inserito in Diritto&Diritti nel gennaio 2002

PROCESSO PIAZZA FONTANA: -Sentenza della Corte d'Assise di Milano n. 15/2001, del 30 giugno 2001 e depositata il 19 gennaio 2002.

Capitolo 6

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Sull’appartenenza di Delle Chiaie e di Gianni Casalini al SID, Pozzan ha subìto l’ulteriore contestazione del P.M., atteso che nel 1982 aveva dichiarato che il primo gli aveva confidato di avere rapporti con importanti esponenti dei servizi di sicurezza[1] e di aver appreso la notizia del rapporto di Casalini con il SID da amici comuni, mentre in dibattimento ha dapprima negato quella circostanza e poi l’ha riferita a non specificate “voci dell’ambiente”[2]

Sulla riunione che si sarebbe tenuta a Padova il 18 aprile 1969, Pozzan ha sostenuto di non ricordare con esattezza il contenuto delle sue dichiarazioni, chiedendo al P.M. di procedere alla contestazione[3]. Questa parte di esame, oltre che reticente, è palesemente falsa, atteso che Pozzan, nel tentativo di giustificare dichiarazioni evidentemente inconciliabili, è giunto ad addebitare agli investigatori che lo avevano interrogato (il P.M. Calogero e il G.I. Stitz) il suggerimento del nome di Rauti, ritrattando immediatamente dopo quella affermazione e poi nuovamente affermandola[4].

L’ultima parte delle dichiarazioni di Pozzan ha riguardato il casolare di Paese, in relazione al quale il teste ha ripetutamente negato la conoscenza.

In conclusione, su tutti gli argomenti oggetto dell’esame dibattimentale, Pozzan ha invocato la sua cattiva memoria, negato circostanze che in passato aveva riferito, ridimensionando il significato di alcune affermazioni compiute negli interrogatori resi al G.I. o al P.M., addebitato agli investigatori dell’epoca un interesse personale nelle indagini che sarebbe giunto al punto di ricostruire falsamente un racconto che egli non avrebbe mai fatto. E’ inutile, disquisire dei parametri di attendibilità del teste, il cui atteggiamento complessivo è stato improntato dall’assoluta e incrollabile reticenza, con ricostruzioni dei fatti generiche, contraddittorie, illogiche, e, quindi, totalmente false.

La valutazione che la Corte dovrà compiere delle affermazioni rese da Pozzan sarà inevitabilmente condizionata dal giudizio qui espresso, poiché questi ha inteso negare qualsiasi coinvolgimento suo o di altre persone nelle vicende eversive per le quali ha subìto un processo, è stato ritenuto responsabile e non è stato condannato grazie all’intervenuta prescrizione. Certo, alcune dichiarazioni che nel corso degli anni Pozzan ha reso potranno essere utilizzate proprio perché l’atteggiamento reticente consente di attribuire alle sue ammissioni (ad esempio sulla conoscenza con Rognoni, sulla riunione di Padova della primavera del 1969 – a prescindere dalla presenza o meno di Rauti – sui rapporti dei militanti della destra con il SID, sui rapporti con Fachini, Giannettini, La Bruna, Maletti) una rilevanza probatoria ancora più significativa proprio perché proveniente da un teste che, appena ha potuto, ha negato pervicacemente tutto.

 

6 n –  Rauti.

La deposizione di Rauti in questo dibattimento, nel quale è stato sentito come imputato di reato connesso, pur essendosi prolungata per alcune ore, non è di grande rilevanza probatoria, atteso che egli è stato esaminato su alcuni temi generali attinenti alla sua esperienza politica in ON. Sulla vicenda di piazza Fontana le indicazioni di Rauti sono state molto scarne, sia perché non gli sono state rivolte domande specifiche sull’argomento, sia perché egli ha negato categoricamente qualsiasi coinvolgimento nei fatti eversivi dell’epoca.

Nella prima parte del suo esame Rauti ha ricostruito il percorso politico del Centro studi ON, costituito nel 1956 e rientrato nell’MSI nel 1969. Su questa parte, l’unico elemento significativo della deposizione ha riguardato le modalità della decisione e le ragioni della confluenza di quel movimento nel partito. Nonostante Rauti abbia inteso fornire di quella fase politica una chiave di lettura diversa rispetto a quanto riferito da altri testimoni, le difformità tra le ricostruzioni non sono così eclatanti da apparire inconciliabili. Secondo Rauti la decisione di rientrare nell’MSI non fu improvvisa, ma piuttosto determinata dal mutamento di linea politica del partito, coincidente con l’assunzione della segreteria da parte di Almirante; il teste non ha però negato che la situazione politica di quegli anni avesse contribuito ad assumere quella decisione, confermando sostanzialmente che l’appartenenza ad un’organizzazione parlamentare dei giovani militanti di ON avrebbe rappresentato una garanzia nei confronti delle istituzioni in un periodo caratterizzato da scontri politici di piazza[5]. Non può sottovalutarsi, comunque, la diversità dell’affermazione di Rauti rispetto a quanto hanno dichiarato molti esponenti del Centro studi ON, secondo i quali la decisione di rientrare nel partito fu specificamente determinata dai pericoli di coinvolgimento dei militanti ordinovisti nelle vicende eversive del 1969 (prospettati allo stesso Rauti da alcuni esponenti istituzionali della destra)[6].

Sotto altro profilo, Rauti ha negato categoricamente la veridicità delle affermazioni di Fabris e della Bettella sull’episodio che lo avrebbe coinvolto, definendole come una follia e prospettandone l’assoluta inverosimiglianza[7].

In merito alla conoscenza con Giannettini e alla loro partecipazione al convegno organizzato dall’istituto Pollio nel 1965, le dichiarazioni di Rauti sono apparse logicamente contraddittorie su alcuni specifici aspetti, quali il contenuto della sua relazione a quel convegno. E’ interessante riportare alcuni passi di quell’esame, dal quale emerge l’illogicità delle risposte fornite da Rauti sulle tesi esposte nel suo intervento:

I.R.C. - Ma io ho qui, ripeto, devo averla. La relazione si intitolava "La tattica della penetrazione comunista in Italia", ecco, c'è la data: "Intervento del 4 maggio - non c'è l'anno - del Dottore Pino Rauti". Io notai, cercai di sottolineare che la società civile italiana era oggetto di tattiche, anche nuove, di penetrazione da parte dei comunisti, che queste tattiche risalivano alla famosa - come dire? - osservazione culturale ideologica di Gramsci, secondo le quali tesi era più importante che non si poteva conquistare e soprattutto non si poteva mantenere il potere politico se prima non si era presenti nella società civile; già allora si cominciamo ad adoperare questo termine, quindi era non tanto importante una manifestazione di partito interna, quanto importante, per esempio, una piccola casa editrice, non era importante un comizio, una sfilata dei sindacati, quanto era importante una mostra fotografica ben organizzata. Quindi lavorare e radicarsi nella società civile, in modo da avere non il controllo, avere, diciamo, una egemonia sostanziale soprattutto in termini culturali

 

P.M. - Lei, dopo avere esposto, appunto,  queste tecniche di penetrazione, devo dire anche in maniera molto brillante e vivace, disse... scrive: "Ecco quindi che il fenomeno della guerra sovversiva pone alle nostre coscienze ed alle nostre preoccupazioni una serie di problemi estremamente drammatici ed estremamente urgenti, perché noi tutti sentiamo che l'apparato politico e costituzionale del quale le forze anticomuniste si trovano a disporre, non sembra molto adeguato alla lotta contro il comunismo".

I.R.C. - Sì.

P.M. - Qui non si parla di culturale o non culturale; qui si parla del fatto che l'apparato politico e costituzionale del nostro Paese evidentemente non era adeguato a contrastare...

I.R.C. - Del tipo di sfida che lanciava...

P.M. - ...a contrastare la lotta...

I.R.C. - Esatto, era vecchio. Io citavo una cosa...

P.M. - E conclude, mi scusi, e conclude con questa affermazione: "Spetterà poi ad altri organi in senso militare, in senso politico generale, trarre da tutto questo le conseguenze concrete, e far sì che alla scoperta della guerra sovversiva e della guerra rivoluzionaria, segua l'elaborazione completa della tattica controrivoluzionaria e della difesa". Qual era il senso di queste affermazioni, all'epoca ovviamente, non ci interessa ovviamente quello che Lei pensa adesso.

