognostico favorevole alla sua concessione e incompatibili con il manteni mento della misura. (V. C. Cost. n. 277 dell'11 giugno 1999, vedi anche la 227 del 7 giugno 1999)”.

Cfr. anche Cass.,I, n.5478 dd. 09.01.2001 , La Perna, conforme a Cass., I,  n.6921 dd. 21.12.2000, Prudenzano: La concessione dei benefici penitenziari, in deroga ai divieti e alle limitazioni di cui all'art.4 bis dell'ordinamento penitenziario, in favore dei "collaboratori di giustizia" ammessi allo speciale programma di protezione (art.13 ter del D.L.15 gennaio 1991 n.8, convertito con modifiche in legge 15 marzo 1991 n.82), presuppone l'attualità del suddetto programma. Essa, quindi, non può più aver luogo quando il programma, pur ancora operativo all'atto della richiesta del beneficio, sia stato, per qualsiasi ragione, revocato prima che sulla medesima richiesta sia intervenuta la decisone del tribunale di sorveglianza competente (massima tratta dal CED Cass.).

 

[19] Per l’orientamento affermativo, cfr. Cass.,I, 4.10.96, Palumbo, in CED Cass; contra, Cass.,I, 25.2.94, Messina, in CED Cass. Il problema dell’incolumità dei soggetti che prestano collaborazione con la giustizia è stato oggetto di una particolare attenzione da parte della giurisprudenza di merito, che in alcuni casi ha negato la concessione della misura alternativa al collaborante sulla considerazione che ciò avrebbe esposto il soggetto a pericolo per la sua incolumità. La Cassazione ha tuttavia censurato tale assunto: cfr. Cass., I, n.995 dd. 26.03.97, Speranza, in CED Cass., con la quale la Corte ha ritenuto illegittimo il rigetto di istanza di affidamento in prova al servizio sociale motivato dal pericolo per l'incolumità del collaborante, derivante dall'ammissione alla misura alternativa.

 

[20]Sulle ricadute di tale disposizione sul riaprto di competenza tra il tribunale di sorveglianza di Roma e gli altri  tribunali distrettuali, cfr. Cass., 1, n. 30740 dd.13.09.2002  (RV.  222185), confl. comp. in proc. Giova :”  Anche dopo l'entrata in vigore della legge n. 45 del 2001, che ha modificato  la disciplina della protezione dei collaboratori di giustizia, sussiste la  competenza del tribunale di sorveglianza di Roma a decidere sulla domanda di  ammissione a misure alternative alla detenzione di condannato ammesso non a  speciale  programma,  ma  solo a misure urgenti di protezione adottate dal Capo  della  polizia, in quanto l'interessato domicilia di fatto, indipendentemente  da una formale elezione di domicilio, presso il servizio centrale di protezione che ha sede a Roma.    

 

[21] Cfr. Centofanti F.  “Benefici penitenziari e ruolo della magistratura di sorveglianza”, relazione all’incontro di studio promosso dal C.S.M. in Roma, 8-10 luglio 2002.

[22] L’art.12 della L. 82/91, modificato dall’art. 5 della L. 45/01, prevede infatti che il collaboratore sottoscriva il documento in cui sono specificate le misure di protezione cui verrà sottoposto, nonché la dettagliata elencazione degli impegni che il soggetto è tenuto, contestualmente e sinallagmaticamente, ad assumere nei confronti dello Stato. Si segnalano, in particolare,l’impegno a sottoporsi a interrogatori, esame o altro atto di indagine, inclusa la redazione del verbale illustrativo della collaborazione. Il collaborante deve altresì impegnarsi a non rilasciare a soggetti diversi da quelli previsti dalla norma (autorità giudiziaria, forze di P.S., difensore) dichiarazioni rilevanti ai fini della collaborazione in corso; a non incontrare soggetti “dediti al criminie” né altri collaboratori di giustizia; ad indicare specificamente tutti i beni di cui ha il possesso e versare il denaro frutto di attività illecite. Dubbi di compatibilità del divieto di cui all’art.12 , lett. d), citato, con le disposizioni processuali – in particolare con la norma di cui all’art.391 bis comma 5, c.p.p., sono stati espressi da Bernasconi A., op. cit. alla nota 1, p. 83 .

[23] In generale, il principio che sta alla base delle ipotesi normativamente previste di revoca o modifica delle misure di protezione è quello della loro temporaneità, di tal che, anche a prescindre dalla ricorrenza delle ipotesi previste dalla legge per la loro revoca, è previsto che la Commissione centrale provveda, anche su richiesta dell’autorità che aveva formulato la proposta di ammissione del soggetto alla tutela, al periodocio monitoraggio della concreta situazione, tenendo conto dell’attualità e gravità del pericolo cui la persona è attualmente sottoposta, dell’idoneità delle misure adottate a garantire la protezione del collaborante, della condotta dei soggetti sottoposti alle misure e dell’osservanza da parte loro degli impegni assunti a norma dell’art. 12 L. 82/91 al momento della sottoscrizione del documento che sancisce i diritti e i doveri del collaboratore. Tra le fattispecie di revoca delle misure di protezione, alcune devono ritenersi di applicazione automatica (a es. il rifiuto del collaborante di sottoporsi ad esame, ovvero di indicare i beni e le utilità economiche in possesso); mentre in rapporto ad altri casi si deve ritenerre che la Commissione sia dotata di un ambito di discrezionalità nell’apprezzamento della gravità della violazione (es. in relazione alla riferita frequentazione di soggetti dediti al crimine,ovvero il rifiuto di accettare adeguate offerte di lavoro). Il rispetto degli impegni assunti da parte del collaborante costituisce altresì parametro di valutaizone della possibilità di sostituzione  o revoca della misura coercitiva della custodia carceraria.

[24] Cfr. sul tema del riparto di competenza accennato nel testo la sentenza riportata alla nota 19.

[25] Cfr.Trib.Sorv.Firenze, ord. 14 febbraio 2002, n.5474/01+6296/01 R.G. .

[26] Cfr.Trib.Sorv.Roma, ord. 16 gennaio 2002, n.8652/01 R.G.

[27] Cfr.Trib. Sorv. Milano, ord..18.aprile 2002, n. 1956/02 R.G. .

[28] Cfr. Trib.Sorv. Torino, ord. 16 novembre 2002, n.11508+11509/00 R.G. .