I.R.C. - Io semmai dissi che tutte le strutture dello Stato dovevano essere coinvolte. Era importante la Magistratura, ed erano importanti anche i militari, perché citai l'esempio degli Ufficiali che arrivano con i loro saldi principi e si trovano di fronte ad un gettito di leva che è ampiamente condizionato dalla cultura di sinistra, e hanno... non hanno più lo strumento operativo come c'era una volta; una volta il ragazzo arrivava, si metteva sull'attenti, diceva: "Signor sì", e marciava. Adesso il ragazzo arrivava con una sua cultura, giusta o sbagliata che fosse, ma era quella la sua cultura, ed allora anche l'Ufficiale doveva - come dire? -  acculturarsi, e citavo l'esperienza degli Ufficiali francesi, dell'Indocina e via dicendo. Vede, Avvocato...

P.M. - Dottor Rauti, io sono il Pubblico Ministero.

I.R.C. - Mi scusi.

P.M. - Non è offensivo, era solo perché non prendesse i ruoli.

I.R.C. - Non è facile riassumere, Lei ha detto, giustamente,  brevemente concetti che poi riguardavano anche - come dire? - un appassionato dibattito culturale che c'era in quei anni, che riguardava anche le strutture militari. Noi, per esempio, guardavamo molto all'esperienza dell'esercito francese in Indocina prima e in Algeria poi, e notavamo questa differenza, che prima l'esercito francese aveva fatto operazione di controguerriglia, tipo la legione straniera, mentre i nuovi reparti francesi, soprattutto paracadutisti, avevano Ufficiali e Sotto-ufficiali di nuovo tipo, si incaricavano di mettere in piedi gli acquedotti rurali, davano lezioni ai bambini nei piccoli villaggi dell'Atlante Berbero, sapevano stilare un testo di propaganda, sapevano depistare le prime cose di epidemie o altro, cioè erano Ufficiali che facevano forme di presenza sociale, e quella noi chiamavamo guerra rivoluzionaria contro la guerra sovversiva dei comunisti.

P.M. - Dottor Rauti, di tutte queste di cui lei ci sta parlando nella sua relazione non c'è traccia.

I.R.C. - Ci stanno i libri che ho scritto in materia.

P.M. - Siccome adesso stavamo parlando di questa relazione, sembra che stiamo leggendo due cose diverse.

I.R.C. - E` difficile adesso riassumere, come nella relazione non fu possibile, riassumere adesso tutto questo grosso dibattito, dove ci sono citati dei libri, sono uscite decine di volumi che noi abbiamo cercato di fare tradurre in italiano, e che avevano tutti questo motivo fondante: che alle tecniche di infiltrazione e di presenza nella società civile la società politica mutuata dal XIX secolo, dall'800, i vecchi partiti erano chiaramente inadatti; e questo spiegavano, secondo noi, perché i comunisti andavano avanti.[8].

Sui suoi rapporti con Freda, Fachini, Delle Chiaie, Soffiati, Ventura e Maggi, le indicazioni di Rauti sono state generiche e prive di evidenti elementi di illogicità, limitandosi il dichiarante a ricostruire la diversità o la comunanza dei loro percorsi politici.

Riguardo a Delfo Zorzi, le indicazioni fornite da Rauti sono state meno lineari, perché pur non escludendo di averlo potuto conoscere in ragione della comune militanza in ON, il dichiarante ha inteso modificare il contenuto delle affermazioni fatte in indagini preliminari, proponendo alcune sottolineature sul significato dell’espressione utilizzata in quegli atti:

P.M. - Non le ho chiesto... la mia era una domanda molto più innocente. Lei ha conosciuto Delfo Zorzi?

I.R.C. - Zorzi non ricordo di averlo conosciuto; può darsi che l'abbia incontrato, sì, in qualche manifestazione nel Veneto. Io andavo spesso nel Veneto, come altrove, a fare manifestazioni. Come faccio a dire "Conosciuto"? Era presente a qualche comizio mio, a qualche conferenza mia? Può darsi, Però conoscenza precisa e specifica non credo di averne avuta.

P.M. - Lei, in queste dichiarazioni del 2 giugno '98, disse esplicitamente: "Io ho conosciuto Delfo Zorzi nel periodo del Centro Studi Ordine Nuovo, e quindi ritengo di averlo incontrato in qualche manifestazione del centro".

I.R.C. - Credo di averlo incontrato in qualche...

P.M. - La conoscenza è sicura. E` questo che voglio dire.

I.R.C. - Lei mi chiede, scusi, precisiamo: Lei mi chiede se io ho conosciuto - già un termine piuttosto vago - se io ho incontrato uno che era iscritto presumibilmente era un giovane attivista di Ordine Nuovo nel momento in cui io tenevo, in tutta Italia, manifestazione per Ordine Nuovo; ma certamente che l'avrò visto, mi avrà salutato, mi avrà dato la mano, si sarà fatto fotografare accanto a me, mi avrà chiesto, come fanno molti, se ce l'avevo un libro con la mia dedica; non lo so, non me lo ricordo, ma è probabile che sia accaduto. E che significa questo? Dottore, io faccio politica da cinquantaquattro anni, moltiplichi per dodici mesi, ho conosciuto decine di migliaia di persone, quindi... poi anche la memoria precisa: "Quando ha visto Delfo Zorzi?", e chi se lo ricorda?

P.M. - Ma non gliel'ho chiesto. Io le ho chiesto se Lei lo aveva conosciuto. Oggi ha dato una risposta dubitativa, in questo interrogatorio del 2 giugno...

I.R.C. - Dubitativa quando all'uso che Lei può fare o all'uso che può trarre dal termine "Conoscere". Allora precisiamo: essendo un aderente ad Ordine Nuovo probabilmente, quasi certamente, l'avrò incontrato in qualche manifestazione; significa conoscerlo questo, secondo Lei? Questo lo dice Lei. Secondo me, conoscere una persona, è un'altra cosa. Io conosco i dirigenti del partito, quelli che hanno avuto cariche, incarichi, ruoli di responsabilità,  che più mi sono stati vicini per anni, a volte per decenni; quelli li conosco. Gli altri sono incontri più o meno casuali.

P.M. - Dottor Rauti, io le avevo semplicemente fatto ricordare che in queste dichiarazioni del '98 Lei disse, verbale da Lei sottoscritto, riletto alla presenza del suo Difensore: "Io ho conosciuto Delfo Zorzi nel periodo del Centro Studi Ordine Nuovo". Evidentemente in quell'occasione aveva capito il significato del verbo conoscere, e oggi mi sembra invece di capire che dobbiamo stare a discutere.

I.R.C. - Conosciuto mi sembra eccessivo, a ripensarci bene.[9].

Altre indicazioni meno rilevanti (e comunque senza evidenti contraddizioni rispetto alle acquisizioni processuali) hanno riguardato la pubblicazione dell’opuscolo “Le mani rosse sulle Forze armate”, i rapporti con Armando Mortilla e con l’agenzia giornalistica Fiel, i rapporti con Guerin Serac e con l’agenzia Agent Interpress, i rapporti con il FN di Borghese.

Qualche incongruità nella deposizione si è manifestata con riferimento al coinvolgimento di militanti triestini di ON in alcuni attentati del 1969. Rauti ha dichiarato di non ricordare che Forziati gli avesse riferito quella notizia, ammettendo di aver appreso dalla stampa tale eventualità che fu comunque negata dai dirigenti veneti dell’organizzazione[10].

Infine, Rauti ha sostanzialmente ammesso di aver conosciuto Giancarlo Rognoni, definendolo un simpatizzante di ON, anche se ha reso dichiarazioni equivoche, prima ammettendo la circostanza e poi negandola, sulla contiguità del gruppo “La Fenice” ad ON.

La deposizione di Rauti non è di facile valutazione e ne è evidente la ragione.

In questo processo sono state acquisite indicazioni provenienti da alcuni testimoni che hanno delineato un coinvolgimento diretto di Rauti nella strategia eversiva condotta da alcuni gruppi ordinovisti nel 1969 e culminata nella strage di piazza Fontana. Rauti fu indagato nel procedimento di Milano a seguito delle dichiarazioni, poi ritrattate, di Pozzan, e fu prosciolto in istruttoria; in questo procedimento sono emersi ulteriori indizi sul ruolo che egli avrebbe assunto in quella fase politica, tra cui le testimonianze rese da Fabris e dalla Bettella in merito all’intervento intimidatorio che Rauti avrebbe compiuto a salvaguardia della posizione processuale di Freda.

Ciò premesso, gli elementi di valutazione della testimonianza di Rauti conducono ad un giudizio articolato e complesso, atteso che in alcune parti le sue dichiarazioni sono coerenti con il quadro probatorio acquisito, in altre decisamente in contrasto. Sarà per questo necessario affrontare, quando si tratterà gli specifici argomenti riferiti dal dichiarante, il contrasto di versioni con altri testimoni e verificare l’attendibilità dell’una o dell’altra. In termini generali non può comunque ignorarsi che gli argomenti su cui un tale contrasto sussiste sono quelli che potrebbero delineare un coinvolgimento diretto di Rauti in alcune vicende eversive della fine degli anni ‘60, per cui le sue affermazioni dovranno essere valutate con estrema cautela, ben potendo essere determinate dall’interesse a non rivelare tale coinvolgimento.

 

6 o – Bandoli e Minetto.

I testi valutati nel paragrafo sono accomunati dall’essere stati indicati da Digilio come gli esponenti italiani più importanti della struttura di intelligence statunitense operante in Veneto tra la fine degli anni ’60 e la metà degli anni ’70. Se quelle indicazioni fossero vere, costoro avrebbero potuto fornire un significativo contributo di conoscenza su quel tipo di attività. Bandoli e Minetto hanno però negato categoricamente la veridicità delle affermazioni di Digilio, contrapponendosi a qualsiasi sua affermazione (ma anche ad altri testimoni quali Rossi e Persic) sulla loro partecipazione ad attività di intelligence.

La Corte ritiene che Minetto e Bandoli siano testimoni del tutto reticenti, perché, pur nella diversità dell’atteggiamento assunto e della loro personalità, hanno dimostrato di  essere indisponibili a qualsiasi collaborazione con l’autorità giudiziaria.

La deposizione di Minetto meriterebbe di essere riportata integralmente in molte parti, perché rappresenta un esempio eclatante di reticenza, contraddittorietà logica, incoerenza e falsità.

Nella prima parte della sua testimonianza, Minetto ha ricostruito alcuni periodi della sua vita, dalla militanza nella RSI, agli anni trascorsi in Argentina, fino al rientro in Italia, quando, pur non appartenendo ad alcun gruppo politico della destra, conobbe molte persone che militavano in quell’area politica e le frequentò assiduamente. Egli ha però negato qualsiasi coinvolgimento nelle loro attività, giustificando i suoi rapporti di conoscenza con Soffiati, Persic, Bandoli, Digilio e tutti gli altri esponenti della destra veronese con la circostanza che abitava a Colognola ai colli e che prestò la propria competenza lavorativa in favore di quelle persone[11].

Già con riferimento alle ragioni di conoscenza di Bruno e Marcello Soffiati, le indicazioni di Minetto sono prive di attendibilità: il rapporto con loro avrebbe avuto origine nella frequentazione della trattoria di Colognola ai colli, che però fu aperta da Marcello Soffiati solo nella seconda metà degli anni ’70, mentre quel rapporto di conoscenza ebbe origine all’inizio degli anni ’60. Minetto ha poi tentato di ridimensionare i suoi rapporti con i Soffiati, ma è stato smentito, oltre che da numerosi testimoni, dalla accertata sua partecipazione al matrimonio di Marcello del 1972 in qualità di testimone. Le risposte fornite da Minetto in quella parte di esame sono da sole sufficienti a dimostrare l’assoluta inattendibilità del teste, il quale, non ha potuto negare di essere stato il testimone al matrimonio di Marcello Soffiati, eppure all’inizio dell’esame del P.M. ha persino esitato nel ricordarne il nome:

P.M. - Dopo il suo ritorno dall'Argentina, Lei ha mai fatto parte di gruppi di destra?

T. - No, conoscevo perché quando sono tornato dall'Argentina sono andato ad abitare nel paese di mia moglie a Colognola ai Colli, e lì ho conosciuto un signore che si chiamava Soffiati.

P.M. - Soffiati come di nome?

T. - Soffiati, il nome non me lo ricordo, era vecchio, era un ex fascista. E lì ho conosciuto questo, ma a Colognola li conoscevano tutti.

P.M. - Ma l'ha conosciuto e basta, o l'ha conosciuto e frequentato?

T. - No, frequentato mai.

P.M. - Mai frequentato?

T. - No, io non lo frequentavo, lo trovavo lì in paese, così, o al bar..., perché era uno che gli piaceva giocare alle carte ed allora si incontrava lì al bar.

P.M. - Questo Soffiati aveva anche dei figli?

T. - Due figli: uno si chiamava Giorgio ed uno..., l'altro... Giorgio era un ragazzo serio, era estraneo alla famiglia, e quell'altro invece era un po' esaltato.

P.M. - Ed il nome non se lo ricorda dell'altro figlio?

T. - Perché l'altro figlio Giorgio è andato su qua verso Pieda, si è sposato lì ed è rimasto lì.

P.M. - Questo Giorgio. Le sto chiedendo se non ricordava il nome dell'altro figlio?

T. - Adesso non mi viene in mente, ce l'ho sulla punta della lingua ma...

P.M. - Può essere Marcello?

T. - Marcello sì.

P.M. - E` giusto?

T. - Sì, sì Marcello.[12].

La conoscenza con i Soffiati non determinò, secondo le affermazioni del teste, una loro assidua frequentazione, atteso che egli ha dichiarato di essersi recato presso l’abitazione di Colognola ai colli solo in due occasioni per riparare il frigorifero. Si badi, Minetto non ha negato che i Soffiati, insieme a Bandoli[13], intrattenessero rapporti con militari delle basi statunitensi, ma ha escluso la sua presenza in occasione di quegli incontri:

P.M. - Signor Minetto, i Soffiati, il padre o i figli, frequentavano o avevano rapporti con gli americani, come ha detto Lei?

T. - A me sembra di sì.

P.M. - Il padre o i figli, o tutti e due?

T. - Più il vecchio che il figlio, ma avevano rapporti tutti e due, perché siccome Soffiati abitava davanti alla chiesa, che c'è un piazzale...

P.M. - A Colognola questo?

T. - A Colognola ai Colli.

P.M. - Il Soffiati padre?

T. - Sì, il padre, la famiglia insomma, e quando c'era... specialmente al sabato o la domenica c'erano sempre macchine targate americane, ed allora quando c'erano queste persone là dentro noi non si andava, noi del paese si girava a largo, insomma.

P.M. - Perché era disdicevole entrare in queste occasioni?

T. - No, perché il vecchio Soffiati non voleva che quando c'erano gli americani ci fosse gente per la casa, capisce?

P.M. - Quindi, Lei andava in casa del vecchio Soffiati?

T. - Sono andato due, tre volte in casa del Signor Soffiati. Una volta per riparargli un frigorifero.

P.M. - Quindi per ragioni di lavoro?

T. - Per ragioni di lavoro, e dopo una volta mi sembra, così, che mi ha chiamato dentro.

P.M. - Quindi voglio dire, essendoci andato in casa del vecchio Soffiati due volte sole, non aveva nemmeno nessun senso che Lei non ci dovesse andare quando c'erano gli americani. Avrebbe senso se Lei era un frequentatore abituale ed  allora Soffiati dice "guarda, quando ci sono gli americani non venire".

T. - Erano loro che non volevano che andasse dentro la gente del paese.

P.M. - Non Lei in particolare, la gente del paese in genere?

T. - Era il vecchio Soffiati che non voleva.

P.M. - Ma perché, la gente del paese frequentava abitualmente la casa del vecchio Soffiati?

T. - No, perché davanti alla chiesa lì d'estate, siccome ci sono le piante e delle panchine la gente si sedeva lì sotto, e quando arrivavano gli americani nessuno si  sedeva sulle panchine.

P.M. - Perché il vecchio Soffiati aveva detto che non ci si doveva sedere sulle panchine?

T. – Sì.[14].

Ma è nella parte della deposizione dedicata alle ragioni per cui Marcello Soffiati gli chiese di essere il testimone di matrimonio della moglie, che l’inattendibilità di Minetto è apparsa eclatante. Anche questo passo merita l’integrale riproposizione perché è il più significativo del suo atteggiamento, diretto a minimizzare i rapporti con quelle persone:

P.M. - Signor Minetto, Lei è stato al matrimonio di Soffiati?

T. - Al matrimonio sì, quando si è sposato Marcello.

P.M. - E che ruolo svolgeva al matrimonio di Marcello?

T. - Mi ha invitato più che altro perché avevo la macchina, ed allora chi aveva la macchina in quel periodo era sempre invitati a pranzo, ma io...

P.M. - Cioè, Lei  a quanti matrimoni è stato invitato per fare l'autista?

T. - No, ho fatto...

P.M. - Oltre a questo, ovviamente?

T. - ... il coso alla moglie.

P.M. - Ha fatto?

T. - Come si dice..., il testimone alla moglie.

P.M. - Lei la conosceva la moglie?

T. - No, la conoscevo così.

P.M. - Ma Lei conosceva meglio la moglie o Marcello?

T. - Ma, nessuno dei due bene.

P.M. - Allora,  Lei ha conosciuto la moglie di Soffiati perché gliel'ha presentata Soffiati Marcello, oppure ha conosciuto Soffiati Marcello perché glielo ha presentato la sua futura moglie?

T. - E` stato il padre a presentarmela.

P.M. - Il padre di Soffiati?

T. - Sì.

P.M. - Allora,  il padre di Soffiati le ha presentato quella che sarebbe diventata la moglie di Marcello?

T. - Sì.

P.M. - E Lei ha fatto il testimone per questa donna?

T. - Sì, perché prima di sposarsi Marcello aveva messo incinta la moglie, cioè la fidanzata, allora  è stata l'unica volta che io ho chiesto a Marcello che si prenda le responsabilità, perché diventare padre di due figli bisognava anche sposarsi. Allora, mi ha detto  "va bene io mi sposo" era assieme alla moglie e allora  la moglie mi ha detto "lei mi fa da testimone?",  "sì". Perché io avevo più contatto con la mamma del Marcello, perché la mamma del Marcello era una donna che soffriva molto nell'ambiente suo, perché il figlio la faceva...  Era una donna che non era tranquilla, non per il marito perché era vecchio, ma per il figlio.

P.M. - Signor Minetto, Lei ricorda, approssimativamente ovviamente, quante persone c'erano a questo matrimonio?

T. - Non lo so.

P.M. - Era un matrimonio con centinaia di invitati?

T. - Una trentina.

P.M. - Volevo solo avere un'idea.[15].

Tutte le affermazioni di Minetto sono all’evidenza inverosimili: egli ha sostenuto che non frequentava, né stimava Marcello Soffiati – di cui non ha ricordato neanche il nome – eppure fu prescelto per fare il testimone al suo matrimonio; il motivo di quell’invito è stato giustificato dal teste nella disponibilità da parte sua di un’autovettura, anche se ha dovuto ammettere che tale circostanza non giustifica da sola la partecipazione ad una cerimonia con meno di trenta invitati e soprattutto all’assunzione della veste di testimone. Sul punto ha fornito una ricostruzione talmente fantasiosa da non meritare alcun commento per affermarne l’inverosimiglianza.

Anche con riferimento a Persic e a Benito Rossi, Minetto ha confermato l’atteggiamento reticente, negando un rapporto di frequentazione con loro e ammettendo “a fatica” di averli conosciuti o di averli potuti conoscere per via del suo rapporto con Soffiati[16].

Ma è stata la descrizione della sua conoscenza eventuale con Digilio a confermare l’inattendibilità:

P.M. - Lei ha conosciuto Carlo Digilio?

T. - Carlo Digilio me l'ha fatto vedere nella fotografia al matrimonio, può darsi che questo Digilio mi conosca a me, ma io Digilio personalmente mai stato  a dire "questo è il Signor Digilio", non l'ho mai avuto di fronte a Digilio, perché Digilio quando io sono stato portato dentro qua a San Vittore mi continuavo a chiedere "perché non mi mette a confronto con 'sto Digilio, perché se mi conosce così bene,  vorrei vederlo perché io non me la ricordo questa persona".

P.M. - Ma non se lo ricorda nemmeno al matrimonio?

T. - Non me lo ricordo nemmeno al matrimonio. So che frequentava Colognola, ma siccome che Marcello aveva tutte persone che frequentava che era meglio stare alla larga, perché lui era un tipo che voleva fare la sua rivoluzione. Le rivoluzioni le fa il popolo, non le fa la persona singola, era un esaltato e basta.

P.M. - Scusi, come fa a sapere che Digilio frequentava Colognola?

T. - Perché ho saputo che a Colognola tutti conoscono Digilio. Perché quando aveva la trattoria Marcello Soffiati, aveva la trattoria lui, questo Digilio è rimasto lì, han detto 8, 10 giorni, non lo so.

P.M. - E questa cosa chi gliel'ha detta?

T. - Tutti quelli di Colognola. Quando io sono tornato a Colognola da tutto quello che mi è successo, mi hanno detto "ma guarda che Digilio conosce tutti qua a Colognola, perché è  stato qua a Colognola in casa da Marcello Soffiati". Ma io non andavo su, specialmente di estate incominciavo a lavorare alle sette e lavoravo fino alle nove di sera, non avevo tempo di andare a Colognola.

P.M. - Quindi a Colognola l'hanno conosciuto tutti tranne che Lei?

T. - Ma può darsi che l'ho conosciuto anche io, ma io non me lo ricordo.

P.M. - Io adesso le rifaccio vedere quella foto del matrimonio così vediamo, gliela rifaccio vedere nuovamente.

T. - Sì, che mi credevo che fosse all'inizio che me l'ha fatta vedere,  credevo che fosse il fratello di Marcello.

P.M. - Adesso gliela rifaccio vedere.

(nds, il Pubblico Ministero mostra al teste la fotografia citata).

T. - Qua si vede meglio, può darsi che lui mi conosce, ma adesso per esempio non me lo ricordo. Questo è il fratello di Marcello, questi qua...  erano tanti che non li conoscevo mica al matrimonio. Vede che ho il garofano rosso, perché tutti quelli dalla parte della moglie erano tutti socialisti, e dalla parte di qua erano tutti fascisti. Può darsi che anche ci fosse stato ma io che me lo ricordo non me lo ricordo, se mi ricordassi tutti quelli che ho visto nella vita.

P.M. - Volevo dirle: ha visto che era praticamente seduto di fronte a Lei? Questo se ne è reso conto?

T. - Non lo so se era lì seduto di fronte a me, in fianco, era lì.

P.M. - Era seduto, direi, di fronte alla persona che sta seduta alla sua destra, che è una signora anziana.

T. - Sì, sì, non so.[17].

Quindi, secondo Minetto, una persona come Digilio, che tutti a Colognola conoscevano come amico di Soffiati, che partecipò alla festa di matrimonio di quest’ultimo sedendo al medesimo tavolo del teste, che frequentava con intensità la trattoria di Colognola, non era né un nome né un volto a lui noti. L’affermazione è evidentemente inattendibile ed è finalizzata ad escludere qualsiasi coinvolgimento con le attività di quel gruppo di persone e in particolare di Carlo Digilio.

Minetto ha ammesso di aver conosciuto Maggi, presentatogli da Soffiati alla “festa del pisello” di Colognola ai colli. Su questa affermazione alcune parti non hanno risparmiato considerazioni ironiche all’indirizzo del teste, non consentite in questa sede di valutazione dell’attendibilità della sua deposizione. Certo è che l’indicazione di Minetto appare coerente con la ricostruzione complessiva dei suoi rapporti con i militanti di ON, la cui frequentazione sarebbe stata determinata dagli incontri al bar o in trattoria per giocare a carte, dalle visite per svolgere la propria attività lavorativa, dalla sosta nella piazza seduti in una panchina. In questo quadro, la “festa del pisello” completa la natura di quei rapporti, privi di qualsiasi connotazione politica.

Con riferimento al suo coinvolgimento nelle attività di intelligence per conto delle strutture statunitensi facenti capo alle basi militari presenti in Veneto, Minetto ha naturalmente negato la veridicità delle affermazioni di Digilio e di altri testimoni, ma è evidente che quella negazione era stata “preparata” nel corso della sua deposizione, quando aveva minimizzato i rapporti con quelle persone.

Minetto ha innanzitutto negato di essere a conoscenza dello svolgimento da parte dei Soffiati di attività informativa nell’interesse delle strutture di intelligence statunitensi:

P.M. - Senta, a Lei risulta che qualcuna di queste persone che abbiamo nominato, e cioè i due Soffiati, Bandoli, Rossi... be' Rossi no ovviamente, perché non ha presente chi è, Persic, abbiano fatto attività informativa in favore degli americani, come ha detto Lei?

T. - Non lo so. Questo non lo so perché erano cose sue quelle lì.

P.M. - Che cosa vuol dire che "erano cose sue"?

T. - Robe sue dei Soffiati.

P.M. - Ma i Soffiati la facevano questa attività o no?

T. - Non lo so.

P.M. - Ed allora come fa a dire che erano cose sue?

T. - Se faceva quel lavoro lì erano cose sue, non lo dicevano agli altri.

P.M. - A Lei non hanno mai detto nulla, è questo che Lei sta dicendo?

T. - A me no.

P.M. - Né Lei ha mai saputo nulla a riguardo?

T. - No.”[18].

Quindi, ha negato di aver egli assunto tali funzioni, tacciando di falsità i testimoni che avevano reso affermazioni di quel tipo:

P.M. - Senta, Lei ha mai svolto attività informativa per gli americani?

T. - No, no mai.

P.M. - Lei lo sa che ci sono delle persone che dicono che lo ha fatto? Che lo hanno ripetuto anche qua.

T. - Lo so, ma quelle robe lì io...

P.M. - Non solamente Digilio intendo dire. E non è mica un'attività illecita.

T. - No, ma quello che io mi domando,  se questo Digilio dichiara...

P.M. - Non è il solo Digilio che lo dice.

T. - Anche gli altri, che io ero dei servizi segreti, l'accusa era quella.

P.M. - Non è un'accusa.

T. - Per me era un'accusa.

P.M. - Non è un'accusa!

T. - Per me personalmente era un'accusa, il fatto è questo: siccome che tutta questa gente si vantava che loro conoscevano tizio, perché loro tutte le persone importanti le conoscevano, loro, però io siccome dovevo lavorare, e tengo al mio lavoro, io quelle cose lì non avevo mai dato alito di... perché a me non mi interessava,  (p.i. pronuncia non chiara) mi ha messo, e non so chi, e lo sa il Dottore Salvini e lo sa quelli dei servizi segreti italiani, mi hanno messo su un piedistallo che non è il mio.

P.M. - E Lei non si è chiesto per quale ragione più di una persona dice questa cosa a suo riguardo?

T. - Ma non lo so chi è che lo dice, se lo dice Digilio allora io chiedo: se Digilio conosceva tutti questi americani che lui andava, è lui che dichiara che era dei servizi, aveva bisogno di me?

P.M. - Signor Minetto, io le ho chiesto se Lei si è dato una spiegazione del perché determinate persone dicono questa cosa di Lei?

T. - Non lo so.

P.M. - Va bene, grazie.

T. - Non lo so perché (pp.ii., voci sovrapposte).

P.M. - Abbiamo capito.

T. -  ...(pp.ii., voci sovrapposte) a San Vittore che mi ha rovinato la vita, ed io ho 76 anni fra un paio di mesi, la mia vita non ha nessuna importanza, perché l'unica importanza che ha la mia vita è per i miei figli e i nipoti, dopo non ho più nessuno. Tutto il resto non mi interessa, se io sapessi la verità gliela dico, ma io la verità non posso dirla perché non la so.[19].

Nel corso del controesame della parte civile, Minetto ha negato alcune specifiche circostanze riferite da altri testimoni, quale la sua frequentazione del Piccolo hotel di Verona[20], la frequentazione dell’abitazione di Persic in occasione di un incontro con Soffiati, Digilio e Novella[21], l’incontro con Persic e Soffiati il giorno della strage di piazza della Loggia[22].

Le conclusioni sull’attendibilità della testimonianza di Minetto sono, alla luce di quanto sin qui osservato, agevoli. Egli ha negato qualsiasi rapporto con le persone gravitanti intorno al gruppo veronese di ON, definendo la conoscenza e la sua frequentazione di Bruno e Marcello Soffiati, Persic, Bandoli, Benito Rossi, Digilio e Maggi come “poco compromettenti” incontri tra persone che abitavano o frequentavano lo stesso paese e gli stessi locali. Questa affermazione è del tutto priva di coerenza logica, perché è inspiegabile la ragione per cui Marcello Soffiati invitò Minetto al suo matrimonio e gli chiese di fare da testimone alla moglie se non ricollegando quel rapporto ad un’amicizia e ad una frequentazione antica ed intensa. Si badi che Minetto non è una persona sprovveduta (come alcuni difensori hanno inteso descriverlo), per cui l’inverosimiglianza delle sue dichiarazioni sul rapporto con Soffiati non poteva essere attenuata da parziali ammissioni. Difatti se il teste avesse delineato un rapporto di amicizia con i Soffiati e di frequentazione della loro abitazione, avrebbe certo evitato di fare affermazioni inverosimili, ma avrebbe dovuto fornire spiegazioni logiche della consistenza di quel rapporto, riscontrando la ricostruzione compiuta da Digilio, da Persic e da Benito Rossi. Minetto ha scelto una strada di negazione totale dei suoi rapporti con quel gruppo, in tal modo dimostrando l’assoluta inattendibilità delle sue dichiarazioni perché costretto a fare affermazioni del tutto prive di fondamento logico, oltre che smentite da altri dichiaranti.

L’inattendibilità di Minetto non significa che quanto dichiarato da Digilio sia necessariamente vero, certo è che le smentite provenienti da questo testimone sono prive di qualsiasi rilevanza e non possono rappresentare riscontri negativi rispetto alle affermazioni del collaboratore.

A ciò si aggiunga che nel corso della ricostruzione di alcuni episodi della propria vita, Minetto ha fornito conferme significative delle indicazioni di Digilio: il teste aderì alla RSI e, anche se non risulta che fu esponente della X° MAS, sicuramente manifestò le sue simpatie politiche per l’esperienza della Repubblica di Salò, tanto che nel dopoguerra si trasferì all’estero, a suo dire per trovare lavoro, ma più plausibilmente per sottrarsi alle conseguenze della sua fedeltà al fascismo. In quel contesto di attività militari, Minetto fu coinvolto anche in una vicenda dai contorni non chiari di cui la Corte ha preso atto senza ritenere di svolgere ulteriori approfondimenti sia per il periodo a cui risale l’episodio, sia per la sua limitata rilevanza probatoria. La vicenda descritta dal teste può avere solo il significato del suo coinvolgimento in attività nell’ambito della RSI non semplicemente burocratiche, ma che fanno trasparire rapporti con strutture militari repubblichine e alleate.

Nei primi anni ’60 Minetto ebbe rapporti con la caserma Passalacqua di Verona, sede di una base militare statunitense, che frequentò perché, a suo dire, svolgeva la manutenzione dei frigoriferi delle strutture interne[23]. Su questo aspetto è interessante richiamare le dichiarazioni di Giraudo sugli accertamenti compiuti in merito alla presenza di Minetto all’interno della base NATO di Verona, già valutate nel capitolo 4[24].

Pur negando qualsiasi simpatia per l’ideologia di destra, Minetto non ha potuto nascondere la sua frequentazione di alcuni raduni dei reduci della RSI, anche se ha minimizzato il significato della sua presenza alla Piccola Caprera in occasione di quegli incontri[25]

Infine, alquanto sospetto (e non spiegato dal teste) è l’atteggiamento tenuto nel corso della carcerazione presso il carcere di San Vittore, quando consegnò [26] al P.M. un biglietto con la scritta “sono disponibile incontrare relazione indagini in corso ufficiali dell'Arma dei Carabinieri presso questo carcere” firmato Minetto Sergio. Quel biglietto, che Minetto ha sostenuto essere solo la risposta scritta ad una richiesta rivoltagli da G.I., non si concilia con le affermazioni che il teste ha compiuto durante tutto il procedimento e che ha ribadito nel corso del dibattimento. Se Minetto non era a conoscenza di alcuna informazione sulle vicende oggetto delle indagini e del dibattimento, non vi è ragione per cui avrebbe dovuto manifestare la disponibilità a fornire notizie, ma solo ai Carabinieri, quindi, senza formalizzare con l’autorità giudiziaria quella collaborazione. La spiegazione fornita da Minetto è del tutto illogica, perché da un lato quel biglietto fu consegnato al termine di un interrogatorio del P.M., mentre la richiesta gli sarebbe pervenuta dal G.I., e comunque non risulta agli atti alcuna sollecitazione da parte degli investigatori, se non la richiesta del capitano Giraudo di cui lo stesso Minetto ha riferito nel suo esame[27]. Se anche Giraudo avesse richiesto a Minetto di rivelare quanto a sua conoscenza sulle vicende oggetto di indagini, la sua estraneità rispetto a quei fatti avrebbe dovuto indurlo a non aderire a quella richiesta, mentre il suo atteggiamento fu di ambigua disponibilità, ammissivo di una generica conoscenza, ma disponibile a parlare in modo informale solo con militari dei Carabinieri. Tale atteggiamento è soltanto sospetto e non consente di affermare alcunché rispetto alle conoscenze di Minetto, ma certamente conferma la sua reticenza nell’ambito del procedimento.

In conclusione, le dichiarazioni rese da Minetto al dibattimento sono prive di qualsiasi attendibilità, perché prima di essere smentite da Digilio, Persic, Rossi, sono reticenti, illogiche, incoerenti, non giustificate con riferimento ad alcune affermazioni neanche dal teste e, quindi, non possono costituire elemento di smentita rispetto a quanto affermato da altri dichiaranti.


[1] Pozzan, p. 110.

[2] Pozzan, pp. 110 e 129-130.

[3] Pozzan, p. 135.

[4] Non è necessario riportare integralmente la parte di esame relativa alla riunione del 18 aprile, ma in questa parte di sentenza è opportuno richiamare il punto riguardante le accuse agli investigatori:

P.M. -  Sì, la domanda era: "L'ufficio chiede al teste pur facendogli presente... - eccetera - perché egli affermò falsamente, ritrattando poi tale dichiarazione, che Pino Rauti era presente a Padova ad una riunione dell'aprile '69?" e il Signor Pozza risponde: "Posso dire tranquillamente che non lo so. Non so perché lo feci. Anzi, devo dire che il nome di Rauti mi fu suggerito dagli inquirenti ed io accettai il suggerimento perché ritenni che potesse giovare ai miei amici. Mi riferisco come inquirenti a Calogero e Stiz. In sostanza, quell'indicazione falsa poteva essere di disturbo o di intralcio alle indagini". Allora Signor Pozzan?

T. - Se posso parlare liberamente vorrei richiamare la loro attenzione su due circostanze. Se Lei si è fatto un'idea della mia levatura intellettuale dovrebbe sorridere di quel verbale scritto così bene, non può essere frutto della mia incapacità.

P.M. -  Peraltro devo darle atto che Lei, invece, parla molto bene, cioè parla veramente molto bene in relazione al suo...

T. - Se Lei soppesa quel verbale che io ho rinnegato, deve dare atto che non può essere frutto... mi è stata, diciamo, guidata la mano; mi è stato anche detto che c'erano molti riscontri a quello che io dovevo confermare. In pratica io ho preso per buono. La seconda circostanza è che Lei... non ho sentito bene le due date, ma pare che ci sia un largo intervallo tra il primo e il secondo?

P.M. -  No, c'è una brevissima distanza perché uno è del primo marzo e l'altro è del 14, ma peraltro Lei dice "già io volevo dirvelo il 2"?

T. - Io volevo ritrattare immediatamente dopo averlo fatto.

P.M. - Infatti questo è quello che è scritto.

T. - E il Giudice Istruttore: "Be', adesso è tardi - era quasi mattina -, andiamo a dormire e domani ci ripensiamo". In pratica io rinnovai la richiesta all'ufficio matricola il giorno stesso, però il Giudice si presentò due settimane dopo. Intanto era...

P.M. - Infatti se ne è dato atto anche di questo, vede? Anche di questa cosa si dà atto nel verbale signor Pozzan, il Giudice non l'ha tenuto nascosto, ha dato atto che Lei aveva chiesto di parlare il 2 marzo, cioè il giorno immediatamente successivo a quell'interrogatorio. Allora, io le chiedo Signor Pozzan: il Giudice Stiz e il Pubblico Ministero Calogero che hanno redatto quel verbale del primo marzo falso palesemente da quello che Lei ci sta dicendo perché mai avrebbero dovuto acconsentire a fare quello del 14 marzo che gli dava fastidio evidentemente, no? Perché se a loro era utile quello del primo marzo, quello del 14 no.

T. - Infatti è stato utile perché in quelle due settimane è successo tutto il resto, eh.

P.M. -  Ma sa, qualunque cosa accade se poi dopo Lei dice "queste dichiarazioni non sono vere", se non sono vere non esistono, non servono a nulla. Anche se è accaduto qualche cosa non servono in ogni caso.

T. - Ma erano già servite.

P.M. -  A che cosa erano servite?

T. - L'arresto di Rauti fu immediato.

P.M. - Be', ma l'arresto di Rauti... poi ha dovuto essere scarcerato ovviamente, no? Quindi a che serviva l'arresto di Rauti?

T. - Il proscioglimento di Rauti non conferma la falsità delle mie dichiarazioni?

P.M. -  No, non conferma nulla. Semplicemente, di fronte a un verbale dove Lei prima dice una cosa e poi ne dice un'altra, è evidente che...

T. - Ma Rauti è stato scagionato non da me, è stato scagionato dalla redazione.

P.M. -  Ma che rilevanza ha tutto ciò? In relazione a questo verbale, mi chiedo, che rilevanza ha il fatto che Rauti sia stato scagionato?

T. - No il fatto che sia... è stato scagionato dalla testimonianza dei suoi colleghi.

P.M. -  Signor Pozzan, sostanzialmente, Lei oggi sta dicendo così come aveva detto davanti al Giudice Istruttore di Milano che questo primo verbale è falso perché il Dottor Stiz e il Dottor Calogero l'hanno indotta, le hanno suggerito, hanno detto, o meglio hanno scritto perché oggi ci dice addirittura che anche il linguaggio chiaramente non è il suo ma evidentemente è il loro, hanno scritto questo verbale e poi le hanno chiesto di firmarlo, evidentemente?

AVV. FRANCHINI - Non ha detto questo.

T. - Io ho detto che loro mi hanno riferito di circostanze che confermavano, anticipavano quello che volevano ottenere da me. Cioè mi avevano dato una parvenza di verosimiglianza, di fondatezza, di attendibilità che io ho trovato accettabile.

P.M. -  E quindi Lei è stato in grado di ricostruire questo incontro con tutti questi particolari, perché non è che Lei si è militato a dire: sì, c'era la riunione, li ho visti, mah... forse... No, fa un bella descrizione dettagliata?

T. - Nel verbale sembra che sia stata una recita di getto. E' stato il frutto di una nottata intera di negoziazioni così, cosà, un po' di più, un po' di meno. Non è stata una poesiola che io ho recitato, è stata costruita pazientissimamente. Poi io ho detto: "Questo non mi va". "Va be', adesso siamo tutti stanchi. Ci pensi, ci dorma sopra e domani ne riparliamo". Ne abbiamo riparlato due settimane dopo. Io non sto muovendo degli appunti, sa, a dei Magistrati, non li ho mica accusati di falso.

P.M. - Francamente io ho capito così.

T. - Mi hanno indotto con elementi che erano attendibili a costruire... l'abbiamo costruita insieme diciamo.

P.M. -  Appunto, avete costruito insieme, cioè Lei, il Dottor Stiz e il Dottor Calogero avete costruito insieme un falso verbale, è questo che Lei sta dicendo?

T. - Non un falso verbale, loro potevano essere convintissimi perché dicevano che  avevano un mucchio di riscontri.

P.M. -  No, lasci perdere che loro fossero convinti che queste cose fossero in realtà vere. Nella misura in cui si costruisce questo racconto così dettagliato e particolareggiato che Lei dice non essere vero, questo è un racconto falso. Perché qui si dice che Lei, Pozzan, ha fatto queste cose; non che quel giorno è accaduta quella cosa, che potrebbe essere vera in astratto, no? Quindi avete costruito a tavolino un verbale falso. Questa è la sua risposta?

T. - Purtroppo.” (p. 141-144).

[5] Rauti, p. 14-17, ha ammesso che anche quella fu la ragione del rientro.

[6] In questo senso si è espresso Stimamiglio, p. 121-123, per  aver appreso quella ragione da Massagrande, Fachini, Spiazzi e Signorelli, ma anche altri testimoni hanno confermato meno specificamente quell’affermazione (Bonazzi, p. 107-108;  Calore, p. 188-189). Francia, p. 80, ha definito quella dell’ “ombrello protettivo” una vox populi, peraltro confermata da Vinciguerra, il quale, p. 22 , ha parlato proprio della necessità di  “aprire l’ombrello”; Sermonti, p. 33, oltre ad indicare le ragioni di comunanza politica, ha confermato che Rauti accennò alla possibilità di iniziative giudiziarie nei confronti di ON, pur non come prospettiva immediata e concreta).

[7] Rauti, p. 22-23.

[8] Rauti, p. 28-32.

[9] Rauti, p. 42-44.

[10] Rauti, p. 73-85. E’ interessante riportare il contenuto di quella parte di deposizione:

P.C. AVV. SINICATO - L'Avvocato Forziati ha raccontato un certo episodio che sarebbe avvenuto a Trieste, e ha detto di avere riferito a Lei delle notizie che erano a sua conoscenza sugli autori di un attentato, fortunatamente non portato fino in fondo, ma comunque è attentato, attentato alla scuola... una scuola slovena. Lei si ricorda questa vicenda; no?

I.R.C. - No.

P.C. AVV. SINICATO - No?

I.R.C. - Non mi ricordo.

P.C. AVV. SINICATO - Lei si ricorda di essere stato messo a conoscenza della esistenza dell'avvenuto (sic) effettuazione di questo attentato?

I.R.C. - Probabilmente lo lessi sui giornali, o fui interrogato in una di queste vicende giudiziarie. Non ricordo, Avvocato.

P.C. AVV. SINICATO - Perché Lei oggi ha detto che... ha escluso, a domanda del Pubblico Ministero, che Ordine Nuovo, nell'ambito di Ordine Nuovo vi potessero essere dei gruppuscoli, o delle persone che potevano essere dedite a attività violente; Lei oggi lo ha escluso.

I.R.C. - Non ho detto... come faccio ad escludere? Ordine Nuovo...

P.C. AVV. SINICATO - Allora le domando...

I.R.C. - Avvocato, aspetti, Ordine Nuovo è durato dal '56 al '69, quattordici anni. Ci sono passati migliaia e migliaia di giovani; come faccio ad escludere che uno, due, tre, cinque giovani abbiamo fatto o siano incappati in vicende di violenza? Posso dire che qualcuno è stato coinvolto, ed ognuno ha avuto la sua storia. Di quei pochi coinvolti, quindici persone su quindicimila, di più che posso dire? E` un'organizzazione che dura quindici anni, anche fosse, non lo so, una... come dire? la Confraternita di San Vincenzo, su quindicimila persone poi qualche caso, qualcosa succede a qualcuno, insomma, ecco.

P.C. AVV. SINICATO - Quindi, scusi, quando Lei viene a sapere dei giornali che vi è stato un atto terroristico a Trieste, e si reca a Trieste, non si informa, atto terroristico che è addebitato a persone appartenenti a Ordine Nuovo, non si informa, non si preoccupa?

I.R.C. - Certo, ogni talvolta che ho avuto sentore di questo, ho cercato di informarmi, e non ho mai avuto notizie precise o esatte, perché sennò avrei proceduto. Il più duro contro elementi miei o ex miei eventualmente coinvolti in queste vicende, il più duro sarei stato io, perché venivano meno proprio allo stile che io avevo insegnato e su cui ho scritto capitoli interi. Noi siamo quelli che lottiamo a viso aperto, quindi niente terrorismo, niente... di questo tipo di cose, ecco.

P.C. AVV. SINICATO - Infatti Lei disse, in un interrogatorio del 3 agosto '73 al Giudice Istruttore Buogo, disse su questo punto: "Se avessi appreso che episodi di violenza di tale gravità fossero stati posti in essere da elementi di Ordine Nuovo avrei dovuto intervenire mediante accertamenti e consequenziali provvedimenti".

I.R.C. - Certo.

P.C. AVV. SINICATO - Poi dice: "Ricordo di aver saputo che Neami Francesco, da me conosciuto, Ferraro Claudio e Bressan Claudio, anche quest'ultimo da me conosciuto, erano stati implicati come imputati in un processo per un atto terroristico. Del processo poi non ho saputo più nulla, e quindi non sapevo che fossero stati prosciolti". Quindi Lei seppe che erano stati implicati in un atto terroristico Neami, Ferraro e Bressan?

I.R.C. - Che erano accusati.

P.C. AVV. SINICATO - Eh, prese provvedimenti a riguardo?

RISPOSTA - Tutti i dirigenti, tutti i dirigenti di Trieste mi dissero che non c'entravano niente. Io dissi: "Aspettiamo il procedimento".

P.C. AVV. SINICATO - Le dissero che non c'entravamo niente?

I.R.C. - Mi dissero tutti che non c'entravano niente.

P.C. AVV. SINICATO - E come motivarono questa...?

I.R.C. - Adesso non mi ricordo, siamo nel '73.

P.C. AVV. SINICATO - Nel senso che le dissero che erano stati altri probabilmente?

I.R.C. - Che erano innocenti, che erano innocenti. Erano accuse montate dalla stampa avversaria.

P.C. AVV. SINICATO - E a Lei questo bastò?

I.R.C. - Eh, bastò, certo, non mi tolse tutti i dubbi e...

P.C. AVV. SINICATO - Quindi si preoccupò di questa situazione?

I.R.C. - Eh?

P.C. AVV. SINICATO - Si preoccupò di questa situazione?

I.R.C. - Sì, dissi di continuare a seguire come andavano le cose perché non era una situazione tranquillizzante, anche perché queste cose accadevano in due o tre zone, sono accadute, nel Veneto diciamo, altrove la struttura di Ordine Nuovo non ha avuto... non ha dato luogo a rilievi, né a situazione di questo tipo, insomma, ecco. Invece fra Trieste, Venezia, Padova e Verona si sono verificati questi episodi sui quali poi si è inquisito, eccetera.

P.C. AVV. SINICATO - Perché, vede, in questo interrogatorio però Lei dice: "In ordine agli attentati di Trieste e Gorizia - quelli di cui parliamo - desidero far presente che non ho mai saputo niente".

P.C. AVV. SINICATO - Se l'ammette la mia domanda è, allora: Lei si preoccupò o non si preoccupò degli attentati di Trieste e Gorizia?

I.R.C. - Se lo seppi ovviamente me ne preoccupai.

P.C. AVV. SINICATO - Beh, Lei ha detto adesso che lo seppe, perché seppe che Neami, Bressan e Ferraro erano imputati, e seppe dagli altri...?

I.R.C. - Ma da chi lo seppi?

P.C. AVV. SINICATO - Non lo so, l'ha detto Lei adesso che lo seppe, e seppe dai dirigenti di Trieste, c'ha detto adesso, che però era un'imputazione che...?

I.R.C. - Quando ci fu l'imputazione sui giornali io non è che andai a Trieste per questo; io andai a Trieste nel quadro di giri periodici che facevo, capitava... e chiesi informazioni, e questi mi dissero: "Sono assolutamente innocenti, ti faremo un rapporto", eccetera eccetera. "Mah - dico - se è vera è una cosa preoccupante, cosa succede? Datemi chiarimenti", eccetera. Basta, tutto qui.

P.C. AVV. SINICATO - Quindi Lei andò a Trieste per altre ragioni, ma in quell'occasione chiese informazioni ai dirigenti triestini?

I.R.C. - Sulla base delle notizie chiesi informazioni.

P.C. AVV. SINICATO - Certo.

I.R.C. - Ma, scusi, Lei che fa? E` un dirigente dell'organizzazione, legge su un giornale che in una zona dove c'è una sua struttura degli elementi giovani sono coinvolti in determinate vicende, che fa? Si informa, chiede assicurazioni, le ottiene, resta più o meno soddisfatto. Chiede un rapporto scritto, un'inchiesta interna, ecco, cerca di capire come sono andate le cose.

P.C. AVV. SINICATO - E` proprio quello che ha fatto Forziati, sa? Forziati andò da Lei, ci dice, per riferirle le notizie che lui sapeva circa quegli attentati che riguardavano...?

I.R.C. - Forziati mi disse una cosa, mi avrà detto una cosa, altri mi dissero cose contrarie, eh, sa, qualcuno dice la sua versione. Io chiesi di intervenire, di chiarire bene le cose per prendere i provvedimenti adeguati, di avere un rapporto, una relazione, poi ne avremmo discusso come direzione del partito. Altro non ricordo, sinceramente. Non ricordo neanche se furono condannati, se furono assolti quelli lì, quelli di Trieste.

P.C. AVV. SINICATO - Certo, ma le persone che Forziati invece le indicò come gli autori effettivi di quell'attentato, a quanto a sua conoscenza, Lei li apprese da Forziati, secondo... Forzati le disse questi nomi?

I.R.C. - Non è che uno, non è che uno... se viene un dirigente, bisogna vedere anche che tipo è, che elemento è, che peso ha, quali animosità personali possono muovere, quali polemiche pregresse ci possono essere state. Può anche darsi che mi abbia detto: "Quelli secondo me hanno commesso queste cose". Io ho detto... gli avrò detto: "Forziati, la cosa è molto grave, scrivimele, mandale, mi informerò".

P.C. AVV. SINICATO - Quindi Lei fece anche un minimo di indagine sul Forziati per capire chi era che le faceva queste...?

I.R.C. - Ma io, almeno, lo conoscevo Forziati, insomma, non era un tipo molto - come dire? - era un tipo molto polemico con tutti, stava sempre in polemica con tutti, quindi non è che fosse un dirigente centrale molto - come dire? - qualificato, ecco.

P.C. AVV. SINICATO - Perché Lei in questo interrogatorio sul punto dice: "Non credo assolutamente che il Forziati Gabriele abbia in quell'occasione riferito a me di avere appreso dal Portolan che autore del fallito attentato alla scuola slovena, eccetera eccetera fossero stati Siciliano e Delfo Zorzi, ciò dico in quanto, da una parte io non ricordo affatto che si sia tenuto un tale colloquio, e dall'altra, data la sua rilevanza, indubbiamente avrei dovuto adesso ricordare".

[11] Minetto, p. 18,  ha affermato che il suo rapporto con i Soffiati, di cui non ha ricordato neanche i nomi di battesimo, fu determinato dal fatto che al rientro in Italia andò a vivere a Colognola ai colli, precisando che entrò a casa Soffiati solo un paio di volte per effettuare riparazioni al frigorifero (p. 24) e una volta andò in trattoria ma sempre per motivi di lavoro (p. 28). Quanto agli altri esponenti della destra, la loro conoscenza fu determinata dal rapporto con Soffiati, presso la cui trattoria incontrò Bandoli (p. 33) e tramite il quale conobbe Persic (p. 31) e Maggi (p. 40-41).

[12] Minetto, p. 18.

[13] Minetto, p. 33, ha così descritto Bandoli:

P.M. - Senta, Lei ha conosciuto Bandoli?

T. - Bandoli era uno che faceva servizio agli americani, veniva sempre a Colognola.

P.M. - Al servizio di quali americani?

T. - Americani.

P.M. - Di quali americani?

T. - Di quelli che erano lì a Passalacqua.

P.M. - A Verona?

T. - Sì.

P.M. - E cosa veniva a fare a Colognola?

T. - Era amico di Soffiati.

P.M. - Quindi, l'ha conosciuto attraverso Soffiati o lo conosceva già?

T. - No, l'ho conosciuto attraverso Soffiati perché metteva la macchina lì.

P.M. - Cioè, uno di quegli americani che quando arrivavano non si poteva frequentare la casa di Soffiati padre?

T. - Sì, quando c'era lui c'erano anche gli altri.

P.M. - E Lei come mai, invece, aveva avuto la possibilità di conoscerlo, visto che il Soffiati padre non voleva che si andasse a casa sua quando c'erano gli americani?

T. - Perché Bandoli veniva anche da solo lì, allora quando  veniva da solo stava lì fuori sotto il piazzale.

P.M. - Sulle panchine, su quelle panchine che diceva davanti alla casa di Soffiati?

T. - Sì, è lì che l'ho conosciuto.

P.M. - Sulla panchina?

T. - Sì, di fuori.

P.M. - Ha avuto poi occasione di frequentarlo o no?

T. - No, io sono andato una volta quando si è sposata, o ha fatto il coso la figlia.

P.M. - Non ho capito, è andato una volta quando?

T. - La figlia si doveva spostare.

P.M. - La figlia di Bandoli.

T. - Di Bandoli, ed  allora aveva fatto la festa in un bar.

P.M. - A Verona o a Colognola?

T. - A Verona, allora,  è stato Persic che è venuto, è passato da me e ha detto "devi venire anche tu stasera che c'è il rinfresco", io dico "ma il rinfresco di chi", "è il rinfresco della figlia di Bandoli". Però io sono andato che era verso le nove di sera, perché non potevo andare prima.

P.M. - Ma a parte questo rinfresco ha avuto occasione di  frequentarlo qualche altra volta?

T. - No, no sono andato solo quella volta lì.

P.M. - Ma lo conosceva già quando è andato al rinfresco?

T. - Chi? Bandoli?

P.M. - Lei Bandoli lo conosceva già quando è andato al rinfresco?

T. - Sì, sì.

P.M. - Quindi, l'ha visto una volta sulle panchine davanti alla casa di Soffiati padre...

T. - 2 o 3 volte, perché era sempre a Colognola, la domenica era sempre lì.

P.M. - Ma Lei non ci andava quando c'era lui però, se non ho capito male.

T. - Quando c'erano le altre macchine.

P.M. - Quando era da solo sì, invece?

T. - Quando era da solo era sempre lì fuori.

P.M. - E poi dopo l'ha visto a questo rinfresco?

T. - Sì.

P.M. - All'interno della caserma mai?

T. - No, no mai.

[14] Minetto, p. 24.

[15] Minetto, p. 28-30.

[16] Minetto conobbe Persic a casa Soffiati (anche se aveva dichiarato in precedenza di esservi entrato solo una o due volte e sempre per riparare frigoriferi) e lo frequentò occasionalmente (ancora solo un paio di volte) – p. 31-32. Non ricorda di aver conosciuto Benito Rossi, pur non escludendo di averlo potuto conoscere a Colognola ai colli (p. 35).

[17] Minetto, p. 36-38.

[18] Minetto, p. 35-36

[19] Minetto, p. 38-40.

[20] Minetto, p. 48.

[21] Minetto, p. 49.

[22] Minetto, p. 52.

[23] Minetto, pp. 21-22, ha così ricostruito la sua frequentazione della caserma:

T. - E poi ho lavorato lì 2 anni da questo Aldegheri, che era quello che forniva gli americani di frigoriferi ed arredamenti per bar.

P.M. - Cosa vuol dire che forniva gli americani?

T. - Perché lui...

P.M. - No, è questo "gli americani" in generico che volevo capire?

T. - Faceva frigoriferi, armadi per cucina e banchi bar, e ha fornito anche gli americani di quel prodotto lì.

P.M. - Cioè americani?

T. - A Verona.

P.M. - Immigrati in Italia? Cioè, famiglie americane che erano immigrate in Italia?

T. - Era la Passalacqua di Verona, erano americani eh.

P.M. - Ma forniva la caserma, o riforniva le famiglie?

T. - Forniva gli americani di banchi bar, perché c'erano i bar dentro.

P.M. - Quindi la caserma in sostanza?

T. - Sì la caserma.

P.M. - Era per capire.

T. - Era una caserma, era la Passalacqua che adesso è passata al Comune di Verona.

P.M. - E quindi, poi ha sempre lavorato per questo signore, quindi?

T. - Ho lavorato fino al '62 per questo signore, '63, poi mi sono messo per conto mio.

P.M. - Per conto suo che cosa faceva?

T. - Riparavo frigoriferi.

P.M. - Ha continuato anche a riparare frigoriferi anche per gli americani, come ha detto Lei?

T. - No basta, perché quando si lavorava per la ditta Aldegheri ci faceva il permesso per andare dentro a lavorare, perché non c'ero mica solo io, c'erano i falegnami, c'erano gli idraulici, c'erano elettricisti che davano dentro  a lavorare, ed io ero addetto al frigorifero.

P.M. - Quindi, scusi, per capire, Lei ha avuto occasione di entrare in questa caserma fino al '62, '63 se non ho capito male?

T. - Sì.

P.M. - Successivamente mai più?

T. - No basta.

P.M. - Ha avuto occasione di entrare anche nella base di Affi?

T. - No mai. Ossia, una volta sono entrato perché sono dovuto andare nella cucina di quella base lì, perché c'era un frigorifero che non funzionava, e siccome era stato (pp.ii. pronuncia non chiara) dalla ditta Aldegheri, allora sono andato dentro a vedere cosa aveva questo frigorifero.”

[24] Così Giraudo, u. 15.12.2000,  p. 142.

[25] Minetto, p. 19-20, ove ha dichiarato che vi si recò solo per incontrare qualche vecchio commilitone.

[26] Minetto, p. 73-75.

[27] Anche Minetto è stato uno di quei testimoni che hanno addebitato a Giraudo comportamenti se non illegittimi, scorretti. Secondo il teste Giraudo, negli intervalli dell’interrogatorio svolto dal P.M. e dal G.I. di Milano, lo avrebbe invitato ad ammettere la sua appartenenza ai servizi segreti e ad invocare il segreto di Stato. La Corte non può che ribadire l’assoluta inverosimiglianza di tale affermazione, che si fonda su un assunto (cioè la scorrettezza di Giraudo nello svolgimento delle indagini) smentito costantemente in questo dibattimento, dal quale è emersa una professionalità e correttezza dell’ufficiale dei Carabinieri incompatibile con tutte le illazioni o le accuse esplicite a lui rivolte da imputati e testimoni inattendibili. Giraudo ha certamente prospettato a Minetto i vantaggi che gli sarebbero potuti derivare da una collaborazione con l’autorità giudiziaria, ma è del tutto inverosimile che l’ufficiale abbia indotto il teste a non rivelare le circostanze a sua conoscenza prospettando il suo diritto al segreto (del tutto privo di fondamento).